VIA RASELLA, DONATO CARRETTA E L’OMBRA LUNGA DEL PCI

di Federigo Argentieri -

Secondo Pierangelo Maurizio, attento conoscitore di una della pagine più buie della Resistenza, il direttore di Regina Coeli fu ucciso perché «era un testimone scomodo dei maneggi avvenuti intorno alle liste dei detenuti politici mandati al massacro delle Fosse Ardeatine». Lo spiega in questa intervista citando un eccezionale documento che chiama in causa i vertici del PCI. Ma non è l’unica rivelazione, perché è tutta la vicenda dell’azione in via Rasella e dell’eccidio delle Fosse Ardeatine a essere punteggiata da una sequenza di omissioni, sviste e verità negate. Dal marzo 1944 fino ai giorni nostri.

 

Inviato del Tg5 e ora di Quarto grado, Pierangelo Maurizio ha cominciato molto giovane all’”Espresso” e al quotidiano “Repubblica”, dove ha lavorato come caposervizio fino al 1994. Ha poi maturato varie esperienze all’”Indipendente”, al “Tempo” e a “Il Giornale” con Vittorio Feltri e Maurizio Belpietro. Nel 1996 ha iniziato a occuparsi dell’attacco partigiano a via Rasella, a Roma, e della conseguente rappresaglia delle Fosse Ardeatine. Ne sono nati tre libri pubblicati in proprio: Via Rasella, cinquant’anni di menzogne (Maurizio Edizioni, 1996) ripubblicato in versione riveduta e ampliata 17 anni dopo, intitolata Via Rasella, cinquant’anni 70 anni di menzogne (Maurizio Edizioni, 2013); e Roma ’44, i signori del terrore, Maurizio Edizioni, 1997.
Con lui cerchiamo di mettere a fuoco i punti oscuri di quell’episodio che probabilmente segnò una svolta nei destini di una parte consistente della Resistenza romana e poi del grande gioco della ricostruzione delle istituzioni e della leadership comunista nell’immediato dopoguerra.

Federigo Argentieri: Come ha iniziato a occuparsi di questo tragico episodio della storia di Roma sotto l’occupazione nazista?
Pierangelo Maurizio: Inciampai nella storia di via Rasella da semplice cronista, anche se a cinquant’anni dagli eventi (era il 1996). Scrissi diversi articoli su “Il Tempo”, fino a quando, dopo aver ottenuto un’intervista a Rosario Bentivegna mi resi conto che oltre ai fatti di cronaca, nascosti, taciuti o cancellati, la versione offerta da quello che era il protagonista numero uno della vicenda non stava in piedi dal punto di vista della ricostruzione dei fatti. Decisi così di trasformare il materiale raccolto in un volume che potesse dare un senso ai miei dubbi. Mi rivolsi ai principali editori, ottenendo immancabilmente dei rifiuti. Decisi quindi che l’avrei pubblicato io. E così è stato.
A: E con questa operazione, ci ha perso o ci ha guadagnato?
M: Ho avuto la possibilità di “tenere in piedi” questo libro e dopo vent’anni di ripubblicarlo, aggiornandolo. Anche perché, nel frattempo, gli armadi invece di aprirsi si erano richiusi con più forza. A metà degli anni Novanta la possibilità di fare i conti con la nostra storia senza la lente deformante dell’ideologia sembrava a portata di mano, ma l’occasione è stata sprecata. In parte per il venir meno dei testimoni oculari, ma soprattutto perché è più difficile affrontare la verità storica dei fatti a settant’anni di distanza.
A: Poi ha scritto un altro volume, sul linciaggio di Donato Carretta (Roma ’44, i signori del terrore), un altro episodio poco chiaro e che si pone in continuità con quelli precedenti.
M: Sì, perché c’era tutta una serie di fatti – a cominciare, appunto, dal linciaggio di Carretta, il direttore di Regina Coeli, e la sua criminalizzazione – solo accennata nel libro di via Rasella e che meritava invece un approfondimento. Ritenevo fosse un atto dovuto, soprattutto dopo aver incontrato il figlio di Carretta. Quando lo conobbi era un classico gentiluomo già in là con gli anni, pensionato dell’ente per i tabacchi. Perché un atto dovuto? Perché mi imbattei nella testimonianza di cosa fosse stato il dopoguerra per le vittime dei delitti a sfondo politico. I familiari di Carretta furono sostanzialmente costretti al silenzio. Non poterono mai raccontare la loro storia, la storia di questo linciaggio, di un atto feroce che è rimasto – fortunatamente – un unicum nella storia della guerra a Roma e della Liberazione.
Come andarono i fatti e perché fu linciato Carretta non siamo ancora riusciti a capirlo a distanza di tanti anni. Carretta non aveva nessuna colpa, era solo un testimone alla prima udienza del processo a carico del questore Pietro Caruso. In realtà, Carretta era soprattutto un testimone, scomodo, dei maneggi avvenuti intorno alle liste dei detenuti politici mandati al massacro delle Fosse Ardeatine.
Precedentemente avevo incontrato il fratello di Piero Zuccheretti, il bambino ucciso dall’attentato gappista di via Rasella. Mi aveva raccontato, per la prima volta dopo cinquant’anni, lo strazio della famiglia che aveva dovuto subire non solo quella tragica perdita ma anche la successiva dannazione al silenzio. Ebbene, era una vicenda per molti versi simile a quella vissuta dalla famiglia Carretta. E i tratti comuni erano appunto la condanna al silenzio e l’intrecciarsi delle loro vite con quelle dei responsabili della morte dei loro cari. Giovanni Zuccheretti mi raccontò, ad esempio, delle serate danzanti nella sezione del Partito Comunista vicino a casa, dove spesso incontrava Bentivegna e Carla Capponi. Il figlio di Carretta mi spiegò di come furono buttati fuori dall’alloggio di servizio di Regina Coeli. La madre si ritrovò per strada con tre figli e per campare ottenne la licenza di un’edicola vicino a dove era stato ucciso da Bentivegna il sottufficiale della Guardia di Finanza Giorgio Barbarisi. C’è una foto di questa donna, forte e coraggiosa, che si sporge dall’edicola tutta ricoperta dalle locandine dell’”Unità” e di “Paese Sera”, cioè i giornali che più si distinsero nella criminalizzazione di Carretta «l’aguzzino».
Non dimenticherò mai il pomeriggio d’inverno in cui andai a casa del figlio di Carretta. Mi raccontò la storia della loro famiglia e a un certo punto gli chiesi se avesse della documentazione; lui mi portò nello studio e per la prima volta dopo cinquant’anni osò aprire i faldoni con gli atti relativi al processo beffa a carico dei presunti responsabili dell’uccisione del padre. Il libro sui Signori del terrore è nato lì.

Una donna accusa Donato Carretta il giorno del processo contro Caruso.

Una donna accusa Donato Carretta il giorno del processo contro Caruso.

A: Quindi ha visto la lista compilata dal padre?
M: No, lui non mi fece vedere la lista del padre. La famosa lista che noi definiamo la lista dei condannati a morte in realtà è la lista dei cinquanta – sui trecentotrentacinque mandati a morire alle fosse Ardeatine – uscita dalla questura di Roma e che fu attribuita al questore Caruso. Ma in realtà Caruso su quella lista non aveva messo mano. È però la lista che io ritengo sia costata la vita a Carretta, perché, rispetto all’originale uscita dalla questura contiene le famose dodici cancellature. In pratica dimostra che alcuni nominativi furono inseriti all’ultimo momento e che, quindi, delle persone si salvarono a scapito di altre. Quella lista è un imbroglio. E guardi che su quelle cancellature da oltre vent’anni sto cercando di capire. Proprio per questa intervista ho rivisto i documenti, in particolare quelli dell’archivio Ascarelli, e probabilmente su questa vicenda ora possiamo aggiungere qualche particolare in più.
Ma non solo. Nelle carte che mi diede il figlio, trovai anche il verbale dell’interrogatorio di Carretta prima di essere ammazzato, nel quale attribuiva al commissario Raffaele Alianello, del Ministero dell’Interno, la responsabilità di aver cancellato quei nomi e averli sostituiti con altri.
La lista è quindi fondamentale per la ricostruzione di tutta la vicenda, perché dimostra come si giocò, fino all’ultimo, una sorta di roulette russa sulle persone da mandare a morire. Queste cancellature che cosa dimostrano? Innanzitutto che fu compilata da personaggi che poi non subirono alcuna conseguenza. Nel dopoguerra il commissario Alianello fece una regolare carriera nei ranghi della polizia della Repubblica.
A: Ma come furono sostituite le persone che si salvarono?
M: Furono sostituite aggiungendo alla lista altri due nominativi di Giustizia e Libertà, per la precisione Vincenzo Saccottelli e Salvatore Canalis (ai numeri 27 e 40 della lista), e uno di Bandiera Rossa, Emidio Micozzi (numero 21). Più in fondo, nove nomi chiaramente ebrei furono sostituiti con pregiudicati comuni. In pratica questo documento, alla luce delle carte trovate nell’archivio Carretta, dimostra come in realtà ci fu una chiara scelta politica dei detenuti mandati a morire. Tant’è che successivamente questo documento fu trasmesso agli alleati e – cosa che non abbiamo saputo per settant’anni – accanto ai nomi nei primi trentacinque fu indicata la qualifica politica che già figurava, a loro carico, alla questura di Roma. Ci sono numerosi appartenenti a Giustizia e Libertà e altri che vengono definiti comunisti ma che in realtà appartengono a Bandiera Rossa… Intendo dire che nei documenti in possesso dei giudici dell’Alta Corte di Giustizia che celebrarono il processo a Caruso, e poi del tribunale militare che si occupò del processo a Kappler, c’erano già tutti gli elementi per capire che alle Fosse Ardeatine erano stati mandati a morire prevalentemente gli appartenenti alle tre organizzazioni entrate in rotta di collisione con il Partito Comunista Italiano, e cioè il Centro militare clandestino monarchico, il Partito d’Azione e Bandiera Rossa.

