TUTTO E NIENTE: I VICE-PRESIDENTI DEGLI STATI UNITI (2)

di Giuliano Da Frè -

 

 

Non sempre figure di secondo piano. Il texano Lyndon Johnson si ritrovò presidente dopo il fatale attentato di Dallas. Tra i vicepresidenti che seguirono nei decenni successivi tre – Gerald Ford, George H. Bush e Joe Biden – diventarono Presidenti. Da un solo mandato.

 

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Johnson presta giuramento sull’aereo presidenziale poco dopo la morte di JFK

Kennedy, un liberal della East Cost, come Roosevelt trent’anni prima vinse correndo con un democratico conservatore proveniente dal Texas, al pari del più volte citato Garner: il senatore Lyndon B. Johnson (1908-1973). Come Garner – che Johnson consultò prima di accettare la vicepresidenza – questo alto e ruvido texano era un politico di lungo corso, senza peli sulla lingua, e che presto sarebbe entrato in urto con il “cerchio magico” di JFK: la cosiddetta “mafia irlandese”, che comprendeva il fratello Robert, e alcuni consiglieri chiave come Kenneth O’Donnell e il ministro della Difesa Robert McNamara. Pur snobbato dal clan Kennedy, Johnson era un politico esperto, in parlamento dal 1937, e da un decennio uomo chiave del Partito democratico in Senato; senza contare che il tradizionale conservatorismo sudista non gli aveva impedito di aderire al New Deal di Roosevelt, di cui era stato collaboratore, anche durante la guerra come sorta di “ispettore” ufficioso nel Pacifico, mentre su diritti civili e segregazionismo si aprì negli anni, come poi dimostrò la sua attività come presidente dal 1963 al 1969. Infatti, Johnson fu (ad oggi) l’ultimo vicepresidente a subentrare a un presidente morto in carica, quando Kennedy fu assassinato a Dallas il 22 novembre 1963 [1]: e un anno più tardi fu confermato, correndo con il senatore del Minnesota Hubert Humphrey (1911-1978). Leale collaboratore del leader texano, tanto da essere accusato dall’ala liberal del partito di essersi appiattito su Johnson, Humphrey ebbe tuttavia un ruolo chiave nella politica per i diritti civili; e nel 1968 fu appoggiato da Johnson, quando questi, travolto dall’impopolarità della guerra in Vietnam, decise di non ricandidarsi.
Le elezioni del 1968 furono drammatiche, segnate, oltre che dalle sempre più sconfortanti notizie provenienti dal Vietnam, da durissime contestazioni popolari, scontri razziali, il ritiro di Johnson a primarie già aperte, e dall’uccisione di Marin Luther King, e del candidato democratico Robert Kennedy.

Gerald Ford

Gerald Ford

In questo scenario, l’esperto ma poco popolare Humphrey fu battuto da un Nixon tornato sulla scena da protagonista, dopo una lunga traversata nel deserto, e aiutato dalle spaccature avvenute nel fronte avversario [2]. Il leader repubblicano fu il primo ex vicepresidente a essere eletto presidente, non alla scadenza del mandato del suo leader uscente: risultato che poi sarà ripetuto da Joe Biden nel 2020.
Al proprio fianco, Nixon aveva Spiro Agnew (1918-1996), poco conosciuto governatore del Maryland di origini greche, distintosi in guerra, ma entrato in politica con un oscuro incarico locale quando aveva già superato la quarantina, con una fama di paladino dei diritti civili e ambientali – e di maneggione poco trasparente. Quasi una copia di Nixon: e non a caso la loro sorte fu assai simile. Confermati nel 1972 a maggioranza schiacciante, un anno più tardi toccò ad Agnew dare le dimissioni, per gravi accuse di corruzione ed evasione fiscale a suo carico, da cui poi uscì con patteggiamenti, e una condanna con la condizionale.
Con le sue dimissioni (le prime di un vicepresidente dai tempi di Calhoun, 141 anni prima), scattarono per la prima volta le disposizioni del XXV Emendamento varato nel 1967; e mentre lo speaker della Camera, il democratico Carl Albert (1908-2000), assumeva provvisoriamente il ruolo di eventuale successore di Nixon, questi poté per la prima volta nominare un nuovo vicepresidente: Gerald Ford (1913-2006), ex eroe dei campi di football e di battaglia nel Pacifico, oscuro parlamentare di lungo corso del Michigan ma di specchiata onestà, che fu confermato dal Senato entrando in carica il 6 dicembre 1973, a quasi 2 mesi dal ritiro di Agnew.
Ma la carriera di Ford (che tagliato fuori da ruoli più ambiziosi, a 60 anni era vicino a ritirarsi dalla politica) stava per subire una svolta ancora più spettacolare: il 9 agosto 1974, infatti, travolto dallo scandalo Watergate Nixon si dimise, lasciando la Casa Bianca al primo leader non eletto in un ticket presidenziale. A sua volta, Ford nominò un suo vice: e il 19 dicembre, dopo un altro “turno” per Carl Albert, entrava in carica Nelson Rockfeller (1908-1979), rampollo della potente famiglia di banchieri, prestato alla politica sin dal 1940, come uno dei tanti repubblicani ammiratori di Roosevelt, col cui governo collaborò durante la guerra, per poi far parte dell’amministrazione Eisenhower, ed essere governatore di New York dal 1959 al 1973, candidandosi più volte alle primarie repubblicane. Come vicepresidente sarebbe rimasto in carica sino al 20 gennaio 1977.

