ERODOTO E LA BATTAGLIA NAVALE DI LADE (494 A.C.)
di Giuliano Da Frè -
Dopo i troni di Ciro e di suo figlio Cambise, l’impero persiano tornò ad avere salde redini con Dario. Riorganizzato su basi più solide l’impero, Dario guardò con favore all’espansione verso Occidente. Nasso e le Cicladi, su consiglio del tiranno alleato di Mileto, Aristagora, potevano essere la prima preda. Ma il fallimento dell’impresa avrebbe portato a uno stravolgimento delle alleanze.
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In un precedente lavoro abbiamo ricordato come il “padre della storia” Erodoto di Alicarnasso, vissuto all’incirca tra il 484 e il 425 a.C., avesse narrato lo svolgersi della battaglia navale combattuta tra i Focesi – una popolazione greca migrata dall’Egeo orientale alla Corsica – e una flotta formata da Cartaginesi ed Etruschi.
Lo scontro era avvenuto tra il 540 e il 537, ed è il primo di cui si abbia una narrazione scritta storica, benché sintetica e con pochi, benché suggestivi, dettagli tecnici e tattici. Inoltre, il conflitto era stato indirettamente innescato dal sorgere, a Oriente, di una nuova realtà geopolitica, assurta nell’arco di pochi decenni al rango di superpotenza mediterranea e asiatica: l’Impero persiano.
Greci e Persiani, una difficile convivenza
L’ascesa persiana era iniziata nel 550 a.C. [1], scalzando dall’interno la monarchia che governava la Media, per mano del giovane Ciro II (590-530), un nipote del re Astiage, la cui figlia era stata data in sposa al capo della potente casata che regnava sulla Perside, una delle più importanti regioni dell’attuale Iran, e all’epoca tributaria dei Medi. Per un paio di generazioni, i re della Media avevano garantito, con una rete di alleanze comprendenti la Lidia, l’Egitto, la Babilonia e anche alcune città e isole greche, una sorta di “concerto di potenze” lungo un vasto arco che andava dall’Egeo alla valle di Nilo, dalla Turchia alla Mesopotamia. La caduta di Astiage aveva tuttavia creato un terremoto, di cui aveva tentato di approfittare il ricco e potente sovrano di Lidia, il semileggendario Creso, che Ciro aveva però rapidamente liquidato con una vera e propria blitzkrieg, nel 547-546. Per domare le colonie elleniche da secoli insediatesi sulle isole e lungo le coste della Ionia, soggette alla Lidia ma grazie a rapporti politici e commerciali basati sul concetto “mano di seta in guanto di velluto”, c’erano invece voluti quasi 3 anni e alcuni assedi: senza contare che proprio Focea non si era sottomessa, e il grosso della sua popolazione aveva raggiunto via mare le proprie colonie occidentali, a Massalia (Marsiglia) e in Corsica. Migrazione che aveva però sconvolto gli equilibri nel Tirreno, e innescato una guerra con Cartagine e alcune città etrusche. Nel 539 Ciro aveva poi rapidamente sottomesso anche Babilonia, e allargato la sua influenza in Egeo, alleandosi col potente tiranno Policrate di Samo, uno dei primi autocrati a varare un organico programma di potenziamento navale, comprendente la costruzione di 100 navi da guerra e di un porto fortificato, e il rafforzamento della flotta commerciale.
Ciro sarebbe poi morto 10 anni più tardi, combattendo contro le tribù di Massageti, ai confini più orientali del suo già vasto impero. Il figlio Cambise II ne raccolse, con l’eredità, gli ambiziosi piani di conquista; e nel 526-525, supportato dalla flotta di Policrate, sottomise l’Egitto, l’ultima delle grandi potenze aderenti alla vecchia rete di alleanze imperniate sulla Media. La sua improvvisa morte, nel 522, aprì una crisi nell’impero, tra tentativi di rivolta da parte dei vecchi dominatori medi, e discutibili iniziative dei satrapi locali, che innescarono attriti con alleati e “vassalli” greci: anche Policrate venne ucciso in uno di questi intrighi, e Samo occupata da una guarnigione persiana. A riprendere le redini del potere persiano, una volta eliminate rivolte in Egitto e a Babilonia, e il revanscismo dell’aristocrazia media, fu Dario, un principe della casata reale Achemenide, salito al trono non ancora trentenne nel 521. Riorganizzata su basi più solide l’amministrazione del vasto impero creato da Ciro il Grande, e i cui confini s’estendevano ormai dalla valle del Nilo ai Dardanelli, dalla Babilonia all’Indo, nel 516 Dario avviò un nuovo ciclo di campagne destinate ad allargare i confini dell’impero, conquistando un’area oggi in parte occupata da Afghanistan e Pakistan [2]. Nel 514-513 decise quindi di tornare a rivolgersi a Occidente, e d’invadere i ricchi e semisconosciuti territori dei Traci e degli Sciiti.