A: Quello che scrive Massimo Caprara, e che abbiamo pubblicato nel numero di luglio di “Storia in Network” (Via Rasella-Fosse Ardeatine, la memoria discorde e l’indagine storica mancata) appare con notevole chiarezza. Lei incontrò mai Caprara?
M: Lo incontrai. Lui ebbe il coraggio, nel 1996, di scrivere su “Storia Illustrata” e su “Il Giornale” le sue testimonianze come segretario di Palmiro Togliatti. Fu lui, inoltre a spiegare come i responsabili dell’attacco di via Rasella fossero stati poi tenuti ai margini del partito di Togliatti. E questo causò una polemica abbastanza ruvida con Bentivegna e i sopravvissuti del commando dei GAP. Comunque, Caprara fu tra i primi a capire come l’attentato di via Rasella nascesse da una forzatura, da un contrasto interno al Partito Comunista.
Da questo punto di vista è di importanza straordinaria un altro documento trovato a casa Carretta. È la relazione, attribuita al comando militare del Partito Socialista, sui fatti di via Rasella. Si tratta di un documento che precede la morte di Carretta, scritto probabilmente tra il giugno e il luglio 1944. Il documento, intestato al Comando Militare del Partito Socialista e intitolato Relazione sui fatti di via Rasella, presenta diverse cancellature a mano, di cui spiegherò l’origine più avanti. Si tratta di una relazione molto critica, che già all’epoca apriva scenari inquietanti e poneva forti interrogativi sull’attacco del 23 marzo.
Innanzitutto la Relazione definisce l’attacco come un atto «terroristico», e poi dà una ricostruzione dei fatti che potrebbe fornire spiegazioni alle domande ancora aperte dopo settant’anni. Dice infatti che a tutte le formazioni combattenti della Resistenza era stato dato l’ordine di concentrarsi intorno alla zona di via Veneto – quindi anche a via Rasella, che è poco distante – per una sorta di presidio armato. Il 23 marzo, ricorrenza della fondazione del partito fascista, le forze della Resistenza avevano progettato di mettere a segno un’azione, ma solo se i fascisti avessero osato organizzare un corteo per le vie della città (corteo che per altro era già stato vietato dalle autorità tedesche perché pochi giorni prima c’era stato un assalto gappista a una manifestazione fascista). Nella Relazione si dice che, nonostante fosse stato dato l’ordine di abbandonare la zona perché non c’era stato alcun corteo, uno dei due GAP del Partito Comunista era entrato in azione facendo esplodere un ordigno. Già all’epoca era sembrato a tutti un attentato terroristico, nel senso di un colpo di mano, di uno strappo rispetto alle direttive del CLN.
Lo dimostrano anche le “tracce” di Bandiera Rossa che troviamo intorno a via Rasella. Le troviamo sia nel corpo di un partigiano di Bandiera Rossa dilaniato dall’esplosione, Antonio Chiaretti, sia negli appartenenti alla formazione di Bandiera Rossa arrestati nel successivo rastrellamento e poi finiti alle Ardeatine. I superstiti di Bandiera Rossa hanno sempre tramandato la versione di essere caduti in una trappola. Una trappola che potrebbe essere rappresentata dal fatto di ricevere una convocazione per un presidio armato senza sapere che avverrà un attentato, con tutte le conseguenze del caso.
Quella relazione contiene poi una serie di correzioni fatte a mano da qualcuno dotato di una sensibilità politica maggiore rispetto a quella di Carretta (il documento probabilmente fu scritto a macchina dallo stesso Carretta, perché insieme al figlio trovai una scaletta scritta a mano da Carretta). Le annotazioni, anonime, fatte a mano sulla Relazione non riferiscono la responsabilità precisa al Partito Comunista, tuttavia c’è una nota, quasi ironica, che dice: «Può essere che il comando militare del Partito Comunista sia stato più felice di noi e abbia a conoscenza dettagli più precisi ». Ecco, sarebbe interessante capire chi fece quelle annotazioni e quelle correzioni che dimostrano una maggiore consapevolezza politica.

Via Rsaella poco dopo lo scoppio, in basso il cartere lasciato dall'esplosione davanti a palazzo Tittoni.

Via Rasella poco dopo lo scoppio; in basso, il cratere davanti a palazzo Tittoni.

A: Dove c’è scritto «atto terroristico»?
M: Il documento esordisce così: «Si premette che dei fatti quali saranno sottoesposti l’ufficio informazioni della disciolta organizzazione militare del PSIUP è a conoscenza unicamente per la parte che lo interessava direttamente». È singolare questa frase perché sembra voler dire: c’eravamo anche noi e questa relazione contiene quello che noi conosciamo in modo diretto. E poi prosegue: «Poiché era probabile, cosi come era avvenuto in altri casi, che i fascisti avrebbero fatto seguire alla riunione una dimostrazione pubblica venne dato ordine ai GAP di tenersi pronti per una eventuale azione terroristica sui fascisti. L’ordine fu dato sia dal comando dell’organizzazione militare del Partito Socialista sia da quello del Partito Comunista. L’ordine specificava esplicitamente che non dovessero compiersi atti terroristici contro truppe germaniche per evitare prevedibili rappresaglie».
A: Allora l’ordine fu dato o non fu dato?
M: Fu dato l’ordine di compiere l’atto terroristico solo ed esclusivamente contro i fascisti e se avessero fatto un corteo. Ma la sottolineatura importante è che l’ordine specificava esplicitamente che non dovessero compiersi atti terroristici contro truppe germaniche, per evitare prevedibili rappresaglie. E così fecero i socialisti: «Finita la riunione nella sede della federazione i fascisti si dispersero senza compiere alcuna pubblica dimostrazione. I GAP socialisti si ritirarono in conformità agli ordini ricevuti».
A: Ma c’è dell’altro…
M: Continua la Relazione: «Per un fatale equivoco, sul quale non possediamo altri particolari, uno dei GAP comunisti decise invece di agire». Ma la frase battuta a macchina è stata poi corretta a penna in «Qualche altro gruppo pensò invece di voler agire ugualmente». Naturalmente è ovvio che il gruppo decise di agire avendo già preparato il carretto con l’esplosivo e tutta l’operazione: in pratica sapevano fin dall’inizio che l’azione sarebbe stata fatta. La frase è stata quindi mitigata con quella correzione a penna.
L’importanza della Relazione – che abbiamo visto essere in gran parte opera di Carretta – è dovuta anche a un’altra frase: «Vi furono 32 morti tra i Tedeschi e 3 morti tra Italiani passanti…». E questo dato, dei tre morti civili, è contenuto nella testimonianza resa da Donato Carretta alle autorità giudiziarie e non si trova in altre fonti.
A: Il bambino Piero Zuccheretti, il partigiano Antonio Chiaretti… il terzo chi era?
M: Non lo so. I comunicati attribuiti alla propaganda nazifascista parlarono il giorno stesso di sei morti civili, e il numero è plausibile.
A: Quindi addirittura sei? Ce ne sarebbero quattro anonimi?
M: Non dimentichiamo che l’attacco fu seguito dalla sparatoria verso le finestre da dove i tedeschi presumevano fossero stati lanciati uno o più ordigni. Io ho accertato due morti, Piero Zuccheretti e Antonio Chiaretti, quest’ultimo riconosciuto come comandante partigiano di Bandiera Rossa. Per entrambi, i certificati di morte attribuiscono la causa a scoppio di bomba. Non ci possono essere equivoci su questo.
Ma torniamo alla Relazione, che poche righe oltre ribadisce il concetto di “atto terroristico”: «In conclusione per quanto riflette l’identità degli autori dell’atto terroristico…». Ma la frase successiva è stata cancellata e corretta a penna. Ecco il testo originale: «… notizie dirette potrebbero attingersi unicamente presso il comando militare comunista. Nel numero dell’Unità apparso dopo il massacro il Comando Militare dei Comunisti si assunse coraggiosamente la responsabilità dell’accaduto». Questa invece la correzione a mano, che sembra denotare un approccio più “politico” a tutta la vicenda, come a voler scindere le proprie responsabilità da quelle degli esecutori: «… questo comando militare altro non può attestare se non che i propri dipendenti si attennero agli ordini, cioè desistettero dall’azione [...]. Può essere che il comando militare del Partito Comunista sia stato più felice di noi e abbia a conoscenza dettagli più precisi». Questa è la relazione conservata nelle carte di Carretta e rimasta sepolta fino al 1996. Io l’ho ripubblicata due anni fa e ancora aspetto che qualcuno gli assegni la giusta collocazione storica.

