VIA RASELLA-FOSSE ARDEATINE, LA MEMORIA DISCORDE E L’INDAGINE STORICA MANCATA

di Federigo Argentieri -

Si fronteggiano due posizioni diverse sull’episodio più discusso e tragico della Resistenza. Prenderne atto può aiutare a capire come i settantuno anni trascorsi da allora non siano stati sufficienti a far emergere né una visione condivisa né la pacatezza necessaria a una completa indagine storica.

I due articoli riprodotti qui sotto rappresentano con efficacia posizioni molto diverse, ma non necessariamente contraddittorie su quello che rimane l’episodio tuttora più contrastato e discusso dell’intera Resistenza italiana, ossia l’attacco di via Rasella e la conseguente strage delle Fosse Ardeatine. I settantuno anni trascorsi da allora non sono stati sufficienti a far emergere né una visione minimamente condivisa dell’evento, né tantomeno la pacatezza, l’analisi di ogni fattore e la completezza dell’indagine storica che ne rappresentano la condizione necessaria: prova ne è il fatto che ogni discussione in merito, anche tra persone qualificate, finisce regolarmente nel vicolo cieco delle prese di posizione ideologiche, emotive, apologetiche o denigratorie, come recentemente dimostrato dalle reazioni della stampa e dell’opinione pubblica alla morte di Erich Priebke, avvenuta un anno e mezzo fa.

Gli autori, Bianca Bracci Torsi (1931-2014) e Massimo Caprara (1922-2009) provengono dalla stessa esperienza, ossia da una lunga militanza nel PCI: a ciò si può aggiungere che entrambi ne uscirono “a sinistra”, Caprara nel 1969 con il gruppo de “il Manifesto” e Bracci Torsi nel 1991, al momento dello scioglimento, con Rifondazione comunista. Per amore di completezza, si potrebbe anche aggiungere che entrambi provenivano da famiglie della buona borghesia, l’una di Pisa e l’altro di Napoli, che avevano tradizioni assai lontane da quelle del partito di Togliatti.
Nella seconda parte della loro vita furono però certamente assai diversi: Caprara collaboratore de “il Giornale” di Montanelli e successivamente convertito ad un cattolicesimo di stampo quasi mistico, Bracci Torsi invece comunista “dura e pura” fino alla morte, avvenuta lo scorso dicembre.
Si diceva che gli articoli sono molto diversi ma non necessariamente contraddittori tra loro. Questo porta ad una domanda: è possibile indagare sulla strategia seguita dal partito comunista nella Resistenza senza necessariamente cadere nell’apologetica o nella denigrazione? È permesso interrogarsi – come fa Caprara – sull’unico obiettivo pienamente raggiunto dell’attentato di via Rasella, ossia la decapitazione (da parte della rappresaglia nazista) di tutti i gruppi politici della resistenza romana – militari fedeli al re, azionisti, comunisti di Bandiera Rossa – che il partito comunista vedeva come pericolosi rivali?

Nella sua recensione al libro di un’altra comunista “dura e pura”, Marisa Musu (1925-2002), che partecipò all’azione di via Rasella, Bracci Torsi tocca temi solitamente ignorati dalla vulgata resistenziale, come il ruolo dei militari e altro. Cita anche Corrado Govoni (dandogli del fascista, come se fosse stato l’unico) e il suo libro di poesie per il figlio Aladino, militante di Bandiera Rossa morto alle Ardeatine, completamente sconosciuto ai più; e menziona anche l’ancor più sconosciuta Jo’ Di Benigno, pseudonimo di Jolanda Maria Apollonia Carletti in Olmi, una nobildonna italo-cipriota di sentimenti antifascisti molto vicina alla resistenza militare di Montezemolo, nel cui libro (uscito nel 1945 e mai più ripubblicato, come quello citato di Govoni, uscito nel 1946) si può leggere a pagina 179 questa frase, naturalmente omessa da Bracci Torsi, mai smentita ma sepolta dall’efficacissima damnatio memoriae della vulgata di cui sopra: «”Non avete qualche contatto utile con i militari?” chiesi un giorno ad un esponente comunista che non sapeva di che cosa io fossi a conoscenza. Penso che si ricorderà bene di avermi risposto: “Sì, abbiamo un colonnello, piemontese monarchico, ma poi all’ultimo momento lo facciamo fuori”». Il colonnello era con ogni probabilità Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, comandante del Fronte militare clandestino a Roma, arrestato poi dalle SS e ucciso alle Ardeatine.

