VIA RASELLA: APPUNTI SUL DIBATTITO IN CORSO

di Federigo Argentieri -

 

Interessanti sviluppi nella discussione storica sull’attentato di via Rasella e la rappresaglia alle Fosse Ardeatine, già trattate in questa rivista nel luglio e novembre 2015. Un articolo apparso sul “Corriere della Sera” ha suscitato nuove polemiche e prese di posizione su Facebook e portali web.

 

Lo scorso anno pubblicai su La Lettura (supplemento del “Corriere della Sera”, 12 maggio 2019) l’articolo riprodotto qui sotto, con l’obiettivo di evidenziare alcuni aspetti poco chiari dell’attentato messo a segno dai gappisti della Resistenza romana a via Rasella il 23 marzo 1944. La vicenda, com’è noto, causò la morte di più di trenta militi della Wehrmacht e la successiva rappresaglia alle Fosse Ardeatine, costata la vita a 335 persone. Ripropongo qui il mio pezzo (ringraziando il “Corriere della Sera” per la cortese disponibilità) perché a questo seguirono, nei giorni e nei mesi successivi, prese di posizione su portali web e su Facebook che contribuiscono a dare la dimensione di quanto il tema rappresenti ancora un nervo scoperto nella storia della Resistenza romana e dei rapporti di forza al suo interno. Ma procediamo con ordine.

I comunisti e via Rasella: l’attentato inspiegabile (da La Lettura, 12/5/2019)
Maurizio Giglio era nato a Parigi nel 1920 da famiglia italiana. Diplomato al liceo Mamiani di Roma e laureato in giurisprudenza, seguì un corso per allievi ufficiali e nel 1940 fu mandato al fronte francese, poi a quello greco-albanese. Ferito, rientrò a Roma e l’8 settembre 1943 partecipò alla battaglia di Porta San Paolo contro i nazisti, al termine della quale si rifugiò a Napoli non appena cadde in mano agli Alleati, con cui prese subito contatto: lo inserirono nell’Office of Strategic Service (precursore della Cia), dandogli il nome in codice di «Cervo». Rientrato a Roma con grandi difficoltà il 28 ottobre, con l’aiuto del padre, che lavorava al ministero dell’Interno, si arruolò nella polizia come tenente ausiliario. Aveva portato con sé una radiotrasmittente di fabbricazione americana e ricevuto l’incarico di stabilire una rete d’informazione tra la Resistenza e gli Alleati. Il 17 marzo 1944, dopo quattro mesi e mezzo di attività utilissima svolta con l’agente americano Peter Tompkins, fu catturato dai fascisti della banda Koch e brutalmente torturato per una settimana, senza dire una parola sulla sua rete di contatti. In seguito all’attentato di via Rasella, avvenuto il 23 marzo, fu ucciso alle Fosse Ardeatine. Sua sorella Giulia Adriani racconta che negli anni Cinquanta ricevette la visita di alcuni esponenti del Pci, i quali le chiesero se era disposta a dichiarare pubblicamente che Maurizio Giglio era un simpatizzante di quel partito: rispose di no, che le dispiaceva, ma suo fratello era un liberale moderato mantenutosi fedele fino all’ultimo al giuramento fatto al re.
Adriana Montezemolo, figlia di Giuseppe, il capo di tutta la Resistenza militare e la vittima più illustre della rappresaglia nazista, ha dichiarato tempo fa di non aver mai sentito nominare pubblicamente suo padre come figura fondamentale della Resistenza fino all’aprile del 1965: nel caso di Giglio, ignoto ai più benché anch’egli insignito di medaglia d’oro alla memoria, l’attesa si protrasse per altri trent’anni, quando una lapide fu inaugurata sul muro del palazzo romano dove abitava e dove la famiglia continua ad abitare. Armando Giglio, padre di Maurizio, nei primissimi anni del dopoguerra presiedette l’Associazione delle famiglie dei martiri, ma fu sostituito senza apparenti motivazioni da esponenti di maggiore rilievo e affidabilità politica.