A: È stato quindi linciato un fiduciario del PSIUP?
M: La vera storia di Carretta, spaventosa, è questa: Carretta è il tipico funzionario della Stato che dopo l’8 settembre ha capito chi saranno i vincitori e i vinti e si mette a disposizione del CLN. Il suo filo diretto – ed è lì il suo errore – non è con esponenti comunisti, ma con Alfredo Monaco, che è il medico del carcere ed è uno degli esponenti di maggior spicco del Partito Socialista. Dall’ottobre 1943 Carretta si mette a disposizione del CLN e in particolare del Partito Socialista, tant’è che è lui a consentire la così detta evasione di due futuri presidenti della repubblica, Saragat e Pertini. Viene organizzata da Monaco con la moglie e dalla struttura socialista, credo che ci fosse anche Giuseppe Gracceva, comandante militare delle Brigate Matteotti e anticomunista sfegatato. La vedova Monaco mi raccontò poi come salvarono anche Gracceva, quando fu preso dai nazisti, facendolo scappare grazie alla complicità della famiglia Carretta. Insomma, dalle testimonianze dei Monaco viene fuori il ruolo decisivo di Carretta: contribuisce a far scappare Pertini, Saragat e altri cinque socialisti grazie a dei falsi fogli di scarcerazioni.
A: Tutto questo prima dello sbarco di Anzio?
M: Poco dopo. Lo sbarco avvenne il 22 gennaio, la fuga da Regina Coeli ebbe luogo nel tardo pomeriggio del 24 gennaio. Carretta, che si accorse che gli ordini di scarcerazione erano falsi – secondo la testimonianza dei Monaco –, non solo dette seguito alle disposizioni ma si affrettò a scarcerarli prima che scattasse il coprifuoco. Ma tutto ciò avrebbe rappresentato un grosso problema nel percorso di demonizzazione di Carretta. Al processo per il linciaggio di Carretta, Saragat andò a testimoniare descrivendo il legame di Carretta con la Resistenza. Pertini invece non si presentò perché l’atto di citazione fu inviato a un indirizzo sbagliato.
A: Dunque potrebbe non averlo ricevuto?
M: Ho molti dubbi, anche perché poi Pertini non spese mai una parola in difesa di Carretta. Al linciaggio fisico seguì negli anni successivi un linciaggio morale a fasi ricorrenti; quando conobbi il figlio, era impegnato a far querele o a minacciarle per cercare di ristabilire la memoria storica del padre. Il linciaggio morale fu messo in atto soprattutto dall’”Unità” e dai giornali comunisti. E quando non si riuscì ad attribuirgli alcuna responsabilità come aguzzino di Regina Coeli ci si inventò un ruolo di torturatore nel carcere di Civitavecchia, che lui aveva diretto; ma neanche lì emersero testimonianze che dimostrassero un accanimento verso i detenuti politici. Quindi anche Carretta fu spazzato da quell’opera di pulizia volta a rimuovere ogni ostacolo sulla via della costruzione del mito di via Rasella come un mito fondante della Resistenza.

Donato Carretta viene fatto annegare nel Tevere.

Donato Carretta viene fatto annegare nel Tevere.

A: Abbiamo appurato che Carretta era un fiduciario del Partito Socialista, per cui non era neanche anti CNL…
M: Assolutamente no.
A: Si era messo a disposizione del Partito Socialista e pagò con la vita perché poteva portare testimonianze scomode. Anche l’episodio del linciaggio è oscuro. La donna che lo additò alla folla non fu mai identificata.
M: No. Furono presi sette “poveracci”. Una in particolare, la Ricottini, era una donna mentalmente instabile e aveva effettivamente accusato Carretta ma non fu lei a dare il via al linciaggio. Accusò Carretta di aver fatto portare dai tedeschi il figlio alle Fosse Ardeatine per essere fucilato. In realtà quel ragazzo non c’entrava nulla con le Fosse Ardeatine: fu sì fucilato dai tedeschi ma insieme a un altro tedesco perché ritenuti responsabili di violenza sessuale ai danni di una donna. Il processo finì in una beffa, nel senso che i presunti responsabili furono condannati a sette anni di carcere, poi in buona parte amnistiati. Il processo non fece alcuna luce su tutta una serie di personaggi – a partire dalla donna che funse da innesco – che misero in atto il linciaggio. Perché in qualche modo la folla fu aizzata, fu spinta, fu organizzata. Insomma, gli ispiratori sono rimasti sempre nell’ombra.
A: Ma c’erano?
M: Sì, basta leggere le carte del processo. Così come si evince che c’erano dei personaggi riconoscibili tra la folla.
A: Quando si tenne il processo?
M: Due anni dopo i fatti, nel 1947. Ma non si svolse in un’atmosfera serena. Da una parte la grancassa dei giornali legati al Partito Comunista continuò nell’opera di criminalizzazione di Carretta, per farlo passare come aguzzino di detenuti politici. Dall’altro il processo vero e proprio, che non volle investigare a fondo i momenti nevralgici di quanto accaduto e le responsabilità esterne a quelle della folla. E dire che tutto avvenne sotto l’occhio delle cineprese. La tragica sequenza fu girata dal Psychological Warfare Branch e a coordinare – credo ci fossero quattro operatori con altrettante cineprese – c’era Luchino Visconti, il mostro sacro del cinema italiano.
Il linciaggio di Carretta fu particolarmente macabro perché fu quasi una sorta di prova generale della messa in scena di piazzale Loreto a Milano. Il cadavere venne appeso a testa in giù a una grata di Regina Coeli, quasi sotto gli occhi della moglie, che fu fermata e trattenuta poco prima dalla moglie di Monaco. Avvenne tutto nell’arco di un paio d’ore, sotto gli occhi delle cineprese di Visconti. Ma il filmato completo è ancora custodito a Londra e a Washington e non è accessibile.

A: Con quali motivazioni non è accessibile? Lei ha provato a rintracciarlo?
M: Non ho provato io direttamente, ci ha provato il figlio di Carretta quasi vent’anni fa: gli risposero che era in restauro, dopo di che non se ne è saputo più nulla. Spezzoni di quelle riprese furono utilizzate per un film che poi fu ritirato dalle sale cinematografiche, dal titolo Giorni di Gloria, di Giuseppe De Santis. Anche nell’Italia post-resistenziale fu ritenuto un po’ troppo crudo…
Il figlio di Carretta cercò invano di avere una copia di questi filmati. Visconti trovò il modo di non testimoniare al processo per il linciaggio di Carretta. In pratica mandò un suo collaboratore il quale si sedette davanti ai giudici e disse: «il conte non può venire perché è impegnato. Ha mandato me ma non c’è nulla da aggiungere oltre a quello che avete già potuto vedere dalla pellicola visionata».
Visconti sicuramente filmò anche la fucilazione di Pietro Koch, che a mio avviso è un altro personaggio da inserire nella lista dei testimoni eliminati. Non perché Koch non avesse responsabilità, figuriamoci. Ma è tutta la sequenza che lascia qualche dubbio. Carretta fu eliminato – pur essendo soltanto un testimone – all’inizio del processo Caruso. Caruso venne fucilato, in una Roma ormai liberata, con degli addebiti che rispetto alla responsabilità personale nella compilazione delle liste dei detenuti da mandare alle Fosse Ardeatine non erano cosi pregnanti. Altri personaggi dell’ufficio politico della questura di Roma ebbero sicuramente un ruolo più diretto e decisivo in quella scelta.
Ma assolutamente stupefacente fu la fine di Koch. L’Alta Corte di Giustizia di Roma, dove il padre di Enrico Berlinguer, l’avvocato Mario Berlinguer, rappresentava l’accusa, mandò a morire Caruso nel giro di poche udienze. Pietro Koch, sempre con Berlinguer senior come pubblico ministero, fu condannato a morte nel giugno 1945: processo, sentenza ed esecuzione si consumarono nell’arco di poco più di ventiquattro ore. Koch, che sicuramente poteva essere definito un aguzzino e un torturatore, avrebbe però potuto e dovuto rispondere a una domanda specifica che ci riporta a via Rasella e alle Fosse Ardeatine. E cioè, perché il reparto più feroce della polizia fascista si era specializzato nella caccia di componenti di Giustizia e Libertà? Dei 50 della lista della questura di Roma la maggior parte erano di Giustizia e Libertà, che dal punto di vista della capacità militare non rappresentava una seria minaccia per la forza di occupazione tedesca (erano insegnanti, artigiani, sarti, tecnici).
Visconti girò tutta la scena della sua fucilazione a Forte Bravetta e a me sembra che il suo sia stato un atto di vigliaccheria. Indipendentemente dalle colpe, Koch di fatto aveva salvato la vita a Visconti: sì, perché Koch lo aveva arrestato e poi rimesso in libertà per intercessione di Maria Denis, un’attrice dell’epoca. La presenza di Visconti sulla scena del linciaggio di Carretta e poi alla fucilazione di Koch pone dei problemi sul ruolo degli intellettuali in Italia a guerra appena finita.
A: Visconti era un rigoroso militante del Partito Comunista, di grande affidabilità.
M: Infatti non ha mai detto una parola su questi fatti.
A: Caruso fu fucilato quanto tempo dopo il processo del settembre del 1944? E poi, prima Caruso e dopo Koch?
M: Prima fu ucciso Caruso, il 23 settembre 1944 e – ricordiamolo – il linciaggio di Carretta è del 18 settembre. Sulle cosiddette Alte Corti di Giustizia o le Corti di Assise Straordinarie ci sarebbe da fare un discorso a parte perché erano tribunali politici a tutti gli effetti. Diciamo che grazie alla saggezza, forse un po’ tardiva, della Democrazia Cristiana e probabilmente anche del PCI di Togliatti, durarono poco, lo spazio di qualche mese.
Comunque, tra i processi celebrati a Roma dall’Alta Corte di Giustizia, quello a Koch fu sicuramente quello più breve e il più inspiegabile e inaccettabile. Per questo mi chiedo se in questi due casi non si sia colta, oltre all’occasione di somministrare una giustizia esemplare, anche l’occasione per far sparire dei testimoni scomodi. Tanto più che nelle carte del processo Caruso messe a disposizione per il processo Koch, emergevano altre possibili direttrici della giustizia. Nelle carte del processo Caruso ho trovato l’elenco, proveniente dalla questura di Roma, con i nomi dei 50 e accanto l’appartenenza politica. Se quel documento fosse stato reso pubblico allora e fosse stato oggetto del dibattimento, si avrebbe avuta l’esatta cognizione degli effetti dell’eccidio delle Fosse Ardeatine sulla Resistenza romana. Questo documento, trovato nella questura di Roma dagli americani il 12 luglio 1944 e da loro trasmesso all’Alta Corte di Giustizia, onestamente a me fa impressione. Dalla Corte fu invece completamente ignorato.