Mondale, vicepresidente di Carter

Mondale, vicepresidente di Carter

Nel 1976 erano tornati a vincere i democratici: e accanto a Jimmy Carter fu eletto vicepresidente Walter Mondale (1928-2021), senatore del Minnesota dal 1964, come l’ultimo vice democratico Humphrey, di cui condivise il destino avverso; prima lasciando l’incarico dopo appena 4 anni, a causa della sconfitta subita da Carter nel 1980 [3]. E poi correndo per le presidenziali del 1984, solo per subire una delle più schiaccianti sconfitte della storia politica americana, sebbene corresse per la prima volta affiancato da una donna candidata vicepresidente, l’italo-americana Geraldine Ferraro [4].
A mandarlo a casa due volte, prima come vicepresidente e poi come candidato presidente, era stato Ronald Reagan, attore di secondo piano poi trasformatosi in uno dei più popolari leader repubblicani dell’epoca. L’ex eroe di Hollywood fu affiancato da George H. Bush (1924-2018), un politico texano – ma originario del Massachussetts – eroe di guerra, imprenditore, e con una buona esperienza di politica estera maturata nelle amministrazioni Nixon-Ford, anche dirigendo la CIA nel 1976-1977. Bush fu un attivissimo vicepresidente, dal 1981 al 1989, tanto leale con Reagan quanto Mondale lo era stato di Carter – dopo decenni di dissensi interni alle “coppie” presidenziali, salvo poche eccezioni -, e anche tenendo conto che Reagan era all’epoca il più anziano presidente mai eletto, a quasi 70 anni. E Bush fu subito messo alla prova quando Reagan fu gravemente ferito in un attentato, il 30 marzo 1981: il vicepresidente gestì la situazione con discrezione, senza invocare il passaggio transitorio dei poteri, previsto dal citato XXV Emendamento. Reagan ne premiò fedeltà e competenza, affidando a Bush dossier chiave in materia economica e militare, soprattutto durante il secondo mandato, e nel 1985 gli trasmise i poteri ad interim mentre subiva una operazione per un cancro.

Al Gore e Clinton

Al Gore e Clinton

A dispetto di acciacchi, scandali (Iran-Contras) ed età, il 20 gennaio 1989 Reagan portò a termine anche il suo secondo mandato, e con una popolarità tale da spingere il suo vice alla presidenza, con la terza vittoria sui democratici ottenuta nel 1988. Bush si fece affiancare nell’occasione da un candidato vicepresidente giovane, il senatore dell’Indiana Dan Quayle, nato nel 1947 e primo dei “baby boomer” arrivati alla Casa Bianca – o nei dintorni: all’epoca una nuova generazione, ma ancora sulla breccia con la rielezione per il mandato 2025-2029 di Donald Trump, classe 1946.
Quayle tuttavia avrebbe fatto una carriera poco brillante: controverso gaffeur, fu schiacciato dall’esperienza di Bush, che lo coinvolse poco nel governo; inoltre, fu travolto dall’imprevista sconfitta del 1992, e non ebbe altri incarichi pubblici, pur partecipando a varie campagne elettorali e alle primarie del 2000.
Con la vittoria democratica del 1992, riconfermata largamente nel 1996, tornava invece alla Casa Bianca una coppia presidenziale se non affiata, molto determinata e collaborativa, nonché il più giovane ticket di sempre, contando complessivamente 90 anni: a fianco di Bill Clinton (classe 1946), dal 1993 al 2001 ricoprì infatti la carica di vicepresidente Al Gore, nato nel 1948 e già deputato del Tennessee nel 1976, e senatore dal 1985. Giornalista, veterano del Vietnam come soldato semplice, Gore è stato un “numero due” prezioso per Clinton, nonostante l’influenza della first lady, e futura candidata alla presidenza e segretario di Stato Hillary. Attivo su dossier cruciali e innovativi, soprattutto in materia di economia e nuove tecnologie, e sui temi ambientali di cui è tuttora un paladino, Gore ricoprì un ruolo fondamentale nel boom economico americano di quegli anni, che resero popolarissima la presidenza Clinton, e prepararono la strada a una forte candidatura del vicepresidente alle elezioni del 2000. Tuttavia, offuscato dal sexy-scandalo Clinton-Lewinsky, che finì per danneggiare più che il presidente uscente proprio il suo vice, Gore fu sconfitto, per un pugno di controversi voti (e comunque vincendo il suffragio popolare) da George W. Bush, figlio dell’ex presidente sconfitto nel 1992.