Il dottor Attilio Ascarelli era un medico legale che nel luglio 1944 fu incaricato di esaminare i resti delle 335 vittime della rappresaglia, cinque delle quali restano tuttora non identificate. Svolse una perizia scrupolosa, al punto che una lapide lo ricorda nel mausoleo costruito sul luogo dell’eccidio: non si limitò a descrivere lo stato dei resti, ma ricostruì con cura le biografie essenziali dei caduti, compresa la loro affiliazione politica. Quest’ultima però appare soltanto nel volume pubblicato pochi anni fa dagli allievi di Ascarelli in occasione del cinquantennale della sua morte, mentre Alessandro Portelli non ne fa alcuna menzione nel suo pur pregevole saggio L’ordine è stato eseguito. Da queste schede si desume che delle 330 vittime identificate, i gruppi più numerosi erano i cittadini di religione ebraica (circa 75), quasi tutti razziati poco prima della rappresaglia e uccisi come tali, e gli appartenenti al Movimento comunista d’Italia (rivale del Pci), più noto come Bandiera rossa (68). Seguivano il Partito d’Azione con 52 vittime e gli appartenenti alle Forze Armate, soprattutto esercito e carabinieri, con un numero quasi uguale; infine, gli appartenenti al Pci (tra i 25 e i 30) e al Partito socialista, una ventina. Le rimanenti trenta salme circa erano di esponenti di partiti minori, o di persone senza affiliazione.
È opportuno precisare che, mentre le vittime di religione ebraica — come anche gli appartenenti ai partiti comunista e socialista — erano tutte di modesta estrazione sociale e/o di poco peso politico, i caduti degli altri gruppi — ossia Bandiera rossa, azionisti e militari, circa 170 in tutto — erano un’élite importante, sia dal punto di vista dell’estrazione sociale che da quello del ruolo svolto nella Resistenza; non solo, ma pur intrattenendo rapporti di solidarietà e collaborazione, rivendicavano a ogni possibile occasione la propria autonomia e indipendenza, nei confronti sia delle grandi potenze sia delle forze politiche di massa ricostituitesi a partire dal 25 luglio 1943.
L’attentato di via Rasella e la rappresaglia che ne seguì hanno compiuto 75 anni e sono diventati uno degli emblemi più evidenti della discordia che c’è nel Paese in materia di memoria storica. Nonostante vari processi sempre arrivati all’ultimo grado di giudizio, una memorialistica abbondante, l’esistenza di un museo — quello fondato oltre sessant’anni fa a via Tasso, dove si trovavano i quartier generale e la prigione delle SS — il cui obiettivo istituzionale è trasmettere la conoscenza dei fatti storici e vincolare il più possibile la popolazione, in particolare i giovani, ai valori fondanti della Repubblica italiana, il peso di gravi omissioni, reticenze, errori compiuti sia in ambito politico che storiografico è ancora plumbeo e ciò facilita non solo il diffondersi dell’ignoranza, ma anche i proclami fascisti che avrebbero dovuto essere sepolti tre quarti di secolo fa.
Il giornalista Pierangelo Maurizio, che da oltre vent’anni cerca con paziente opera di «cronista», come ama definirsi, di alleggerire il peso di cui sopra, ha dovuto pubblicare tutti i suoi libri (molto spesso citati) in proprio, come i dissidenti dell’Est sotto il comunismo, per il rifiuto opposto da numerose case editrici. Alcuni lo hanno accusato di «fascismo», ma ha continuato ad andare avanti. Gabriele Ranzato, nel volume La Liberazione di Roma (Laterza), lo definisce «confuso», ma ricava molti dati dai suoi studi e non giunge a conclusioni definitive su via Rasella.
La verità è che l’attentato e la rappresaglia aspettano ancora di essere ricostruiti in modo convincente. Le 33 vittime erano dei coscritti di etnia tedesca trentini, altoatesini e bellunesi, quasi tutti cattolici, ma la bomba uccise anche un ragazzino innocente, Piero Zuccheretti, e un partigiano di Bandiera rossa, Antonio Chiaretti, la cui presenza sul luogo rimane senza spiegazione. L’azione fu decisa in ambito comunista senza consultare gli altri partiti del Cln. La rappresaglia era prevedibilissima e decapitò la componente della resistenza filo-monarchica, e della sinistra non comunista o non affiliata al Cln. Adriana Montezemolo racconta che una sola volta incontrò Carla Capponi, la partigiana medaglia d’oro corresponsabile dell’attentato, che le venne incontro sorridendo e la salutò con calore: fu ricambiata con cortese freddezza e non si rividero mai più.