Interessante, in conclusione, ripercorrere il rapporto tra Massimo Caprara e il suo quasi coetaneo Giorgio Napolitano, seguace storico di Giorgio Amendola, soprattutto tra il 2006 (anno della prima elezione di Napolitano al Quirinale) e il 2009: entrambi giovani comunisti napoletani provenienti dalla buona borghesia, le loro strade politiche andarono divaricandosi sempre più dal 1969 in poi. Sebbene Caprara fosse stato severo con Napolitano dopo l’elezione a presidente, quest’ultimo ebbe parole piene di rispetto e di stima in occasione della sua scomparsa, forse tradotte anche in pratica con la successiva assunzione del nipote Maurizio, giornalista del “Corriere della Sera”, al Quirinale in qualità di consigliere per la stampa e l’informazione.
Per chi avesse voglia di lavorare a una ricostruzione completa delle vicende qui menzionate, senza pregiudiziali né omissioni di sorta, la porta è aperta, anche se il cammino è lungo e arduo. Ne sa qualcosa il giornalista Pierangelo Maurizio, autore di due libri molto importanti sull’argomento, con il quale ho svolto una lunga conversazione che sarà pubblicata nel prossimo numero.

Libri citati
Corrado Govoni, Aladino, Milano, Mondadori, 1946 (ripubblicato nel 1997 da Pierangelo Maurizio edizioni, Roma).
Jo’ Di Benigno, Occasioni mancate. Roma in un diario segreto 1943-44, Roma, Edizioni SEI, 1945

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(recensione pubblicata nel 1999 sul periodico comunista “L’Ernesto”)

“Roma Ribelle” La resistenza nella capitale, 1943-1944

Nel libro di Marisa Musu e Ennio Polito la storia dell’anomala lotta partigiana nella capitale, una lotta di massa che sconfessa l’attuale revisionismo volto a negare il carattere popolare della Resistenza