Leader di levatura ed esperienza ben diverse dal padre, Bush junior fu affiancato da un gruppo di esperti e duri politici appartenenti alla destra “neocon” del Partito repubblicano, che dopo aver scaldato i motori sotto Nixon e Reagan arrivavano ora nella stanza dei bottoni, soprattutto dopo l’11 settembre, con una politica assertiva sul piano internazionale. A rappresentarli, dal 2001 al 2009 fu il vicepresidente Dick Cheney, classe 1941, un parlamentare del Wyoming già nello staff di Ford negli anni ’70, e ministro della Difesa dal 1989 al 1993. Cheney, che aveva anche interessi nel settore petrolifero, fu uno dei sostenitori della nuova guerra contro Saddam Hussein scatenata nel 2003, che impantanò l’America in Medio Oriente, terremotando una regione già instabile, e finendo per diventare uno dei più impopolari vicepresidenti di sempre. Peraltro, dopo averlo appoggiato nel 2016, Cheney e la figlia ed erede politica Liz sono diventati tra i maggiori avversari di Trump in campo repubblicano, tanto da supportare la democratica Kamala Harris 8 anni più tardi.
Nel 2008 arrivò alla Casa Bianca una “strana coppia”, di nuovo democratica però: ossia il primo presidente afroamericano, il giovane – 47 anni – Barack Obama; e un anziano senatore di lunghissimo corso, di grande esperienza parlamentare e negli affari esteri: Joe Biden, classe 1942, nativo della Pennsylvania ma eletto al Senato per il Delaware nel 1972, e già candidatosi alle primarie democratiche per la presidenza nel 1987, prima di riprovarci 20 anni più tardi. Associatosi alla corsa di Obama, e riconfermato nel 2012, Biden ha avuto un ruolo chiave negli affari internazionali, sebbene durante il primo mandato di Obama fosse spesso avversato da Hilary Clinton, segretaria di Stato dal 2009 al 2013. Di peso anche la supervisione di dossier legati al rilancio dell’economia, dopo la grave crisi del 2008, o al controllo delle armi: i rapporti con Obama sono stati buoni sul piano personale, ma con momenti difficili in politica estera, e influenzati da caratteri molto diversi, e dall’attitudine alle gaffe di Biden.

Per competenza ed esperienza, sarebbe stato il candidato ideale per le elezioni del 2016, ma la morte prematura del primogenito e alcuni problemi che coinvolgevano il secondo [5], nonché l’età, lo avevano portato a ritirarsi. Nel 2019 Biden ha invece deciso di provarci: tre anni prima i democratici avevano infatti perso contro Donald J. Trump, il leader del nuovo movimento populista che aveva preso il controllo del Partito repubblicano. Nel 2016 Trump era comunque affiancato da un vicepresidente proveniente dall’ala conservatrice, ma più tradizionale del GOP, il governatore ed ex parlamentare dell’Indiana Mike Pence, classe 1959, che dopo essere stato da ragazzo un democratico e aver fatto nel ’76 campagna elettorale per Carter, nel 1980 era stato folgorato da Reagan. Come vicepresidente, Pence è stato più attivo in Senato che nel gabinetto Trump, salvo assumere nel febbraio 2020 il ruolo di capo della task force istituita per affrontare l’emergenza Covid-19, raccogliendo molte critiche, da destra e da sinistra.
Pence ha comunque dimostrato equidistanza e senso delle istituzioni, quando dopo le elezioni del novembre 2020, ha respinto i tentativi di Trump per sovvertire l’esito di votazioni considerate regolari: non è un caso che i sostenitori più arrabbiati di Trump, durante l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, minacciassero di linciare Pence. A sancire la rottura tra i due, 14 giorni più tardi sarà il solo vicepresidente uscente ad assistere alla cerimonia di insediamento di Biden, cui per la seconda volta nella storia – ma col record assoluto di voti mai raccolti da un candidato presidente, oltre 81 milioni, battendo lo stesso Obama – riusciva l’impresa di essere eletto alla suprema carica, dopo aver lasciato anni prima la vicepresidenza. Biden era anche il più vecchio presidente mai eletto, almeno sino a Trump nel 2024. Al suo fianco, inoltre, la prima donna vicepresidente degli Stati uniti, dopo i falliti tentativi della Ferraro nel 1984, e della repubblicana Sarah Pailin nel 2008: ossia Kamala Harris, nata nel 1964 da padre afroamericano e madre indiana, per 15 anni magistrato in California, di cui è poi stata senatrice dal 2017, sino all’entrata in carica come vicepresidente il 20 gennaio 2021.