Dieci giorni dopo la pubblicazione, il portale DinamoPress ospitava questa risposta di Ilenia Rossini, docente a contratto in Storia contemporanea presso l’Università La Sapienza.

La leggenda nera di via Rasella: ancora revisionismo sul Corsera (da Dinamo Press, 22/5/2019)
Se ci sono delle costanti nella storia italiana, una di esse si può certamente rintracciare nella difficoltà a considerare legittima la pratica della resistenza, tanto di quella attiva quanto di quella passiva. Una tendenza che percorre trasversalmente la storia d’Italia e arriva fino all’odierno ciclo politico reazionario, con la proposta contenuta nel “pacchetto sicurezza bis” di inasprire le pene non solo per chi si oppone a pubblici ufficiali praticando una resistenza attiva, ma anche per chi ne pratica una passiva, utilizzando «scudi e altri oggetti di protezione» ai «materiali imbrattanti».
È in questo contesto culturale, dunque, che nel corso degli ultimi settant’anni si è radicata una delle più potenti leggende nere della Resistenza italiana, quella che riguarda l’attentato partigiano di via Rasella e il suo legame con la strage delle Fosse Ardeatine. Non si vuole, ovviamente, diventare banali affermando che il discredito gettato su via Rasella serva a legittimare i provvedimenti odierni, o alludere a ciò. Ma certamente l’uno e gli altri pongono le loro radici nello stesso humus politico e culturale, generalmente attendista e ostile alla resistenza attiva.
Momentanea ultima puntata della “leggenda nera di via Rasella” è stata la pubblicazione sul «Corriere della sera» del 12 maggio di un articolo intitolato I comunisti e via Rasella. L’attentato inspiegabile a firma di Federigo Argentieri, professore di Scienze politiche alla John Cabot University. L’articolo, sicuramente più inspiegabile dell’azione partigiana di cui parla, fa riferimento al «peso di gravi omissioni, reticenze, errori compiuti sia in ambito politico che storiografico» e innalza a faro in queste tenebre i libri pubblicati da Pierangelo Maurizio, dipinto come un perseguitato che «ha dovuto pubblicare tutti i suoi libri (molto spesso citati) in proprio, come i dissidenti dell’Est sotto il comunismo, per il rifiuto opposto da molte case editrici». Che Maurizio sia citato è indubbio: lo è, però, come autore di tesi revisioniste e per nulla convincenti.
Giornalista del «Tempo», del «Giornale», del «Borghese», di «Libero», oggi della «Verità» di Belpietro – quotidiani sulla cui onestà intellettuale qualcosina si potrebbe eccepire – Maurizio è autore non solo di un volume su via Rasella intitolato Via Rasella, cinquant’anni di menzogne pubblicato nel 1996, ma anche di uno su piazza Fontana in cui mette in discussione l’esistenza della strategia della tensione (Piazza Fontana, tutto quello che non ci hanno detto). Un bel tipo, insomma.
Proprio Maurizio, inoltre, nel 1996 aveva firmato il celebre articolo sul «Tempo» in cui furono mostrate per la prima volta le presunte foto del corpo senza vita di Piero Zuccheretti, il tredicenne che rimase accidentalmente vittima dell’attentato di via Rasella, poi riprese con grande clamore dal «Giornale». Nel 2003 la corte d’appello di Milano condannò Feltri – allora direttore del «Giornale» – e l’editore del quotidiano a versare 45mila euro al gappista Rosario Bentivegna – che materialmente il 23 marzo 1944 portò la bomba a via Rasella – come “risarcimento danni” per aver pubblicato tali fotografie, giudicate dei falsi.
Nonostante sull’inattendibilità di Maurizio sembrerebbe esserci poco da discutere, sulle colonne del «Corriere» vengono riproposte acriticamente le sue tesi, giungendo a questa conclusione: «la verità è che l’attentato e la rappresaglia aspettano ancora di essere ricostruiti in modo convincente. […] L’azione fu decisa in ambito comunista senza consultare gli altri partiti del Cln. La rappresaglia era prevedibilissima e decapitò la componente della resistenza filo-monarchica, e della sinistra non comunista o non affiliata al Cln».