di Bianca Bracci Torsi -

Palazzo Tittoni, in via Rasella, subito dopo lo scoppio

Palazzo Tittoni, in via Rasella, subito dopo lo scoppio

Non è la memoria di un reduce, ma l’elaborazione di una esperienza consapevole da parte di una protagonista che ha trovato conferma alle sue scelte, vivendo ogni tempo come il proprio, senza nostalgie. Roma ribelle di Marisa Musu e Ennio Polito (Teti editore, pagg. 376, lire 40.000) è un libro di questo tempo, scritto per quelli che non conoscono il passato prossimo o ne hanno un’immagine colorata dai toni ingannevoli del ricordo o falsata da spregiudicate interpretazioni. Un libro costruito come il testo di storia di una scuola che non c’è, rigoroso e facile, attraente e documentato, che unisce documenti inediti o poco noti, pagine dimenticate, introvabili, testimonianze di prima mano raccontate da brevi capitoli che gli autori hanno intitolato Il filo degli avvenimenti. Musu e Polito affrontano la storia di una Resistenza anomala in una città anomala, priva di grandi concentrazioni operaie, centro del potere politico e religioso, ma nella quale comunisti e socialisti avevano saputo creare una rete clandestina fra gli artigiani, gli studenti, le donne e gli uomini di un popolo minuto, affamato e ribelle al quale si erano aggiunti sfollati attratti dalla illusione della Città aperta, militari fuggiaschi rimasti bloccati a metà strada da casa, dirigenti antifascisti liberati appena in tempo dai luoghi di confino. In questa magmatica società nascono e lavorano le forze politiche del CLN; oltre al PCI, i socialisti delle Brigate Matteotti, i Democristiani, Giustizia e Libertà, il Fronte militare monarchico-badogliano e poi Bandiera Rossa che rifiutò il CLN per una pregiudiziale antimonarchica e i Cattolici comunisti che ne furono esclusi dal veto della DC. Ci sono, naturalmente, luci e ombre; delatori, arresi alla paura e all’avidità, generali e alti prelati che condividono col papa e col re la paura di un domani nel quale un mutato rapporto di forze fra le classi metta in discussione il loro potere, vecchi fascisti disposti a tutto per salvare se stessi e i propri beni. Ombre anche all’interno del fronte antifascista, dove l’attendismo non è sempre e solo dettato dalla paura per se e per gli altri ma anche dalla preoccupazione – condivisa dal governo Badoglio – che l’intervallo fra la ritirata tedesca e l’arrivo degli alleati consenta l’occupazione della città a quel popolo in armi che la borghesia romana conosce e teme. Un popolo che ha trovato i suoi dirigenti e i suoi capi nei comunisti, la forza più consistente, disciplinata, combattiva.
Ma
Roma ribelle non è solo questo. In modo diretto e limpido, col linguaggio dei fatti, Musu e Polito affrontano i nodi politici della lotta antifascista nel momento cruciale del passaggio dalla cospirazione alla lotta armata, quando si impose, anche a quelli che non presero direttamente le armi, una scelta che poteva costare, e in molti casi costò, la vita. Nodi oggi riproposti da storiografia e pubblicistica che si chiamano “zona grigia”, “morte della patria”, “comprensione” per chi si schierò col fascismo, obiettivi diversi e contrapposti all’interno del fronte antifascista.
La teoria, elaborata da De Felice e Galli della Loggia e oggi largamente e autorevolmente ripresa, che comprende nella zona grigia di chi aspettava la fine della guerra indifferente ai suoi esiti, pronto a schierarsi con il vincitore, la grande maggioranza degli italiani è alla base del revisionismo negazionista dal quale deriva la definizione della Resistenza di guerra civile, combattuta fra due gruppi ugualmente esigui e fanatici, fascisti e comunisti. Secondo questa banale e pericolosa vulgata, la Resistenza a Roma si ridurrebbe all’azione di via Rasella, rappresentata come l’iniziativa isolata di un gruppo di comunisti in definitiva veri responsabili del successivo eccidio alle Fosse Ardeatine che avrebbero potuto, prima o dopo l’attacco, evitare.
In realtà quella di via Rasella fu la trentatreesima azione dei GAP, alla quale si sommano le iniziative delle Brigate Matteotti, di Giustizia e Libertà, di Bandiera Rossa, dei cattolici comunisti, dei militari. E fu una legittima azione di guerra alla quale i tedeschi risposero con una rappresaglia sui civili non contemplata in nessun trattato, i cui esecutori furono condannati dal Tribunale internazionale per il reato di strage. La notizia dell’attacco di via Rasella venne data insieme a quella del massacro delle Ardeatine per evitare, come dichiarò Kesserling al processo, la reazione dei romani che evidentemente i nazisti consideravano meno “grigi” di De Felice. Forse perché vivevano sulla loro pelle l’odio diffuso contro di loro, sapevano quanto fosse pericoloso entrare senza debita scorta nei popolari quartieri di S. Lorenzo e Quadraro, erano in grado di valutare l’esiguo numero di uomini disposti a lavorare nelle TOD, nonostante le razioni alimentari enormi per quei giorni di fame, sapevano che ogni retata era preceduta da donne e ragazzi in corsa che avvisavano
scappate, arrivano i tedeschi, si vedevano sfuggire sotto il naso partigiani e antifascisti per i quali si aprivano porte sconosciute e nascondigli invisibili, dovevano correre più volte ogni notte in soccorso delle colonne militari avviate al fronte di Anzio, bloccate sulle vie consolari dai semplici e micidiali chiodi a tre punte. Sapevano anche che molte case insospettabili, ospedali, cliniche, seminari e conventi ospitavano falsi ammalati, falsi preti e seminaristi, in realtà ebrei, renitenti alla leva, prigionieri alleati fuggitivi, resistenti, tutti coloro insomma che i nazifascisti accomunavano nel termine “comunisti-badogliani”.