Caruso

La fucilazione di Pietro Caruso.

A: Nell’elenco dei 50 compaiono anche altre “qualifiche”, come “rapina a mano armata”, “spionaggio”, “comunista”…
M: Sia “rapina” sia “spionaggio” sono di Bandiera Rossa. Quando si trova l’indicazione generica “comunista” il più delle volte è Bandiera Rossa (nota anche come Movimento comunista d’Italia) perché altrimenti viene precisato Partito Comunista Italiano. Basta leggere: Giglio Maurizio Tenente PS spionaggio (collaborava anche con Bandiera Rossa), Bucciani Franco comunista, Carlo Foschi comunista… sono tutti di Bandiera Rossa, che li rivendicherà immediatamente come propri martiri. Lo stesso per Costantino Imperiali, Armando Taviani, Gaetano Sepe, Pietro Viotti… insomma è impressionante… tra Partito d’Azione e Bandiera Rossa si arriva a 41, e poi gli altri vengono scelti tra chi sta in galera per reati comuni.
A: E così arriviamo a cinquanta.
M: Sì, e sono quelli per cui viene fucilato Caruso. Ora, Caruso di Roma non capiva quasi nulla perché era giunto nella capitale nel febbraio 1944, lui veniva da Trieste, dalla milizia portuale. Non fu lui a compilare quella lista. Chi l’ha compilata doveva sapere bene chi inserire e chi scartare: un lavoro che poteva fare solo l’ufficio politico della questura.
A: Nella fattispecie Raffaele Alianello?
M: Alianello era l’unico elemento all’interno del Ministero dell’Interno Italiano di cui Kappler si fidasse ciecamente, era l’ufficiale di collegamento fra il Viminale e il comando di polizia tedesco. Tenga presente, sempre a proposito dell’eliminazione dei testimoni, che il giorno prima che Carretta si recasse in tribunale a rendere la deposizione (che non rese mai) al processo Caruso, un fonogramma del Ministero lo aveva destinato alla direzione di un altro carcere. Significava che non c’era nessun tipo di addebito sulla sua condotta, quel fonogramma – che ho ritrovato con il figlio – era il suo lasciapassare…
A: Per questo doveva essere linciato?
M: Certo. L’autopsia di Carretta è spaventosa, mi pare vengano conteggiate oltre ottanta ferite, la maggior parte subite quando era ancora in vita, tra cui l’esplosione del bulbo oculare. Fu un’autentica mattanza. Il linciaggio avvenne almeno in tre o quattro fasi, in cui avrebbe potuto essere salvato, e invece si lasciò libero spazio alla folla.

A: Riprendiamo il filo. Quando morì Bentivegna, poco più di tre anni fa, nel 2012, si registrarono due definizioni squillanti da parti contrapposte – tra l’altro non necessariamente contrapposte in senso politico – quelle di Francesco Storace e di Riccardo Pacifici. Storace parlò di Bentivegna come di un assassino mentre Pacifici, che all’epoca era presidente della Comunità Ebraica Romana, disse “No, è un grande eroe”. Lasciando perdere quella scontata di Storace, cosa pensa nella definizione di Pacifici?
M: A mio avviso una definizione cosi roboante è ingiusta per la comunità ebraica che lo stesso Pacifici rappresenta. Perché forse lo stesso Pacifici non sa – o non ricorda o ha semplicemente voluto dimenticare – che l’unica azione giudiziaria, poi trasferita in sede civile, intentata per accertare le responsabilità di chi aveva provocato la rappresaglia delle Fosse Ardeatine, cioè di chi aveva voluto e compiuto l’attentato di via Rasella, fu avviata dai parenti di tre vittime ebree delle Fosse Ardeatine. Queste tre famiglie furono però sostanzialmente beffate. Nel senso che non solo la loro richiesta di giustizia fu portata su un piano civilistico – e non si capisce perché – ma furono condannate anche a pagare le spese processuali.
Da quella sentenza, prima del tribunale civile poi confermata dalla Corte Civile d’Appello e poi dalla Cassazione, deriva l’elevazione dell’attentato a via Rasella ad “azione di guerra”. E da quel momento, dal 1957, chiunque abbia tentato di mettere in dubbio la ricostruzione ufficiale e propagandistica di via Rasella è stato querelato e condannato a pagare i danni agli esecutori materiali. Ne ha fatto le spese anche Indro Montanelli. Per questo dico che Pacifici probabilmente sbaglia quando definisce Bentivegna, in modo acritico, come “un eroe”. Bentivegna, che è uno che non si è mai nascosto rivendicando fino all’ultimo con tenacia le proprie ragioni, ha portato un fardello carico di oltre quattrocento morti. Forse Pacifici dovrebbe tenere presente che furono appunto le famiglie di tre vittime ebree a cercare di ottenere invano giustizia.
A: In un film del 1973 prodotto da Carlo Ponti, diretto da George Pan Cosmatos e intitolato Rappresaglia, con Richard Burton, Marcello Mastroianni e Delia Boccardo, c’è una scena interessante. Boccardo, che interpreta il ruolo di Carla Capponi, quando vede che ormai si è messo in moto il processo dell’attentato, allontana dei bambini che stanno giocando. Dice pressappoco, “andatevene via che non è aria”. Sembra quasi che con questa scena si cerchi di riparare alla morte di Zuccheretti…
M: Guardi che noi, a settant’anni di distanza, non sappiamo nemmeno quanti e chi fossero i componenti dei GAP entrati in azione. Dico questo perché sono stati dati numeri diversi dagli stessi protagonisti, compreso Bentivegna. Si è parlato di dodici, poi quindici, poi diciassette, poi diciotto uomini. I nomi dei partecipanti non si conoscono con chiarezza. Un esempio: quello che io considero l’uomo di fiducia di Pietro Secchia e che sicuramente era a via Rasella, Antonio Rezza, è stato cancellato dall’album ufficiale della Resistenza.
E poi non si conosce nemmeno con precisione l’ora in cui è avvenuto l’attentato. Nelle ricostruzioni ufficiali si va dalle due del pomeriggio all’imbrunire, ma soprattutto non si conosce né il numero né l’identità delle vittime civili, perché le uniche due note fino ad ora sono il frutto di un paziente lavoro di ricostruzione giornalistica. Piero Zuccheretti, un bambino di tredici anni, e Antonio Chiaretti, che era addirittura un partigiano di Bandiera Rossa e per questo è stato cancellato: perché la presenza di un partigiano di Bandiera Rossa che non viene mai commemorato e che risulta essere ucciso dalla bomba messa dai GAP, beh insomma, è una cosa piuttosto pesante.
Sulla questione dei bambini allontanati da Capponi è difficile distinguere quanto sia attinente alla realtà e quanto appartenga alla propaganda. Del resto, di via Rasella conosciamo sostanzialmente una versione propagandistica, perché ci sono troppi elementi fattuali che la smentiscono. Lo stesso Giorgio Amendola, comandante militare dei GAP e ritenuto il vero ideatore dell’attentato, ha propagandato l’idea che loro avvertivano sempre i civili e allontanavano i bambini. Certo, ci sono testimonianze dirette di bambini di allora, come Liliana Gigliozzi, figlia di un barista di via Rasella finito alle Ardeatine. Liliana racconta che mentre giocava con il fratellino per strada ricevette uno spintone che la buttò dentro il negozio del calzolaio. Ma nell’insieme, quanto questa preoccupazione – cioè che i gappisti avvertissero i civili e allontanassero i bambini – sia propaganda e quanto sia un fatto reale rimane ancora un grosso punto interrogativo.