Il fatto che l’attentato e la rappresaglia non siano ancora stati ricostruiti in modo convincente è un’affermazione del tutto aleatoria: cosa non convince Argentieri? Cosa vorrebbe fosse meglio indagato? Certo, ci sono delle discrepanze nelle memorie dei protagonisti degli attentati (anche tra quelle di Rosario Bentivegna e di Carla Capponi, entrambi presenti sul luogo, che in seguito si sposarono e che dunque avrebbero avuto tempo per “escogitare” una versione alternativa e solida, se avessero voluto nascondere qualcosa), ma da qui a dire che le ricostruzioni attuali non siano convincenti ce ne passa. Anzi, le discrepanze sono generalmente proprio una manifestazione del fatto che ci si trovi davanti a memorie disinteressate.
Che l’azione non fosse stata decisa senza consultare il Cln è, invece, del tutto scontato: all’interno del Comitato di liberazione nazionale i partiti avevano piena autonomia per quanto riguardava la lotta armata e i tentativi dei democristiani, dopo la strage delle Fosse Ardeatine, di sconfessare pubblicamente l’attentato di via Rasella furono arginati dagli altri partiti, compresa la destra liberale, il cui rappresentante affermò che il Cln doveva assumersi la piena responsabilità di tutte le azioni armate contro il nemico.
Quanto alla presunta “decapitazione” di correnti di resistenza ostili al Pci si tratta di un’invenzione. Scrive Ranzato nel suo recente volume La liberazione di Roma (tra l’altro richiamato sul «Corriere» nel colonnino accanto all’articolo), che il PdA [Partito d’azione] ebbe, tra tutti i partiti antifascisti, il più alto numero di vittime nella rappresaglia, oltre 40, e il PSIUP circa 15. Quale pericolo costituissero quegli uomini tra cui non emergevano personalità ostili al PCI, che di vittime ne ebbe 29, non è dato sapere. Anche l’eliminazione dei 20 ufficiali che furono uccisi alle Ardeatine non sguarniva di certo granché i comandi dell’esercito badogliano qualora si fosse dovuti arrivare con esso a una prova di forza. Tanto meno può avere fondamento la tesi che l’attentato avesse di mira l’annientamento del gruppo dirigente di Bandiera Rossa, tra le cui 32 vittime accertate della rappresaglia soltanto 7 […] possono considerarsi dei quadri direttivi, mentre altri di questi o furono fucilati dai tedeschi in più occasioni al Forte Bravetta oppure in buon numero si salvarono. L’eventuale persecuzione da parte del PCI non ha del resto impedito che fin dall’immediato dopoguerra una gran quantità dei militanti di Bandiera Rossa confluisse nelle file del Partito Comunista. (pp. 415-416)
Posto che il libro di Maurizio a cui si fa riferimento è uscito oltre 20 anni fa (nell’articolo si cita una nuova edizione del 2017, alla quale però non si trova accenno nel sistema bibliotecario nazionale) e che da allora molto altro e molto di meglio è stato scritto in merito. È l’articolo stesso del «Corriere» a risultare inspiegabile, anche alla luce del fatto che l’occhiello menziona una polemica. C’è una polemica in corso su via Rasella? Ci sono novità storiografiche? O le uniche polemiche sono sempre le solite palle revisioniste che vanno avanti imperterrite da decenni e alle quali, evidentemente, il «Corriere» ha deciso di prestare il fianco?
Accanto all’articolo una colonnina fa riferimento alla pubblicazione del recente libro di Ranzato, ma – come abbiamo visto – nell’articolo di Argentieri il contenuto di questo volume (non sempre condivisibile sotto il profilo politico, ma certamente misurato e circostanziato) non viene minimamente tenuto in considerazione. Tra l’altro, insieme al volume di Ranzato, nella bibliografia di libri su via Rasella proposta fa bella mostra anche il Diario inedito (1943-44) di Luigi Federzoni, cioè di uno dei principali gerarchi fascisti, poi condannato all’ergastolo dall’Alta corte di giustizia dopo la guerra (e amnistiato nel 1947). Francamente uno che è un po’ difficile considerare come degno di avere qualcosa da dire sull’attentato di via Rasella.