Probabilmente il maresciallo Badoglio, dal suo sicuro rifugio di Brindisi, avrà reagito con una nobile smorfia alla frase che lo accomunava ai suoi nemici di sempre, certamente molti comunisti l’hanno rifiutata con parole e gesti meno eleganti ma a una rilettura di oggi quella definizione rivela un suo fondo di verità. Nei due giorni di guerra aperta per le strade di Roma, dall’8 al 10 settembre e nei successivi 9 mesi di occupazione tedesca a fianco di antichi combattenti per la libertà, di giovanissimi studenti appena emersi dal lungo sonno della propaganda fascista, di operai, di popolane, di soldati si trovarono uomini per i quali il comunismo era stato qualcosa di pauroso e lontano e la patria un valore alto e indiscutibile per il quale si doveva combattere e si poteva morire. Erano ufficiali dell’esercito, della Marina, dei Carabinieri come Frignani, Oddone, Maraffa, come il colonnello Cordero di Montezemolo, ucciso alle Ardeatine, come il generale Martelli Castaldi. Monarchici per tradizione, estranei alla politica, avevano combattuto le guerre fasciste in Africa e in Spagna, spesso riportandone decorazioni e gradi, avevano creduto o voluto credere nella vittoria dell’Asse, avevano vissuto l’armistizio come una dolorosa sconfitta, resa più amara dalla gioia del popolo e dei loro uomini. Alcuni disprezzavano Mussolini e i suoi gerarchi, altri li identificavano con l’Italia, ligi a un costume militare che non prevedeva il giudizio politico sui propri governanti. Così come rifiutavano di giudicare la tardiva e maldestra dissociazione dal fascismo del loro re e la sua fuga ignominiosa: monarchici, fedeli al giuramento. Non mancarono certo, fra loro, i casi di settario rifiuto di ogni contatto con comunisti e socialisti riferiti in un raro testo di Jo’ Di Benigno, collaboratrice del ministro della guerra Sorice che si affianca a scritti del comunista Amendola, dell’ufficiale Paladini, dell’azionista Colorni, del medico antifascista Ascarelli, alla cui opera di competenza e d’amore si deve il recupero e l’identificazione dei morti delle Ardeatine, ma ufficiali, soldati, carabinieri morirono in combattimento, furono arrestati, torturati, deportati, uccisi insieme ai comunisti del PCI e di Bandiera Rossa, agli azionisti, ai socialisti. Evidentemente per loro, con buona pace di De Felice e di Galli della Loggia, l’idea di nazione non era finita nella stretta soffocante fra una monarchia impossibilitata a essere “credibilmente nazionale e antifascista” e una Resistenza non “sufficientemente nazionale e patriottica”. In realtà la Resistenza è presente non solo nelle case popolari di vecchia tradizione antifascista, ma apre varchi imprevisti in famiglie borghesi “nelle quali ci si poteva permettere di ignorare il fascismo e la guerra” e tragiche contraddizioni in nuclei familiari fascisti.
È il caso del poeta Corrado Govoni, celebrato autore di un “Poema a Mussolini” il cui figlio Aladino, ufficiale di complemento e militante di Bandiera Rossa, fu ucciso alle Ardeatine e quello, molto diverso e toccante, di Luciana Bergamini, studentessa ventenne che rivela a suo padre, ammiraglio, comandante della flotta italiana, che morirà sulla sua nave bombardata dai tedeschi mentre cerca di raggiungere gli alleati “secondo i termini dell’armistizio”, la sua appartenenza alla organizzazione comunista clandestina. L’ultimo penoso colloquio prima di una partenza senza ritorno che si concluderà con poche parole dell’ufficiale “fedele al re ma non favorevole al fascismo” alla figlia “se tu credi in un altro sistema hai fatto benissimo a fare quello che hai fatto… forse non sbagli tu, abbiamo sbagliato noi”.
In quei nove mesi si intrecciano esistenze che in altre condizioni storiche non avrebbero avuto l’opportunità di sfiorarsi e si segnano a vicenda: anche se nel dopoguerra torneranno a erigersi molti muri fra le classi e le scelte di campo, per tanti e tante la vita non sarà più la stessa. Jo’ Di Benigno inveisce piangendo contro l’alto ufficiale che rifiuta di combattere con comunisti e socialisti che lei “monarchica” e “borghese tradizionalista” considera fratelli d’armi, Montezemolo ignora i ripetuti richiami del governo Badoglio a “non mischiarsi con nessun partito”, preti, frati, suore non seguono l’ambigua equidistanza di Pio XII che l’anticomunismo porta pericolosamente vicino agli occupanti fino al silenzio di fronte alla deportazione degli ebrei del Ghetto e perfino di fronte all’uccisione di due sacerdoti, anti fascisti e legati al loro popolo più che alle gerarchie vaticane, come don Morosini e don Pappagallo.
Giustamente, nella sua onesta e coraggiosa prefazione al volume, Paolo Emilio Taviani rivendica l’unità fra regioni, classi sociali, generazioni, scelte politiche che ha fatto della “guerra dei cento fronti” una pagina unica nella storia d’Italia in quanto “germinò da una resistenza di massa e poggiò continuamente su di essa” a differenza dal Risorgimento di cui “fu protagonista una élite”. Con una esemplare coerenza, alla quale purtroppo non siamo più abituati, l’anziano dirigente democristiano trova naturale, dopo decenni di scelte diverse e contrapposte, ritrovarsi a fianco dei suoi compagni di allora per combattere insieme, con uguale determinazione, l’oblio, la rimozione, la dimenticanza. Un ulteriore stimolo alla lettura/rilettura ci è offerto da Roma ribelle con le due frasi che aprono il volume, a mo’ di distico, tratte da
Memoria della Resistenza di Mario Spinella edito da Mondadori nel lontano 1974, che vale la pena ricercare fra biblioteche e bancarelle: “Solo, a sostenerci, restava l’orgoglio amaro di essere diversi dai nostri nemici…, ..forse era più facile combattere, da partigiani, con l’arma alla mano, che, domani, resistere e avanzare nelle sabbie mobili di una società che abbisognava di una radicale riforma intellettuale e morale”.