Tra i contingenti terrestri e navali impegnati nella spedizione, spiccavano quelli forniti dalle numerose città greche dell’Asia Minore, un tempo legate al regno di Lidia, e poi quasi tutte sottomesse nel 546-544 dai persiani: con l’eccezione di Focea, e riunite nelle Confederazioni degli Ioni (i cui capi si riunivano nel santuario del Panionio di Capo Micale) e degli Eoli. La città-stato più potente, soprattutto dopo la recente caduta di Policrate, era sicuramente Mileto.
La campagna contro Sciiti e Traci rappresentò una importante fonte di guadagni anche per le città greche sottomesse a Dario, sebbene le difficoltà impreviste incontrate dal sovrano achemenide avessero finito per alimentare alcuni complotti tra i capi delle confederazioni elleniche, comunque caduti una volta concluse le operazioni.
Tuttavia, la riorganizzazione dell’impero voluta da Dario sulla base di una maggiore centralizzazione, e di più ampi poteri ai suoi satrapi (governatori regionali), stava aumentando le tensioni con le polis greche, tradizionalmente gelose dei propri privilegi, benché la classe dirigente fosse stata cooptata nel governo imperiale. Un fragile equilibrio che stava per spezzarsi…
La rivolta ionica
Nell’inverno del 500-499, a Mileto giunse un gruppo di esuli dell’isola di Nasso, nelle Cicladi: si trattava dei capi aristocratici dell’isola, scacciati da una rivolta popolare, fomentata probabilmente da Atene, che di recente aveva a sua volta rovesciato il regime tirannico dei figli di Pisistrato [3], ma che ne stava proseguendo la politica di espansione in quelle ricche regioni insulari. Gli esuli chiedevano l’aiuto dei capi di Mileto, Istieo (da anni trasferitosi alla corte persiana come consigliere di Dario) e il genero e luogotenente Aristagora, per rovesciare le sorti, facendo intendere di poter scatenare una controffensiva anti-ateniese nelle Cicladi.
Dario era sensibile alla questione, poiché riteneva che Atene fosse venuta meno a quella che considerava una sottomissione della capitale dell’Attica all’impero persiano. Nel 507, infatti, una delegazione ateniese ne aveva chiesto l’intervento armato contro la coalizione formatasi tra Sparta, Corinto e altre città della Lega Peloponnesiaca, e Tebe, per rovesciare il nuovo governo di Clistene. In realtà i delegati ateniesi avevano solo chiesto l’alleanza persiana, e non certo in cambio della propria sottomissione; d’altra parte Atene era poi uscita dalla crisi con le sue sole forze, grazie alle discordie scoppiate in seno allo stesso governo spartano e alle sconfitte inflitte ai Tebani.
Fu ad ogni modo facile, per Istieo, fomentare Dario e il potente satrapo da lui inviato a governare la Lidia, Artaferne, a favore di una spedizione contro Nasso e le Cicladi: gli Ioni avrebbero allestito a proprie spese una flotta di 200 navi poste agli ordini di Aristagora, sulle quali nella primavera del 499 si imbarcò un contingente persiano al comando del generale Megabate. Quest’ultimo, imparentato con Dario e Artaferne, era il comandante supremo della spedizione: incarico che ricopriva con l’arrogante ambizione tipica dell’aristocrazia guerriera persiana, ma che si scontrò con il non meno autoritario Aristagora, con gravi conseguenze. Un violento diverbio tra i due comandanti, avvenuto durante una sosta a Chio, provocò il risentimento di Aristagora, che segretamente avvisò i capi di Nasso del pericolo incombente, dando loro il tempo di allestire le difese, che ressero per quattro mesi all’assedio persiano. Megabate fu alla fine costretto a ritirarsi: ma per evitare l’ira del potente cugino, scaricò la responsabilità del fallimento su Aristagora; che, timoroso per le conseguenze della sua ambigua condotta, decise, in pieno accordo con Istieo (che tuttavia ufficialmente restava a corte tenendo il piede in due scarpe) di ribellarsi, appiccando la fiamma dell’insurrezione a tutta l’Asia Minore.
Insurrezione che come abbiamo visto in effetti covava da lungo tempo, sebbene uno dei consiglieri dei tiranni di Mileto, lo scrittore e geografo Ecateo, li sconsigliasse a intraprendere una guerra contro il “Re dei re”. Tuttavia: «Non riuscendo a persuaderli, li consigliò a far di tutto per assicurarsi il dominio del mare» [4].