Se si volesse parlare del binomio via Rasella-Fosse Ardeatine e farlo con uno sguardo rivolto alle novità, si potrebbe fare. Poche settimane fa, proprio su queste pagine, si parlava ad esempio della piattaforma documentale sperimentale ViBia (Virtual Biographical Archive victims of Fosse Ardeatine), attraverso la quale si sta elaborando una raccolta di oggetti, dati, ricordi scritti e orali di testimoni e familiari delle vittime delle Fosse Ardeatine. Un tentativo che guarda alla complessità, alle contraddizioni e al dolore e che, per questo, è tutt’altro che facile.
Se si volesse, appunto.

L’articolo è significativo perché anticipa quanto accaduto in seguito su Facebook. Nella pagina Roma città aperta – Gli anni della guerra, molto ricca in documentazione fotografica e non, lo scorso 23 marzo ho postato il mio I comunisti e via Rasella: l’attentato inspiegabile. Il risultato è stato di un discreto numero di approvazioni unito a una serie di accese prese di posizione. Risparmio al lettore i dettagli del “trollaggio” a cui sono stato sottoposto: invece pubblico qui di seguito un estratto delle due risposte alle critiche ricevute, che come al solito mai erano relative ai fatti.
Interessante che l’unica imprecisione fattuale da me commessa, relativa al gappista Antonello Trombadori, che ho collocato fuori dal carcere di Regina Coeli mentre invece si trovava in infermeria (il che comunque gli consentì di non essere incluso nella lista delle persone da fucilare), è stata ingigantita ad arte da trolloni e trollini, manco avessi scritto che Stalin era amico di Trotsky e Hitler degli ebrei.
A proposito, due soli appunti (tra i numerosi possibili) a Rossini. Primo: citando Luigi Federzoni, il cui diario ho “osato” elencare nella bibliografia, scrive che fu condannato all’ergastolo nel 1947, cosa certa, ma omette completamente che in precedenza, nel 1944, era stato condannato a morte (sia pure in contumacia) a Verona dal tribunale di Salò, assieme a Bottai, Ciano, De Bono, Grandi e tutti gli altri, per aver ROVESCIATO MUSSOLINI E IL SUO REGIME il 25 luglio 1943; un’omissione non da poco, direi. Secondo: le cifre di Ranzato sull’affiliazione politica delle vittime sono traballanti e contraddittorie, poiché egli non utilizza tutto il materiale dell’archivio Ascarelli, pur raccolto in volume, ma solo testi antichi e datati.

Da Facebook, gruppo ROMA CITTA’ APERTA – Gli anni della guerra (24/3/2020)
«In linea di principio, secondo me bisogna spostare l’attenzione dal rapporto attentato-rappresaglia al PCI di inizio 1944 e collocare via Rasella nel contesto della Resistenza europea, altrimenti non se ne esce (ammesso che se ne esca mai un giorno).
Via Rasella fu di gran lunga l’attentato di maggior effetto di tutta la Resistenza europea. Effetto solo numerico, perché i Bozen come sappiamo non avevano rilevanza nei comandi o altro. Il paragone con l’operazione Antropoid, ossia l’attentato a Heydrich di quasi due anni prima a Praga, è legittimo, dato che quello fu l’attentato di maggior effetto politico. Non posso che ripetere la mia domanda: voi veramente pensate che un’azione così clamorosa contro i tedeschi potesse non comportare una rappresaglia enorme? Inizialmente Hitler in persona chiese 50 italiani per ogni “tedesco” (in realtà erano sudtirolesi). Le azioni precedenti al 23 marzo non fanno testo, tanto è vero che il PCI di Milano continuava a dare degli “attendisti” ai romani e li sgridava per la mancanza di iniziativa. Giorgio Amendola, che decise l’azione, era ancora abbastanza giovane (37 anni) e inesperto, era ancora “il figlio di”. Poteva non sapere cosa sarebbe successo? Secondo me no, se non altro perché Montezemolo, che conosceva bene i tedeschi e con cui Amendola aveva buoni rapporti, lo ripeteva in continuazione.
Via Rasella, contrariamente a Antropoid, fu un’azione settaria, ossia solo del PCI, avvallata dagli altri partiti del CLN solo in seguito e non senza discussioni molto accese. Antropoid fu decisa a Londra dopo o durante la visita di Molotov, dunque fu approvata da tutti i partiti antinazisti e pianificata in dettaglio, mettendo in conto anche una rappresaglia tremenda, vista l’importanza di Heydrich. Nonostante Lidice, oggi nessunissimo discute, né in Cecoslovacchia né altrove, l’opportunità di quell’atto e i due partigiani che si suicidarono dopo aver resistito per ore barricati dietro l’altare di una chiesa sono venerati come eroi. Perché? Perché agirono a nome di tutta la Resistenza e non come una fazione di essa.