La foto con il corpo di Zuccheretti dichiarata; in basso lo stesso luoto durante un nostro sopralluogo nell'aprile 2015.

In alto, la foto con il corpo di Zuccheretti dichiarata falsa; in basso, lo stesso luogo durante un nostro rilievo nell’aprile 2015.

A: E Zuccheretti?
M: Di sicuro Piero Zuccheretti entrò nel teatro dell’esplosione poco prima della deflagrazione dell’ordigno o che venisse innescata la miccia. Cinquant’anni dopo sarebbero spuntate la foto del suo cadavere fatto a pezzi dall’esplosione. Ma con una fretta eccessiva e sospetta, certificata addirittura dalla Cassazione, quella foto sarebbe stata dichiarata falsa.
Il problema è che non solo quella foto è tutt’altro che falsa ma si è potuto anche stabilire il luogo esatto dove fu scagliato il busto di Zuccheretti. Il fratello gemello di Zuccheretti ha sempre sostenuto che il bambino non poteva che essere molto vicino al bidone esplosivo.
Certo è che fino a quando non pubblicai nel mio primo volume il certificato di morte di Piero Zuccheretti, morto il 23 marzo del 1944 per scoppio di bomba, si sosteneva – lo scrisse Bentivegna ma lo affermò anche Giorgio Amendola – che l’attentato non aveva provocato la morte di nessun civile. Quindi solo dopo mezzo secolo, e cioè di fronte all’evidenza del fatto, ci fu la correzione e l’ammissione che quel bambino era veramente morto, ma questo avvenne solo nel 2004 per pugno di Bentivegna.
A: Come si può ammettere l’uccisione di Zuccheretti e negare che la foto sia autentica? Che foto è se non è autentica?
M: Io non attribuisco la responsabilità di questa falsificazione a Bentivegna, che alla fine ha sempre difeso il suo punto di vista. Quello che non accetto è che all’opera di mistificazione ci si siano prestati molti addetti ai lavori.
Invece di interrogarsi su un fatto storicamente accertato e sul perché lo si sia negato imponendo la legge del silenzio su tanti episodi legati a via Rasella, ci si è concentrati subito a voler dichiarare falsa quella foto. Prima ha citato Rappresaglia, film di cui fu consulente Robert Katz. Ebbene Katz nel suo ultimo libro colse subito l’occasione per amplificare e far da gran cassa alla sentenza della Cassazione che in modo frettoloso e artificioso metteva il sigillo sulla falsità di quella foto. Per questo io mi chiedo perché ci sia stata tutta questa fretta nel voler dichiarare, ancora una volta per via giudiziaria, falsa quella foto se si riferisce comunque a un fatto vero. Allora mi sono chiesto se quella foto non avrebbe certificato, seppure a distanza di tanti anni, le responsabilità di quella che è stata definita un’azione di guerra ma è stata anche una strage di civili. E quindi se quella foto avrebbe permesso di individuare con precisione dove era quel bambino e se quel bambino era stato visto avvicinarsi all’ordigno che stava per esplodere e se nessuno era intervenuto.

Sopra, il dettaglio sinistro del cordolo di palazzo Tittoni; sotto, dettaglio da un nostro sopralluogo nell'aprile 2015.

La porzione sinistra del cordolo che compare nella foto di Zuccheretti, ieri e oggi (nostro sopralluogo, aprile 2015).

A: Ma il fratello di Zuccheretti è stato chiamato per riconoscere il fratello nella foto?
M: No. Purtroppo anche la vicenda giudiziaria di questa foto ricalca il percorso di omissioni o di sviste di tutta la vicenda di via Rasella. Si concluse nel 2007 con la sentenza della Cassazione che definiva falsa la foto e ribadì che l’attacco di via Rasella era stato un’azione di guerra.
Innanzitutto dobbiamo tenere presente che la certificazione della falsità della foto avvenne non in un processo penale con perizie e controperizie ma nell’ambito di un’azione civilistica, ossia una querela per diffamazione intentata da Bentivegna nei confronti del direttore de “Il Giornale”, Vittorio Feltri, e del giornalista Francobaldo Chiocci. Quindi non ci fu pubblico dibattimento con il fratello gemello di Zuccheretti chiamato a riconoscere dalla foto… ma che è il fratello lo si vede bene dal viso. Quindi i fautori della falsità di questa foto avrebbero dovuto chiedersi e spiegare possibilmente chi, quando e perché avrebbe creato il falso.
A: Ma gli avvocati di Feltri e Chiocci avrebbero dovuto chiamare a loro supporto tutte queste possibili testimonianze, a cominciare dal fratello, ancora vivo quando iniziò il processo.
M: Probabilmente sì. Pochi giorni dopo aver pubblicato sul “Il Tempo” l’intervista al fratello di Piero Zuccheretti, nell’aprile 1996, e la riproduzione della foto, chiesi un’intervista a Bentivegna, che acconsentì. Durante l’intervista, un signore presente, un compagno non meglio definito, mi disse subito: «ma questa foto è falsa!». Perché falsa? «Perché c’è il cordolo del marciapiede e all’epoca il marciapiede non c’era». Dico: «va bene»… insomma, non avevo modo di fare una perizia. Successivamente feci un sopralluogo e mi resi conto che quello che compariva nella foto non era il cordolo del marciapiede ma semplicemente il basamento di palazzo Tittoni. Gianpaolo Pelizzaro avrebbe fatto molto di più anni dopo, sarebbe riuscito addirittura a trovare il punto con le scalfitture del travertino. Però fin da subito mi fu detto che era falsa!

La porzione sinistra del cordolo che compare nella foto di Zuccheretti, ieri e oggi (nostro sopralluogo dell'aprile 2015).

La porzione destra del cordolo che compare nella foto di Zuccheretti, ieri e oggi (nostro sopralluogo, aprile 2015).

Ma non mi stupisce che a farlo fosse stato Bentivegna, che all’apparire di fatti nuovi, che in qualche modo lo destabilizzavano, rispondeva che «è una di quelle cose messe in piedi dai fascisti per infangare la Resistenza». Quello che mi stupisce, e che è singolare, è la successiva certificazione per via giudiziaria di questo falso. Come avvenne? Siamo in presenza di un processo di carattere civilistico. In primo grado il giudice monocratico dette torto a Bentivegna e lo condannò al pagamento delle spese legali, 34 milioni di lire. Ed ecco l’importanza della foto: dalla posizione del busto non si poteva escludere – ipotesi che era stata espressa in modo molto forte da Feltri e Chiocci – che il bambino fosse nei dintorni del carretto con l’esplosivo. È da quel momento che in modo, non dico irrituale ma insolito, la difesa in appello produsse un documento che venne accolto e fatto proprio dal giudice. Che cos’era questo documento? Era il parere di un esperto che aveva visionato in un archivio tedesco una sequenza di trenta foto relative a via Rasella. In quella sequenza c’erano molti buchi neri, cioè foto che erano sparite. Con la conclusione di quell’esperto, Carlo Gentile (il suo era un parere di parte non una perizia), si arrivò a stabilire che poiché nelle altre foto non compariva nessun marciapiede era «improbabile che quella foto [fosse] stata scattata subito dopo l’attentato». Di solito in appello, nei processi civilistici, si esaminano i documenti già acquisiti, invece non solo questo documento venne recepito ma quello che è un parere di parte – che forse avrebbe meritato ulteriori approfondimenti – venne fatto proprio nella sentenza del giudice. Giudice che sulla base di un fax – il parere era stato inviato via fax! – stabilì che questa foto era falsa e ribadì che via Rasella è un’azione di guerra. Ovviamente nel 2007 la Cassazione certificò la falsità della foto sulla base dello stesso ragionamento, ritenendo assolutamente condivisibile la sentenza di secondo grado. Evidentemente chi scrisse quel parere non era mai stato a via Rasella.