Consiglio questo si seguito da Aristagora, che con un audace e fortunato colpo di mano, non solo disarmò le guarnigioni persiane arrestandone i comandanti, ma soprattutto riuscì a far alzare il vessillo della rivolta sulla flotta reduce dall’attacco contro Nasso, e ora alla fonda a Miunte. L’operazione fu finanziata saccheggiando tesori sacri e beni sequestrati ai Persiani: l’insurrezione si estese rapidamente a quasi tutte le città greche dell’Asia Minore, dove i capi filo-persiani furono rovesciati o uccisi; con l’ovvia eccezione di Aristagora, e di Milziade il Giovane, signore del Chersoneso Tracico (colonia ateniese insediata da Pisistrato per controllare la rotta granaria per il Mar nero) e futuro vincitore della battaglia di Maratona.
Più incerto il successo ottenuto dagli insorti sul piano diplomatico: a conferma del suo coinvolgimento, Atene inviò 20 delle 50 navi della sua flotta; ma solo Eretria la imitò aggregandosi con 5 triremi [5], mentre Sparta, all’epoca impegnata a fronteggiare la crescente minaccia argiva (poi stroncata con la decisiva vittoria di Sepeia del 494, quando il re spartano Cleomene I massacrò i 7.000 opliti di Argo), evitava di compromettersi in una guerra troppo lontana.
La rivolta, sfruttando la sorpresa iniziale e la lentezza della reazione persiana, inanellò una serie di successi. Al comando di Caropino, fratello di Aristagora, gli insorti sbarcarono a Coresso (primavera del 498), scacciando le truppe persiane da Efeso, roccaforte locale dell’Impero; subito dopo occupavano Sardi, la capitale provinciale di Artaferne, che si asserragliava nell’acropoli fortificata. La città, ricchissima, fu saccheggiata e incendiata: ma i Greci, sbandatisi nel fare razzie, furono sorpresi da un contrattacco persiano, e costretti a ritirarsi con gravi perdite, per poi perdere il controllo della Lidia.
Aristagora decise allora di seguire fino in fondo i consigli di Ecateo, e di sfruttare la propria superiorità navale; nel 498-497 sottometteva Bisanzio e otteneva l’alleanza dei locali principi di Caria e di Cipro, conquistata dal capo ribelle Onesilo, proclamatosi tiranno di Salamina. La flotta ionica, rafforzata dalla squadra ateniese, ottenne poi una brillante vittoria navale alla foce del fiume Piramo (attuale Ceyhan turco), nell’estate del 497.
La controffensiva persiana
Lentamente ma inesorabilmente, tuttavia, il gigantesco apparato militare dell’Impero andava mobilitandosi. Un contingente anfibio persiano sbarcò sulle coste cipriote, e dopo un duro assedio riconquistò Salamina, uccidendo Onesilo; altri insuccessi portano al crollo della fiducia in Aristagora, tanto che anche Atene (dove al partito popolare era subentrata la fazione conservatrice) ritirò le proprie navi. L’ormai ex tiranno di Mileto si recò con un pugno di fedelissimi in Tracia, per sobillarvi le popolazioni di recente assoggettate da Dario, ma finendo per cadere in un’imboscata presso Mircino; né ebbero successo le trame del suocero Istieo, che fuggì dalla corte persiana dopo aver inutilmente tentato di sollevare la Lidia.
Nel 495 era ormai anzi la stessa Mileto, a essere investita dalle forze persiane, da terra e dal mare: per salvarla, la Lega decise di concentrare tutte le proprie forze presso la vicina isola di Lade, base navale della città. Gli insorti potevano contare su 353 navi; i Persiani, pur disponendo di 600 navi, per lo più fenice ed egiziane, temendo il valore degli avversari, iniziarono a incoraggiarne i dissidi con trattative segrete.
Tra i Greci presenti a Lade, sono i Focesi a essere soprattutto apprezzati (o temuti) per le loro qualità marinaresche; sin dal VII secolo, Focea ha inviato le sue navi a commerciare in tutto il Mediterraneo, per poi raggiungere Tartesso, alla foce del Guadalquivir, oltre le mitiche Colonne d’Ercole, mentre attorno al 600 hanno fondato una città commerciale presso Marsiglia, e quindi avviato la colonizzazione della Corsica, entrando in contrasto con Cartaginesi ed Etruschi, sino alla drammatica battaglia di Alalia del 537 circa, che aveva costretto i Focesi a lasciare la grande isola del Tirreno. Una parte dei fuggiaschi era però tornata a Focea, di fatto sottomettendosi – ma a denti stretti – alla sovranità persiana. La piccola città non si era mai ripresa dagli eventi che l’avevano devastata mezzo secolo prima, ed era una delle polis più deboli della Confederazione ionica, tanto da poter schierare solamente 3 navi: tuttavia, le leggendarie qualità marinaresche dei suoi abitanti, la loro tradizionale ostilità anti-persiana, e anche la stessa debolezza politico-militare di Focea, che non dava ombra ai rissosi alleati, convinsero gli Ioni ad affidare al comandante focese Dionisio la responsabilità dell’intera flotta.