Amendola e il PCI sapevano di certo chi era a via Tasso e chi a Regina Coeli. Non era difficile, lo sapevano tutti. Fu un’azione decisa a freddo anche per distruggere i rivali, come scrive Massimo Caprara?
Non lo so. Di sicuro il PCI nei sette anni precedenti aveva condotto una campagna martellante contro azionisti e trotzkisti, fino ad applaudire con ferocia alle picconate in testa di Coyoacán di appena tre anni e mezzo prima. Bandiera rossa era trotzkista? No, come non lo era il POUM catalano annientato nel maggio 1937. Ma Stalin chiamava trotzkisti tutti coloro che non obbedivano a lui, mi auguro che su questo non ci siano dubbi. E se guardiamo l’Unità clandestina del periodo precedente a via Rasella capiamo che verso Bandiera rossa, che era semplicemente un gruppo comunista autonomo come il POUM, non si nutrivano sentimenti fraterni. Oltretutto, proprio azionisti e Bandiera rossa erano insofferenti alla stessa idea di CLN.
Infine i militari “badogliani“. Proprio venti giorni prima di via Rasella, Stalin aveva detto a Togliatti di riconoscere il governo italiano e di rinviare al dopoguerra la questione istituzionale, ma Amendola non lo seppe fino a quattro giorni dopo l’azione, il 27 marzo a Salerno. Dunque via Rasella fu compiuta in un contesto di alleanza solo occasionale tattica e non strategica coi militari, i cui consigli e le cui raccomandazioni potevano essere ignorate senza troppi problemi, ma soprattutto che erano visti come i prossimi avversari. Esemplare in questo senso la testimonianza di una partecipante della Resistenza romana: «”Non avete qualche contatto utile con i militari?” chiesi un giorno ad un esponente comunista che non sapeva di che cosa io fossi a conoscenza. Penso che si ricorderà bene di avermi risposto: “Sì, abbiamo un colonnello, piemontese monarchico, ma poi all’ultimo momento lo facciamo fuori”» . (Cfr. il mio articolo in Storia in Network, luglio 2015).
E’ su questi elementi che secondo me si dovrebbe continuare a lavorare, ma non è facile, visto il clima. A 75 anni dalla Liberazione stiamo ancora troppo spesso a livelli di settarismo pazzeschi. Diamoci una bella calmata e ragioniamo sui fatti».

Da Facebook, gruppo ROMA CITTA’ APERTA – Gli anni della guerra (25/3/2020)
«Buongiorno, ecco i miei chiarimenti. Premessa: conosco i due massimi esperti del periodo, Portelli e Ranzato, abbiamo anche collaborato ad un recente libro, insieme a molti altri colleghi (Calendario civile europeo, a cura di Angelo Bolaffi e Guido Crainz, Roma, Donzelli 2019).
1) Attentati prima di via Rasella. Soprattutto prima di Anzio, i tedeschi tacciono, coprono e non fanno rappresaglie (visibili). È chiaro che un botto pazzesco due mesi dopo Anzio è un’altra cosa, o no? E io non giustifico un bel nulla, ribadisco che dopo un’azione del genere anche un relativo pivello come Amendola doveva aspettarsi una reazione tedesca, in base a quello che per tutto il periodo 10 settembre-25 gennaio gli aveva detto Montezemolo (che aveva partecipato al vertice Mussolini-Hitler a Feltre nel luglio precedente) e in base ai quattro anni e mezzo precedenti di occupazione nazista in Europa. Non se l’aspettava? Possibile. Aspettiamo risposte definitive, se mai verranno.
2) Portelli. Il suo libro è importantissimo e giustamente noto perché non usa la damnatio memoriae che il Pci e Stalin avevano ripreso da Roma antica passando per l’inquisizione e che gli altri partiti non avevano contestato (anche perché Bandiera rossa e P. d’Az. non avevano successori, come rilevato da Portelli stesso). Il babau Pierangelo Maurizio è citato tutte le volte che serve senza insultarlo o dileggiarlo pur criticandolo fortemente. Tutte le vittime sono rispettate nella loro identità politica precisa e non ammassate confusamente come nei primi vent’anni del dopoguerra.