A: Le “sviste” si aggiungono una all’altra…
M: Purtroppo siamo in presenza di un timbro messo per vie giudiziarie e quindi indiscutibile. Siamo in presenza di una “continuità” che va avanti da oltre settant’anni. Basti pensare che lo stesso tribunale militare che condannò all’ergastolo Kappler venne indotto in errore.
A: Indotto in errore? Perché?
M: Innanzitutto la sentenza. Siamo nel 1948, in prossimità degli eventi, quindi non solo abbiamo un processo con dibattimento pubblico e sfilata di testimoni ma siamo talmente vicini agli orrori della guerra per cui è ancora ben chiaro l’ordine di grandezza delle cose. Kappler viene condannato all’ergastolo per una sorta di abuso di potere, e cioè per aver fucilato dieci persone di troppo…
A: Anche per il fatto dell’oro di Roma e la deportazione di migliaia di ebrei…
M: L’ergastolo però gli venne comminato in modo specifico per le Fosse Ardeatine. L’oro di Roma lo rivendicherà. Dirà più o meno: “l’oro di Roma era una mia iniziativa per cercare di mettermi al riparo da quello che sarebbe successo dopo”. Tenga conto che all’epoca sono già in corso i processi ai superiori di Kappler, come il comandante del corpo d’armata tedesco in Italia. Per la deportazione degli ebrei Kappler ebbe gioco abbastanza facile dicendo di non aver saputo sostanzialmente nulla e che lui il 16 ottobre 1943 si ritrovò i gruppi speciali dei paracadutisti a Roma per la retata. Lui in realtà fu condannato all’ergastolo non per la rappresaglia, che all’epoca era una consuetudine di guerra prevista anche nelle convenzioni internazionali. Venne condannato all’ergastolo sostanzialmente per due motivi. All’ordine originario di fucilare trecentoventi ostaggi lui ne aggiunse altri dieci perché nel frattempo nella notte era morto un altro soldato. E qui il tribunale militare ritenne che Kappler non si fosse limitato all’esecuzione di un ordine ma che avesse fucilato arbitrariamente dieci persone in più. C’è poi il secondo motivo: per errore furono aggiunte cinque persone in più alla lista degli ostaggi da fucilare. Questa è la condanna.
Ma nonostante la condanna all’ergastolo, il tribunale militare del 1948 – la sentenza fu pronunciata il 20 luglio – definì l’azione di via Rasella non certo come un’azione di guerra ma come un atto illegittimo. E questo spalancò le porte a quel tentativo, poi reso maldestro, dei familiari di alcune vittime ebree, di ottenere giustizia anche sul versante di chi aveva compiuto materialmente l’attentato di via Rasella. Ma dove venne indotto in errore il tribunale? Nella sentenza il tribunale parlava genericamente di due vittime civili, provocate sicuramente dall’attentato, un bambino e un anziano. Allora perché io dico che fu indotto in errore? Perché all’epoca si sapeva benissimo che quelle due vittime erano state identificate, perché risultava dai registri dell’anagrafe, per cui non ci voleva chissà quale Sherlock Holmes…

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L’ingresso delle Fosse Ardeatine.

A: Veniamo a Chiaretti.
M: Un giorno in redazione ricevo la telefonata di un ragazzo: «sono il nipote di una persona che è morta a via Rasella». All’epoca mi stavo occupando di identificare le vittime civili. Poi disse: «Però a casa mia si è sempre detto a mezza voce che mio zio fosse un partigiano e non vorrei che in qualche modo la sua morte c’entrasse con questo». In pratica, in un solo giorno trovai non solo l’identità di una possibile vittima civile di via Rasella ma addirittura che questa vittima poteva essere un partigiano. Qualche giorno dopo scoprii che era un partigiano di Bandiera Rossa. E dove trovai questa informazione? All’ANPI, perché Antonio Chiaretti, pur non essendo stato ricordato o celebrato in alcuna manifestazione pubblica, aveva una scheda all’ANPI, dove – anche se mancava la causa della morte – veniva qualificato come comandante di Bandiera Rossa. Successivamente, al Ministero della Difesa trovai addirittura tutta la pratica istruita dalla commissione per il riconoscimento della qualifica di partigiano (commissione di cui faceva parte Bentivegna). La vedova di Chiaretti faticherà diversi anni per avere il riconoscimento del marito morto a via Rasella come partigiano di Bandiera Rossa. C’è un’unica pubblicazione, Il sole è sorto a Roma: settembre 1943, scritta da Lorenzo D’Agostini e Roberto Forti nel 1965, che riporta l’elenco dei caduti della Resistenza durante l’occupazione di Roma e in cui viene fatto il nome di Chiaretti. Per il resto il buio. A un certo punto si cercherà di farlo passare come morto alle Fosse Ardeatine, ma nel carteggio c’è una breve istruttoria dei Carabinieri che stabilirono invece il luogo della morte in via Rasella. Quando infine riuscii ad ottenere il certificato di morte la verità venne a galla: «Antonio Chiaretti morto il 23 Marzo 1944 a Roma per scoppio di bomba».
A: Come Zuccheretti.
M: Sì. Ma questa lunga serie di omissioni, sviste e falsi è continuata. E purtroppo Bentivegna prima di morire ci ha consegnato quello che è l’ultimo “falso”.
A: Ossia?
M: È nel suo ultimo libro, scritto nel 2011… Ma torniamo un attimo indietro. Nel suo primo libro, Achtung Banditen!, pubblicato nel 1983, aveva scritto che da tutte le fonti storiche consultate risultava che non ci fosse stata alcuna vittima civile. Nel 2004, pubblicando la seconda edizione di Achtung Banditen! darà atto che effettivamente c’era stata una vittima civile, il piccolo Piero Zuccheretti, ma si giustificava dicendo di non averlo appurato prima perché, testualmente, «nel tempo dell’occupazione anche l’anagrafe di Roma funzionava poco». In realtà all’anagrafe sia Zuccheretti che Chiaretti risultavano iscritti fin dal giorno successivo la loro morte. Poi nel 2011 scrisse: «di Piero Zuccheretti ero venuto a conoscenza prima di quella polemica quando avevo letto la perizia di Ascarelli che per altro non aveva identificato i resti dei civili coinvolti nell’azione di via Rasella, indicando il corpo del povero Zuccheretti come quello di una giovane ragazza, ma non mi ero sentito responsabile».
Io ho cercato per anni questa “relazione Ascarelli”… Perché, in effetti, com’era possibile che un medico legale della caratura di Attilio Ascarelli – che aveva fatto quel lavoro tremendo della riesumazione delle vittime delle Fosse Ardeatine – potesse incorrere in un duplice errore? Primo, non riportare il nome di morti sicuramente identificati. Secondo, scambiare il corpo di un bambino con quello di una ragazzina. Se lo fa un medico legale deve avere degli elementi certi. Quindi Ascarelli aveva volutamente ignorato i due morti identificati ed evidentemente ce ne erano altri. La perizia la cercai soprattutto per questo, per vedere se c’era una bambina tra le vittime. Bene, quella perizia non è mai esistita perché consultando l’archivio del professor Ascarelli alla facoltà di medicina di Macerata, nella dettagliata biografia che scrivono i suoi discepoli si stabilisce senza ombra di dubbio che «dal 1938 per le leggi razziali il Prof. Ascarelli aveva dovuto abbandonare ogni incarico». Questo lo ricostruisce la dottoressa Cecilia Tasca. E ancora: «Nel Marzo 1944 era rifugiato come tanti ebrei e come tanti antifascisti in un convento romano», come spiega nella sua biografia il dottor Mariano Cingolani, sempre della stessa facoltà. Solo con l’arrivo degli americani il professor Ascarelli venne incaricato, dal luglio 1944, di dirigere l’operazione per la riesumazione dei martiri delle Fosse Ardeatine.

A: Quindi Bentivegna se l’è inventata questa cosa?
M: Questa cosa nacque in realtà nel 1994. La scrisse per la prima volta Cesare De Simone, giornalista del “Corriere della Sera” considerato tra i massimi esperti di Resistenza, titolare di una collana di libri sull’argomento. Scrisse di una relazione di Ascarelli che identificava il cadavere di un vecchio e di una bambina. Nel 1996 Bentivegna e De Simone scrissero a quattro mani – praticamente qualche settimana dopo l’uscita del mio primo libro su via Rasella – un saggio-testimonianza, Operazione via Rasella. Verità e menzogne: i protagonisti raccontano, per rintuzzare quello che stava emergendo…
A: Non lei in particolare?
M: Sì, io in particolare.
A: Rintuzzare lei?
M: Sì, i miei articoli usciti prevalentemente su “Il Tempo” e poi su “Il Giornale” e quindi il mio libro. Fecero una sorta di instant book per Editori Riuniti e scrissero testualmente: «i morti, invece, furono due. L’anatomopatologo dell’università, il professor Attilio Ascarelli, [...] venne incaricato dai tedeschi di ricomporre le salme smembrate dei soldati morti in via Rasella. Nella sua relazione finale, Ascarelli scriverà che oltre ai militari aveva trovato ‘parti di corpo umano’ appartenenti ‘con tutta probabilità’ a un vecchio e a una bambina. La ‘bambina’ della relazione di Ascarelli non era una femminuccia, si chiamava Piero Zuccheretti e aveva tredici anni», citazione testuale. Nel 2004, nella nuova versione di Achtung Banditen! Bentivegna scriveva: «mi ero sbagliato c’era stato un morto civile, Piero Zuccheretti». Più precisamente, «una nota al capitolo trentatreesimo della precedente edizione di Achtung Banditen! che viene qui riportata per correttezza storiografica, è decisamente sbagliata e dovuta a una errata lettura dei dati anagrafici. Nel tempo dell’occupazione anche l’anagrafe di Roma funzionava poco». In realtà era semplicemente per correggere la precedente affermazione nell’edizione del 1983 in cui aveva scritto che non c’era stato alcun morto civile. Nel 2011 evidentemente si convinse di aver letto la relazione di Ascarelli ma questa relazione di Ascarelli non fu mai prodotta.
A: Ma De Simone, che fu il primo a menzionare Ascarelli, come la tirò fuori?
M: Non lo so.
A: Forse c’era stato un altro medico legale incaricato dai tedeschi di ricomporre i corpi? Uno che aveva preso il posto di Ascarelli nel 1938?
M: Questo documento non risulta né negli atti processuali del processo Kappler né cita la fonte o lo riporta De Simone. La sentenza del processo Kappler non fa riferimento a una perizia di nessun tipo. Ascarelli in realtà fece altro, l’ho trovato nelle sue carte. Si rese conto che c’era qualcosa che non quadrava e fece due cose. Primo: conservò, perché lo riteneva un documento importante, una testimonianza prodotta da un ispettore di polizia, Giuseppe Dosi, della questura di Roma, che fu il primo a fornire l’elenco dei cinquanta delle fosse Ardeatine con accanto l’appartenenza politica. Secondo: fece tutta una sua personalissima istruttoria che non rese mai pubblica e creò un doppio dossier. Per ogni salma riportò tutte le caratteristiche particolari. Poi per ogni salma identificata, perché non tutte erano state identificate, riportò nei limiti del possibile una specie di biografia politica. È un lavoro da lui fatto già in quegli anni perché si rendeva conto che quello che aveva sotto gli occhi necessitava di una lettura più ampia, non meramente medico-legale. Ma non avrebbe mai reso noto questo suo lavoro.
A: Ed è nel suo archivio? Lei l’ha citato? Le è stato permesso citarlo?
M: Sì.
A: Ci è andato allora o adesso nell’archivio Ascarelli?
M: Sono andato adesso. Questo fa parte delle nuove scoperte, diciamo.