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(pubblicato sul mensile cattolico “Il Timone”, n. 32, anno VI, aprile 2004, pagg. 26-27)

La “strage cercata” di via Rasella

Fu uno degli episodi più “celebrati” della Resistenza partigiana. Un “atto di guerra” che nasconde un oscuro “regolamento di conti” fra comunisti

di Massimo Caprara -

Il corpo smambrato di Piero Zuccheretti

Il corpo smembrato di Piero Zuccheretti

A Roma, alle ore 15 e 52 del 23 marzo 1944 passarono cantando puntualmente come ogni giorno “Hupf meine Model” (“Salta ragazza mia”) i riservisti altoatesini del Battaglione Bozen, aggregato al Polizei Regiment della Wehrmacht. Trentatre di essi vennero fatti letteralmente a pezzi da un’esplosione dinamitarda. Fra i morti, una salma a lungo nascosta, quella di un bambino di 13 anni [Piero Zuccheretti, n.d.r], tagliato in due dalla deflagrazione. Inoltre, due altre persone furono estratte dal cumulo delle vittime, alle quali dopo molto tempo vennero dati un nome e una qualifica: si tratta di Antonio Chiaretti e Enrico Pascucci, entrambi appartenenti al gruppo clandestino politico militare anticomunista denominato Bandiera Rossa. Si accertò che erano state vittime di un tranello, attirate sul posto e a quell’ora da altri militanti antifascisti. L’orrendo massacro avvenne in via Rasella, che sbuca nella centralissima Piazza del Tritone. La reazione efferata, purtroppo prevedibile in una capitale dichiarata “città aperta”, inchioda barbaramente “l’atto di guerra” di via Rasella, come tale definito nell’anno 2001 dalla Suprema Corte di Cassazione della Repubblica, nell’oscuro ipogeo delle Fosse Ardeatine. Vi vennero fucilati 335 cittadini italiani da parte dei reparti agli ordini del colonnello nazionalsocialista Kappler, il 24 marzo.
Scorrere i loro nomi è utile: circa 30 appartengono al Centro militare clandestino di tendenze monarchiche guidato dal colonnello Giuseppe Cordero di Montezemolo del Comando supremo italiano; 52 appartengono al Partito d’Azione e alle formazioni di Giustizia e Libertà; 75 sono artigiani, commercianti e intellettuali di religione ebraica; 68 militavano in Bandiera Rossa. Nessuno apparteneva al Partito comunista italiano, che pure contava a Roma di un forte apparato militare e di consistenti complicità coperte. Molti militanti e confidenti erano stati già arrestati, indiziati e, alcuni, tristemente perseguitati. Nessun comunista si trovò in carcere a Regina Coeli o nel luogo di detenzione esattamente in quei giorni della strage e della rappresaglia. Vi si trovarono invece tutte persone che il Pci considerava nemici esecrandi, da mettere fuori combattimento: comunque. Soprattutto sono considerati nemici giurati gli appartenenti a Bandiera Rossa. Essi sono valutati, senza mezzi termini, puramente “trotzkisti”: i peggiori avversari di Stalin. Leone Trotzkji, ebreo, fondatore dell’Esercito rosso, era stato, infatti, prima condannato, poi esiliato, braccato in tutto il mondo dalla polizia sovietica, per essere assassinato a Città del Messico da un esecutore di origine italo-spagnola, nel 1940, dopo una spietata caccia durata vent’anni. Dopo la guerra civile spagnola del 1936-38, nella Roma di quegli anni feroci, continuava il massacro. L’apparato comunista organizzò e seppe cogliere l’occasione di via Rasella e le sue conseguenze.