3) Pierangelo Maurizio: io non necessariamente sono d’accordo con lui, ma mi urtava che non fosse considerato un interlocutore legittimo (anche se pluricitato). Ora lo è di più e va meglio. Rossini: il fatto che la seconda edizione del suo libro sia tuttora assente dal catalogo OPAC conferma quello che ho scritto: in compenso è disponibile presso la BSMC, alias Caetani. Dettagli interessanti disponibili su richiesta.
4) Trombadori: molto interessante che Portelli neghi che ci possa essere stata una complicità poliziesca nel suo ricovero in infermeria, mentre Ranzato la ipotizza eccome.
5) Concludo con la bibliografia (aggiornata) del mio articolo che non è riportata nel Press Reader:
Mario Avagliano, Il partigiano Montezemolo – Storia del capo della resistenza militare nell’Italia occupata, Milano, Baldini&Castoldi, 2014;
Martino Contu, Mariano Cingolani, Cecilia Tasca, I martiri ardeatini – Carte inedite 1944-1945 in onore di Attilio Ascarelli a 50 anni dalla scomparsa, Cagliari, AM&D, 2012;
Luigi Federzoni, Diario inedito (1943-44), a cura di Erminia Ciccozzi, Firenze, Angelo Pontecorboli editore, 2019;
Roberto Gremmo, I partigiani di “Bandiera Rossa” – Il “Movimento Comunista d’Italia” nella Resistenza romana, Biella, Storia Ribelle, 2015;
Luigi Iaquinti, Via Rasella e le Fosse Ardeatine. Una storia da riscrivere?, Roma, GB EditoriA, 2013;
Pierangelo Maurizio, Via Rasella, (cinquant’anni) 70 anni di menzogne, Roma, Maurizio edizioni, 2017;
Giuseppe Mogavero, I muri ancora ricordano… Epigrafi, monumenti e memorie della guerra e della Resistenza a Roma (1943-1945), Bolsena (VT) 2016;
Alessandro Portelli, L‘ordine è già stato eseguito – Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria – Con una Postfazione 2019 dell’autore, Roma, Donzelli 2019;
Gabriele Ranzato, La liberazione di Roma – Alleati e Resistenza, Roma-Bari, Laterza 2019».

Tirando le somme, quanto esiste di difesa ideologica d’ufficio e quanto di discussione storiografica seria su questo argomento come sulla Resistenza in generale? Difficile rispondere. Certo è che per quanto mi riguarda, la voce supertroll “Teoria del complotto su via Rasella” di Wikipedia è grottesca. Io non teorizzo un bel nulla, storia e teorie di ogni tipo hanno sempre fatto a pugni tra di loro e continueranno così per omnia saecula saeculorum. Registriamo il fatto che dopo appena 76 anni si ammetta, sia pure malvolentieri, che il povero Pietro Zuccheretti fu maciullato dall’esplosivo: essendo un ragazzino, è quasi certo che si trovasse lì per caso e che la sua morte fosse accidentale. Molto più inquietante dal punto di vista politico la morte di Antonio Chiaretti, che era un dirigente di Bandiera Rossa e fu investito dallo scoppio anche lui, ma che è tuttora una non persona. Fino a quando? Fino a quando il museo di via Tasso avvallerà tutte le reticenze (ampi dettagli disponibili su richiesta)? Perché i trolleologi (troll+ideologi) non capiscono che le difese d’ufficio e le reticenze alimentano falsità e leggende, mentre trasparenza e verità si alimentano e completano a vicenda? Esemplare in tal senso quella secondo cui “gli autori dell’attentato dovevano consegnarsi per evitare la rappresaglia”, tipica della destra che ha sempre puntato a delegittimare la Resistenza: non sta in piedi ma continua a circolare con ripetitività velenosa. Finché dureranno questi atteggiamenti, sarà impossibile valutare la Resistenza romana e quella di tutto il Paese per quello che veramente furono, con tutta la forza e le debolezze, gli eroismi e le viltà, i calcoli e i tradimenti, eccetera: gli anniversari continueranno a somigliare a scontri tra tifoserie rivali, i giovani non capiranno e l’identità repubblicana continuerà a essere incompleta.