La tomba del colonnello Montezemolo alle Fosse Ardeatine.

La tomba del colonnello Giuseppe Montezemolo alle Fosse Ardeatine.

A: Diciamo che l’evidenza trovata è convincente in favore di quelle che originariamente sono le tesi di Caprara. In totale le vittime delle Fosse Ardeatine di chiara affiliazione politica, con i militari di Montezemolo, i Carabinieri, Bandiera Rossa e Partito d’Azione sembrano essere state un po’ meno della metà: secondo Caprara, 68 di Bandiera Rossa, 52 del Partito d’Azione, e circa una trentina di militari.
M: Dal lavoro che fece Ascarelli emerse che c’era anche una certa presenza di socialisti, che viene generalmente trascurata. Mi sono sempre chiesto perché, nonostante qualche riferimento oscuro di Emilio Lussu – nel libro del 1968 Sul Partito d’Azione e gli altri: «Se Carretta avesse avuto più fiducia, non tanto nel suo avvenire quanto in quello della sua famiglia, avremmo salvato in tempo dalle Fosse Ardeatine i nostri compagni [...] ed egli stesso si sarebbe salvato dal linciaggio della folla in tumulto il 18 settembre ’44…» – i responsabili politico-militari delle formazioni sterminate alle Fosse Ardeatine non abbiano mai sollevato questo tipo di problema.
A: In nome dell’unità?
M: La risposta che mi sono dato è di due tipi. I militari all’epoca non avevano uno Stato che li difendesse, erano una componente debole, perché su di loro pesava il pregiudizio dell’8 settembre. Quindi era gioco facile metterli nell’ombra. Tutto il resto era invece un qualcosa di tragicamente epocale che avveniva nell’orbita esclusiva della sinistra. La giustificazione che mi sono dato, e che andrebbe approfondita meglio, è che di fatto a sinistra l’egemonia del Partito Comunista era così forte da mettere a tacere tutto.
A: Lo stesso motivo per cui Pertini fu contento per la richiesta di testimonianza arrivata all’indirizzo sbagliato, o no?
M: Io penso che si sia fatto in modo di farla arrivare all’indirizzo sbagliato. Dico tutto questo alla luce di due deduzioni. Il processo per il linciaggio di Carretta ebbe un enorme clamore, proprio per la gravità del fatto. Se Pertini avesse sentito la necessità di dire la sua in difesa o contro Carretta avrebbe avuto il modo di farlo, nonostante l’errore dell’indirizzo. Ma non lo fece. Saragat difese Carretta, Pertini no. Ma a quel punto c’era di mezzo anche la rottura di Saragat con il Fronte popolare… Pertini, però, in anni successivi fece di più. La stranezza della via giudiziaria per cui si mise una pietra tombale sui fatti di via Rasella e delle Fosse Ardeatine è dovuta anche al fatto che la medaglia al valore militare verrà consegnata a Bentivegna quasi quarant’anni dopo, nel 1982, con Pertini presidente. La spiegazione fu che era stata dimenticata in qualche cassetto, ma è una spiegazione che convince poco.

A: Forse nessuno dei precedenti Presidenti aveva voglia dir dar seguito a questa decisione.
M: Tant’è che la consegna a Bentivegna, e solo a Bentivegna…
A: Alla Capponi non viene consegnata?
M: No, alla Capponi, a Balsamo, a Mario Fiorentini erano già state consegnate regolarmente. Credo tramite un decreto del Presidente del Consiglio.
A: Nel 1949.
M: Vennero consegnate nel 1949-1950. Quella a Bentivegna formalmente fu dimenticata nel cassetto ma è una spiegazione che non convince. Fu proprio la consegna della medaglia con molto ritardo a Bentivegna a rinfocolare le polemiche all’interno della sinistra perché fu Marco Pannella, seguito da Rutelli (il quale se ne scorderà quando sarà sindaco di Roma), che in piena era brigatista e post- brigatista sollevò il problema se si fosse trattato di un’azione di guerra o di un atto terroristico paragonabile a quelli delle Brigate Rosse e definibile come terrorismo.
A: All’inizio degli anni Ottanta?
M: 1982-1983… Avvennero molte cose strane. Ricordiamoci delle sentenza del tribunale militare contro Kappler: «Poco dopo sull’imbrunire arrivava il commissario Alianello con una lista di cinquanta nomi datagli dal questore Caruso che consegnava al direttore del carcere. Questi cancellava undici nomi, precisamente quelli indicati con i numeri progressivi 40-49 e con il numero 21 e 27, e li sostituiva con altri undici nomi relative a persone che erano già state portate dal tenente [...] e che non erano comprese nella lista». Questo è possibile scriverlo nella sentenza solo perché Carretta è morto. Perché negli interrogatori Carretta aveva detto esattamente il contrario. E cioè che quelle cancellature erano opera del commissario Alianello.

A: Che personaggio era Alianello?
M: Era un personaggio particolare. Rappresentava quei vertici della polizia – non solo lui, anche l’ufficio politico della questura di Roma – i cui componenti avrebbero fatto una splendida carriera al Ministero dell’Interno. Alianello dopo un breve periodo di epurazione venne riammesso nei ranghi e inviato, nel 1947-1948, nella zona di Bolzano. Poi fece carriera al Ministero dell’Interno fino alla pensione nel 1983-1984 come prefetto. Ma c’è di più. Alianello, oltre a comparire nella vicenda della lista dei detenuti, compare anche nella biografia di Kappler scritta dalla moglie Anneliese. In quelle pagine si spiega che Alianello fu l’unico italiano ad essere presente o a partecipare all’eccidio delle Fosse Ardeatine. Ma il brano, che compare nell’edizione tedesca, in quella italiana (Ti porterò a casa. Il caso Kappler: da via Rasella alla fuga da Roma, Ardini, 1988) è stato eliminato. Insomma un personaggio non indifferente.
A: E nessuno chiederà mai conto ad Alianello?
M: No. Alianello compare in una cronaca del “Corriere della Sera” del processo Kappler. Il 22 giugno 1948 viene chiamato a deporre come testimone. Gli viene fatta qualche domanda, non ricordo se dall’accusa o da qualche avvocato di parte, e lui risponde in modo vago… Cosi riporta la cronaca del giornale: «Dopo l’8 settembre ’43, se io rimasi al Ministero dell’Interno, lo feci d’accordo con l’Intelligence service, cioè il servizio segreto inglese». Spiegò anche come riuscì a salvare Antonello Trombadori: «Sentii il bisogno di interessarmi alla sorte del generale Simoni e del capitano dei carabinieri De Carolis. Kappler mi rispose che non c’era nulla da fare. Riuscii solo a strappare alla morte il comunista Antonello Trombadori, perché nei suoi confronti da tempo avevo compiuto un paziente lavoro per modificare le accuse che gli contestavano…». Da quel momento la deposizione di Alianello finisce e non verrà mai più chiamato. Un personaggio molto abile.
A: È verosimile?
M: Non lo so. Qualcuno ha anche ventilato l’ipotesi che gli elenchi degli ebrei da rastrellare a Roma il 16 ottobre 1943 fossero stati compilati dal Ministero dell’Interno e da personaggi come Alianello; per questo Kappler disse poi che lui non ne sapeva nulla. Poi si dirà che quelle mappe furono date ai reparti speciali dei paracadutisti tedeschi perché contenevano molti indirizzi sbagliati…
A: Poteva essere lui quello che corresse la lista dei 50 da mandare alle Fosse Ardeatine, togliendo e aggiungendo nomi per compiacere il PCI?
M: Questo è quello che sostenne Carretta in modo molto preciso e diretto. Se Caruso venne condannato alla fucilazione, altri personaggi che materialmente misero mano a quella lista avrebbero dovuto quanto meno rispondere.
C’è un opuscolo molto importante scritto da Giacomo Debenedetti nel settembre 1944, (poi ripubblicato dal Saggiatore nel 1959 e dagli Editori Riuniti nel 1978), Otto ebrei, gli otto i cui nomi furono cancellati e si salvarono. Quindi il tema allora è più che presente…
A: Spieghiamo meglio.
M: Nel merito, Debenedetti scrive: «Ce ne fossero stati, ce ne fossero ancora tanti, degli Alianelli… Ce ne fossero stati degli Alianelli a Varsavia e a Lublino». E si può e si deve senz’altro condividere il giudizio positivo sul ruolo di Alianello “salvatore di ebrei”. Ma è una visione, come dire?, parziale. Perché si è trovato così il modo di allungare con precisione chirurgica la lista di quelli di Giustizia e Libertà e di Bandiera Rossa mandati a morire; perché 75 ebrei sono comunque stati massacrati solo perché ebrei in seguito all’attentato di via Rasella; perché Alianello s’è ben guardato, per esempio, dal salvare personaggi come Aldo Finzi, ebreo, sottosegretario nel primo governo Mussolini, con l’unico errore di essere nella parte sbagliata della Resistenza (ossia, come risulta dal dossier Ascarelli, di essere un cane sciolto del CLN in contatto con il Partito Democratico del Lavoro e a capo di una banda che operava ai Castelli, evidentemente con troppa autonomia). In realtà quella di Debenedetti è una provocazione, uno spietato j’accuse sul fatto che si sta passando dall’“antisemitismo della persecuzione” all’”antisemitismo per amore”, all’antisemitismo dei “furbi come Alianello”, che corrono a sfoggiare benemerenze, e di cui si sta imbevendo l’antifascismo. Una grande intuizione. A Giacomo Debenedetti dobbiamo alcune parole in questo opuscolo che potrebbero essere considerate, proprio per il momento in cui le scrive, il più grande inno alla libertà di pensiero: «… chi ha capito come la libertà sia letteralmente una questione di vita o di morte, è pronto a riconoscere che, tra tutte le libertà che compongono la Libertà, è compresa anche la libertà di essere antisemiti» (il corsivo è suo). Su via Rasella, nello specifico sulla manipolazione delle liste, sui giochi intorno agli elenchi dei “meritevoli di morte”, siamo passati per l’omissione fino alla rimozione generale…