Il nuovo ammiraglio in capo non smentì le speranze che venivano riposte in lui: «Gli Ioni – scrive Erodoto (VI, 12) – si mettono nelle mani di Dionisio. Ed egli, conducendo ogni volta le navi al largo in fila indiana, quando aveva fatto allenare i rematori, col far passare le navi le une attraverso alle altre, e armati di tutto punto i soldati di mare, per il resto della giornata teneva all’ancora le navi, di modo che gli Ioni dovevano faticare da mane a sera».
L’addestramento è uno dei fattori fondamentali, per affrontare una battaglia; ma Dionisio oltre a (letteralmente) “riscaldare i muscoli” di una flotta spinta dal vigore dei rematori, elabora anche una serie di disposizioni tattiche complesse, poiché passare attraverso due navi defilanti controbordo non era semplice, e occorreva ritirare i remi in tempo, per evitare di vederseli fracassare, ed essendo anzi necessario tentare, a propria volta, di spezzare quelli delle navi avversarie. Se questa manovra riusciva, le unità nemiche venivano immobilizzate, e si poteva attaccarle agevolmente per affondarle con lo sperone, o per abbordarle con gli opliti e i rematori armati imbarcati, trasformando la battaglia navale in uno scontro – o pezomachia - più simile a quelli combattuti a terra, tra fanterie pesanti [6].
Un detto militare inglese ricorda che “molto sudore risparmia molto sangue”; per giorni e giorni Dionisio addestrò intensivamente i marinai ionici, che tuttavia, da uomini liberi e orgogliosi, apprezzavano sempre meno gli scrupoli del loro ammiraglio: e dopo sette giorni di crescente insofferenza alla disciplina, racconta ancora Erodoto, «gli Ioni, insofferenti com’erano di tali fatiche, sfiniti dalle tribolazioni e bruciati dal sole…proprio come se si trattasse d’un esercito di terra, piantate nell’isola (di Lade) le tende, se ne stavano tranquilli all’ombra, e non volevano più salire sulle navi, né esercitarsi in mare».
Gli approcci diplomatici dei Persiani, che miravano a dividere il fronte nemico, a questo punto ebbero buon gioco, trovando orecchie ben disposte tra i comandanti del contingente di Samo, forte di 60 navi. Una spaccatura pericolosa, perché il giorno della battaglia (probabilmente avvenuta nella primavera-estate del 494), i Sami occupavano l’ala sinistra dello schieramento greco, già sopravanzato dalla più estesa e numerosa formazione persiana, imperniata sui poderosi contingenti forniti dai Fenici, e dalle più agili unità egiziane.
Stando allo storico di Alicarnasso, alle 600 navi schierate al comando di Dati, un nobile persiano nominato ammiraglio – e che 4 anni più tardi avrebbe anche guidato il contingente sbarcato a Maratona e sconfitto da Milziade – si contrapponevano le squadre navali che inquadravano le 353 unità elleniche: a destra le 15 navi fornite da Priene e Miunte, e le 80 messe in campo dalla minacciata Mileto. A sinistra, appunto, le 60 di Samo affiancate da 70 navi di Lesbo, mentre al centro, con Dionisio, oltre alle 3 unità di Focea e al piccolo contingente di Eritre (5 navi), erano schierate ben 100 imbarcazioni di Chio e 17 di Teo.
I primi a lanciarsi all’attacco furono i Persiani: e mentre la loro flotta avanzava, 49 navi di Samo (sobillate dall’ex tiranno Èace, un nipote di Policrate sorretto dalla Persia e scacciato da Aristagora nel 498) abbandonarono il campo di battaglia, seguite da buona parte dei Lesbii, presi dal panico dopo aver visto il dissolversi dell’estrema ala sinistra. Altre 11 navi samie restarono tuttavia bravamente al loro posto, appoggiate dal robusto contingente di Chio (100 navi con 4.000 soldati imbarcati) che riuscì ad assorbire l’urto persiano, spezzandone l’impeto iniziale e infliggendogli gravi perdite, mentre lo stesso Dionisio interveniva, e battendosi come un demonio con le sue 3 navi catturava altrettante unità nemiche.