L’attentato venne escogitato, pensato e previsto dai membri comunisti della rete romana: Giorgio Amendola, che ne è il più alto in grado, Mauro Scoccimarro, Antonio Cicalini, di sicura scuola moscovita, oltre a minori ma preziosi collaboratori, infiltrati, delatori, confidenti nelle organizzazioni fasciste, nelle istituzioni carcerarie, nei presidi sanitari e polizieschi del fascismo. Amendola propose il luogo, l’ora e le modalità dello scoppio di via Rasella. Gli altri uomini d’azione, responsabili di settore e soprattutto dei Gap, il sistema terroristico facente capo al Pci, cioè i Gruppi d’Azione Patriottica, perfezionarono e operarono il resto. Nel suo volume Lettere a Milano, al quale andò come onorificenza il premio Viareggio per la saggistica del 1974, Amendola rivelò che era stata sua l’iniziativa della designazione del luogo e del reparto tedesco da attaccare. Egli ne parla espressamente nelle pagine 290 e 291. Una volta messo in pratica l’attentato in via Rasella, si trattava di compilare, mercanteggiare, correggere e definire le liste dei fucilandi per il comando della Wermacht che le aveva sollecitamente chieste. Furono allora mobilitati tutti gli addetti ai rapporti di intelligence mantenuti dalla Federazione del Pci con la Direzione di Regina Coeli, la Questura di Roma, la divisione della polizia politica del Ministero italiano degli Interni, l’Opera Volontaria di Repressione Antifascista (OVRA), tutto il sistema spionistico esistente a Roma. Il teste principale di questo turpe mercato venne opportunamente liquidato a tempo debito. Donato Carretta, direttore di Regina Coeli, venne linciato tra l’aula del Palazzaccio, le scale di Ponte Umberto e le onde del Tevere alle 9 di mattina del 18 settembre 1944. Gli altri collaboratori furono l’ex comunista Guglielmo Blasi, divenuto informatore della polizia militare tedesca, il tipografo autodidatta Giulio Rivabene, di cui Amendola puntualmente scrive nel suo libro nello spazio dedicato a militanti corrotti. Nel numero 7 del gennaio 1944 de “l’Unità”, la direttiva era stata tempestivamente data: «Si invitano i compagni a smascherare e colpire gli agenti trotzkisti, ossia di Bandiera Rossa, nel Partito, nel Sindacato, nelle formazioni armate, ovunque essi si annidano». Nel giornale clandestino milanese del dicembre 1943, “La nostra lotta”, Pietro Secchia aveva dato il via al circuito malsano di informatori, gestori, operatori dell’infame reperimento dei fucilandi della “strage cercata” di via Rasella.

Ricorda
“L’attentato che provocò quella carneficina fu voluto per un solo scopo. A Roma ormai le formazioni della Resistenza che non riconoscevano il Cln avevano la maggioranza. Ed erano a buon punto le trattative avviate dalla federazione Repubblicana Sociale con Kappler perché i tedeschi lasciassero Roma senza spargimenti di sangue. Ma nel voler far fallire questo accordo c’era un interesse del Pci, per fini di politica interna”.
(Roberto Guzzo, fondatore dei gruppi Bandiera Rossa, cit. in Pierangelo Maurizio,
Via Rasella, cinquant’anni di menzogne, Maurizio Edizioni, Roma 1996, p. 69).

Bibliografia
Ugo Finetti,
La Resistenza cancellata, Ares 2003 (“Via Rasella e le Fosse Ardeatine”, pp. 215-220).
Massimo Caprara, “Rasella: una strage cercata”, in Sergio Bertelli e Francesco Bigazzi, Pci: la storia dimenticata, Mondadori 2001.