Le vittime del battaglione Boxen allineate a via Rasella.

Le vittime del battaglione Bozen allineate a via Rasella.

A: Torniamo a via Rasella e al momento dello scoppio.
M: Secondo la sentenza del tribunale lo scoppio avvenne alle ore 15 circa. Io rintracciai i superstiti del Bozen. Quello che intervistai aveva ancora la cicatrice di una scheggia. Marciavano con i fucili scarichi, vecchi fucili italiani di fine Ottocento. Però portavano alla cintola delle granate, che esplosero dopo la deflagrazione principale. Lui aveva una ferita da scheggia di granata che lo aveva colpito solo in parte perché fermata dal calcio del fucile. Gli uomini del Bozen hanno sempre avuto la convinzione di essere stati in qualche modo venduti dai tedeschi. Hanno coltivato questo sospetto, in parte frutto di una ancestrale e reciproca diffidenza tra tedeschi e altoatesini. Secondo loro all’interno del comando tedesco si sapeva che quel giorno sarebbe successo qualcosa. Questa sensazione l’hanno ricavata in seguito: insolitamente quel giorno il loro corteo era preceduto da un autoblindo e chiuso da ufficiali e sottoufficiali tedeschi armati. Prima di via del Babuino furono fatti fermare e tutti i tedeschi si spostarono in testa. Comunque al di là di questo, il dato di fatto è che sicuramente a via Rasella non è morto nessun nazista.
A: Torniamo a Chiaretti, la seconda vittima civile. Che ci faceva lì? Era stato veramente chiamato per partecipare a un incontro? Oppure attirato in una trappola per far vedere che era stato lui l’autore?
M: Ho parlato con gli ultimi due reduci di Bandiera Rossa, Roberto Guzzo e Orfeo Mucci. Sono convinti che i compagni di Bandiera Rossa siano stati attirati in una trappola. In qualche modo lo fa capire anche il “fascista di sinistra” Felice Chilanti in Ex un libro del 1969: «… ma quelli del partito erano contro di noi… Siamo condannati a morte tutti quanti». Chilanti era un giornalista fascista che aderì poi a Bandiera Rossa e dopo la guerra lavorò, come Mauro de Mauro, nei giornali di orbita comunista.
Nella seconda metà degli anni ’60, con i fermenti nella sinistra e nella società italiana, ci fu una fase importante. Si tentò di recuperare la memoria di Bandiera Rossa, conciliandola con la storia del Partito comunista. Il tentativo più fruttuoso lo fece Silverio Corvisieri, che di lì a poco divenne uno dei fondatori di Avanguardia Operaia, gruppo della nuova sinistra, per poi rientrare nei ranghi del PCI, il quale avrà l’archivio di Bandiera Rossa. Dopo l’uscita del libro, dell’archivio si persero le tracce. Corvisieri riportò la vicenda di Chiaretti in modo singolare. Disse che due compagni di Bandiera Rossa trovarono la morte a via Rasella. Uno era Antonio Chiaretti e l’altro Enrico Pascucci. Finirono nella retata dei tedeschi, si trovavano nei dintorni…

A: E furono giustiziati?
M: Non alle Ardeatine. Secondo Corvisieri tirarono fuori le armi, reagirono e vennero uccisi sul posto. Una versione che Bentivegna si prese la briga di fare sua: il giorno dopo che scrissi questa storia di Antonio Chiaretti e Pascucci su “Il Giornale”, Bentivegna in un’intervista al “Corriere della Sera” disse che non aveva mai saputo nulla della storia dei compagni di Bandiera Rossa. Anzi, come scriveva Corvisieri, «probabilmente erano incappati nel rastrellamento dei nazisti, avevano estratto le armi e fatto fuoco come avrei fatto io». Questo me lo ricordo perché io scrissi il giorno dopo: «si, peccato che lui non ha estratto le armi, ha solo acceso la miccia e se ne è andato».
Comunque, feci un po’ di verifiche e scoprii che in verità questo Enrico Pascucci non era morto né a via Rasella ne alle fosse Ardeatine. Rintracciai la figlia, che cadde dalle nuvole: «mai saputo che mio padre era di Bandiera Rossa, anzi mi ha detto che quel giorno lui aveva acquistato a piazza Barberini un libro, tant’è che ce l’abbiamo ancora a casa». All’ufficio dell’anagrafe c’è la sua scheda, tutta piena di correzioni. Risultava morto alle Fosse Ardeatine, poi cancellato, poi risultava vivo e poi sarebbe morto di morte naturale parecchi anni dopo, negli anni Sessanta o Settanta.
La versione di Corvisieri è singolare perché mescola la verità della presenza di Antonio Chiaretti, che però viene fatto uccidere dai tedeschi, con la morte di uno che invece si salva. Gli telefonai, all’epoca, stava a Ponza. Mi liquidò dicendomi: «Ma, evidentemente risultava dall’archivio».
È curioso che Bentivegna facesse subito sua questa versione cinquant’anni dopo. E poi, comunque, dagli accertamenti successivi Enrico Pascucci non risulterà ammazzato né alle Fosse Ardeatine né a via Rasella e Antonio Chiaretti risulterà, senza ombra di dubbio, morto per scoppio di bomba.
A: Nella lapide a via Quattro Fontane le risulta che Chiaretti ci sia?
M: No, Chiaretti è scomparso. Ma quella è una lapide recente, del 2010. Fu messa dal sindaco di destra Gianni Alemanno. Inizialmente Alemanno voleva mettere una targa in memoria di Zuccheretti. La versione ufficiale dice che per la ferma opposizione degli abitanti, che temevano attentati, venne messa quella targa in ricordo dei dieci abitanti rastrellati a via Rasella. Tra questi Gigliozzi, Frasca, il calzolaio… Chiaretti scomparve, così come scomparve Antonio Rezza, l’uomo di Pietro Secchia. Un articolo dell’”Unità” del 1948 citava Antonio Rezza tra i componenti del commando che aveva partecipato all’operazione di via Rasella. Rezza fu ucciso sul fronte, nei pressi di Alfonsine, da una mitragliata partigiana alle spalle. E così anche lui scomparve. Trovai il nome di Antonio Rezza su una lapide a via del Banco di Santo Spirito, accanto al civico 24, in un elenco di caduti della Resistenza. Vedendo la lapide si ha come l’impressione che sia stato aggiunto dopo perché ci sono due file di nomi in ordine alfabetico e quello di Rezza è posto al centro sopra di esse.
Comunque, quello che a oggi è ancora incredibile è che non ci sia nessun cultore della Resistenza che spieghi che cosa ci faceva il cadavere di un comandante (Antonio Chiaretti) di una formazione partigiana come Bandiera Rossa, a via Rasella. E che spieghi perché non è mai stato nominato.

(Si ringrazia Marco Barbasàn Ballotta per la preziosa collaborazione)