Ma di fronte a loro i Greci avevano anche le squadre dei Fenici, con navi efficienti e abili comandanti e marinai, che non si scoraggiavano davanti alle prime difficoltà: sfruttando la superiorità numerica, sopravanzarono l’ala sinistra ellenica, sfaldata dalla fuga del grosso delle navi di Samo e Lesbo, mentre anche l’ala destra entrava in crisi. A quel punto, il centro greco finì per essere stretto in una morsa, lasciando agli Ioni poche alternative: arrendersi, resistere sul posto e farsi massacrare, oppure fuggire; e molte navi (soprattutto di Chio), uscite malconce dallo scontro, si gettarono sulle coste della vicina Micale, dove gli equipaggi, scambiati per predoni, furono massacrati dagli abitanti.
Nel disastro generale, ebbe modo di distinguersi, ancora una volta, Dionisio di Focea. Prima della battaglia aveva parlato chiaro, secondo Erodoto (VI, 11): «La nostra situazione è certo posta sul filo di un rasoio: o essere liberi o esser schiavi, e per di più schiavi fuggitivi: ordunque, se voi siete disposti a sopportare disagi, per il momento avrete fatiche ma, una volta superati gli avversari, riuscirete a essere liberi. Se invece vi comporterete con mollezza e indisciplina, io non ho alcuna speranza che possiate evitare di essere puniti…per la rivolta».
Dopo la sconfitta, raddoppiata la sua piccola flotta, decise di non tornare nella sua città (destinata appunto a cadere in schiavitù), e fece rotta per le coste della Fenicia: e qui «dopo aver affondato delle navi da carico ed essersi impadronito di molte ricchezze, navigò alla volta della Sicilia, e di là esercitò la pirateria contro Cartaginesi e Tirreni, senza però recar danno ad alcuno dei Greci» (Erodoto; VI, 17).
Le previsioni dell’abile ma poco apprezzato ammiraglio focese, si erano d’altra parte rivelate corrette: dopo Lade (dove gli insorti persero tre quarti della flotta) le forze persiane domarono in meno di un anno la rivolta; e per la stessa Mileto, occupata e saccheggiata dai Persiani, s’avverò uno degli oscuri oracoli di Delfi: «E allora, o Mileto, macchinatrice di azioni nefande, diventerai per molti convito e splendido dono».
[1] Da qui in avanti ometteremo l’indicazione temporale a.C., poiché tutti gli eventi narrati avvennero “avanti Cristo”.
[2] Dario incaricò poi un cartografo e navigatore greco, Scìlace di Cariànda, di prendere il mare e compiere un “periplo” dalle foci dell’Indo al Golfo Persico, al Mar Rosso, di cui resta parte di una relazione (il Periplo di Scilace).
[3] Morto nel 527 dopo vent’anni di governo autoritario ma illuminato, a Pisistrato erano succeduti i figli Ippia e Ipparco, che inizialmente ne avevano seguito le orme: ma una vittoria sulla vicina Tebe, nel 519, aveva allarmato Sparta, e le due città avversarie di Atene avevano appoggiato gli oppositori del regime. L’uccisione del fratello Ipparco (514) aveva spinto Ippia a dure repressioni, abbandonando la politica moderata del padre, sino al suo rovesciamento, nel 510. Dopo una guerra civile tra la fazione conservatrice appoggiata da Sparta e i democratici di Clistene, nel 508 era stato quest’ultimo a prendere il potere.
[4] Erodoto, Le Storie; V-36: versione a cura di Luigi Annibaletto, “Oscar” Mondadori, Milano 1988.
[5] Tra Atene, Mileto ed Eretria i legami d’alleanza e amicizia risalivano alla “guerra di Lelanto”, combattuta nella prima metà del VII secolo contro Calcide e Samo.
[6] Nei decenni successivi, anche in base alle esperienze accumulate a Lade e Salamina, la tattica sarà migliorata (soprattutto dagli Ateniesi), sino ai perfezionamenti elaborati da Formione (480-428 circa), il grande ammiraglio attico protagonista della prima fase della Guerra del Peloponneso.
Per saperne di più
L. Casson, Navi e marinai dell’antichità, Mursia 1976
G. Da Frè, Storia delle battaglie sul mare, Odoya 2014
G. Da Frè, I grandi condottieri del mare, Newton Compton 2016
F. Montevecchi, Il potere marittimo e le civiltà del Mediterraneo antico, Olschki Ed. 1997