Kamala Harris

Kamala Harris

E qui entriamo ormai nella cronaca. Considerata abile nella gestione del Senato, ma meno apprezzata come parte del governo, soprattutto sul “dossier immigrazione” che le era stato affidato, prima donna a esercitare comunque la presidenza ad interim durante un intervento subito da Biden il 19 novembre 2021, era comunque considerata una candidata favorita alle primarie democratiche del 2024, posto che nessuno credeva davvero a una ricandidatura dell’abile, ma ormai ottuagenario “Old Joe”. Ma quando Biden ha annunciato di volersi ripresentare, la Harris è rimasta al suo posto, salvo poi essere buttata nella lotta dopo la repentina retromarcia imposta al presidente uscente, il 21 luglio 2024. Biden e il partito hanno fatto quadrato attorno alla Harris, e la sua candidatura è partita, tra entusiasmi iniziali, e crescenti perplessità; soprattutto per non essere stata forgiata dalle primarie, passaggio fondamentale per creare una leadership nuova, e sondare gli umori degli elettori.
Il risultato è noto, ed è già stato esaminato nel precedente articolo sui candidati presidenziali “trombati”.
Il 20 gennaio 2025, la Harris ha ceduto la carica al vicepresidente eletto con Trump: il giovane James David “JD” Vance. Nato in Ohio il 2 agosto 1984, entrando in carica a soli 40 anni risulta il più giovane vicepresidente dopo Breckinridge e Nixon, e con un curriculum indubbiamente interessante. Proveniente da un difficile ambiente familiare, con genitori segnati da problemi di povertà, alcol e droga, ancora presenti in aree rurali come nelle grandi periferie metropolitane, Vance ne è uscito con gli studi e l’arruolamento nel corpo dei Marines (2003-2007), partecipando come corrispondente militare alla campagna in Iraq nel 2005, per poi laurearsi all’Università in scienze politiche e filosofia, e poi in legge, proseguendo nel frattempo a scrivere. Nel 2016 ha assurto visibilità nazionale pubblicando un libro autobiografico, Elegia americana, sorta di manifesto delle condizioni di vita nelle aree rurali e postindustriali dell’America più profonda, divenuto un controverso best-seller, capace di spiegare la vittoria di Trump nel 2016. Dopo aver inizialmente duramente criticato il Tycoon, Vance – fortunato anche nel settore finanziario e imprenditoriale – nel 2022 è entrato in politica schierandosi proprio con Trump, e venendo prima eletto senatore (in carica per l’Ohio dal 3 gennaio 2023) e quindi alla vicepresidenza; che nel 2028, non potendosi ricandidare Trump, potrebbe essere il trampolino di lancio verso la Casa Bianca, sempre che Vance non sia chiamato a subentrare prima a quello che è il più vecchio presidente eletto della storia americana. (fine. Qui la prima parte)

 

Note

[1] Come numero due alla successione nel 1963-1965 subentrò lo speaker della Camera John W. McCormack (1891-1980).
[2] Humphrey riprese il suo posto al Senato per il Minnesota, sino alla morte, 10 anni più tardi.
[3] Jimmy Carter è morto il 29 dicembre 2024, tre mesi dopo essere stato il primo inquilino della Casa Bianca ad aver raggiunto il secolo di vita.
[4] Con la presidenza Clinton, Mondale ottenne alcuni incarichi diplomatici in Asia, come ambasciatore in Giappone e Indonesia, ma fu clamorosamente sconfitto nel 2002 mentre correva per il suo vecchio seggio al Senato.
[5] Nel dicembre 1972, pochi giorni dopo essere stato eletto al Senato, Biden aveva perso la prima moglie e una figlia in un incidente d’auto. Il primogenito Beau Biden, considerato il suo erede politico, morì di cancro nel 2015 a 46 anni.