ANDROPOV, LA “SINDROME UNGHERESE” E LA RIVOLUZIONE TRAVISATA

di Romano Pietrosanti -

 

In un recente volume dedicato al leader sovietico, le pagine sul suo ruolo di ambasciatore a Budapest durante la rivoluzione del 1956 si prestano ad alcune critiche e puntualizzazioni. Che se non corrette rischierebbero di imporsi – e non sarebbe la prima volta  come verità incontestate.

 

 

In questo 2024 ricorrono i quarant’anni dalla morte di Jurij Vladimirovič Andropov, il quinto leader dell’Unione Sovietica, segretario generale del PCUS dal 12 novembre 1982 al 9 febbraio 1984, e anche i settant’anni dal suo insediamento come ambasciatore a Budapest, avvenuto il 6 luglio 1954, incarico che tenne fino all’11 marzo 1957, trovandosi così coinvolto in prima persona e con un ruolo decisivo nei giorni drammatici della Rivoluzione ungherese, dal 23 ottobre al 4 novembre 1956.
Il ruolo politico del personaggio[1], oggi rivalutato nella Russia di Putin (forse per la comune provenienza dal vertice dei servizi di sicurezza a quelli dello Stato), è stato ben ricostruito e tratteggiato per i lettori italiani in una monografia di qualche anno fa scritta da Andrea Giannotti, Tra partito e KGB: per una ricostruzione del ruolo di Jurij Andropov nella politica sovietica, edito da Giappichelli a Torino nel 2018, con la prefazione della storica dell’università di Pisa Elena Dundovich. L’Autore è docente presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa, interessandosi soprattutto di relazioni Europa-Russia e docente presso l’Istituto Statale di Mosca di Relazioni Internazionali. L’opera, dichiaratamente non una biografia completa, ma un dettagliato inquadramento della sua vita a servizio della politica sovietica, è la prima in italiano a offrire un ampio profilo del terz’ultimo segretario generale del PCUS attingendo ampiamente e con competenza a un’ampia messe di fonti sovietiche.
Giustamente, perciò, l’opera dedica un corposo paragrafo, circa 25 pagine, al ruolo di Andropov in Ungheria, specie collegandosi alla preparazione e ancor più allo svolgimento degli eventi rivoluzionari, utilizzando la categoria storiograficamente ben conosciuta di “sindrome ungherese”, ossia il timore della violenza spontanea delle frange radicali e di conseguenza la propensione che egli maturò nella sua permanenza in Ungheria che movimenti politici che rischiassero di mettere in pericolo l’ordine socialista costituito dovessero essere repressi, anche con la forza militare[2], qualora non si fosse riusciti ad evitarli e prevenirli. Ma proprio questo paragrafo costituisce un vero tallone d’Achille per questo meritevole testo.
Infatti, per l’ennesima volta, ci siamo[3] imbattuti in una serie impressionante e sorprendente di imprecisioni e travisamenti della realtà storica relativa all’Ungheria rivoluzionaria (e dintorni, come vedremo): distorsioni fattuali, si badi bene, cioè non legate all’interpretazione di quegli eventi e di quell’impresa nel suo complesso, ma propriamente errori su date, persone e loro comportamenti inoppugnabilmente ricostruibili dai documenti ungheresi e russi ormai da tempo disponibili. Certamente non rimproveriamo all’A. di non aver ricostruito esaurientemente la Rivoluzione ungherese: non è quello il suo scopo, bensì quello di delineare il ruolo di Andropov in quegli avvenimenti, cosa che fa con correttezza. Ciononostante non ci pare superfluo, anzi giusto e quasi doveroso per non lasciar cadere troppo facilmente nella confusione la coscienza e la memoria storica, per di più in tempo di interessati revisionismi politicamente orientati, evidenziare e correggere simili errori. Proposito che ci poniamo in questo articolo sfruttando una bibliografia essenziale, ma autorevole[4]. Seguiamo l’ordine di esposizione del volume e facciamo seguire le nostre correzioni alle affermazioni dell’Autore.

1) a p. 43 si trova scritto: «[…] mentre a Ferenc Nagy, tratto in arresto insieme a suo figlio, fu permesso di emigrare negli Stati Uniti».
L’allora primo ministro Ferenc Nagy, uno dei fondatori e leader del partito dei Piccoli Proprietari indipendenti (in sigla ungherese FKGP) non venne mai tratto in arresto, ma fu costretto alle dimissioni il 31 maggio 1947 mentre si trovava in vacanza in Svizzera perché minacciato di essere trascinato, insieme col figlio, nell’inchiesta sulla “comunità magiara”, orchestrata dal ministro dell’Interno László Rajk e dal capo dei servizi di sicurezza, la famigerata ÁVO (dal 1948 ribattezzata ÁVH), Gábor Péter, ovviamente in accordo col segretario del partito comunista Mátyás Rákosi. Prudentemente decise di non rientrare in Ungheria, appunto per evitare l’arresto[5]. L’ex premier morì nel 1979 negli Stati Uniti.

2) nella stessa pagina 43 si afferma: «Fu quindi avviata una dura purga contro dissidenti e avversari interni al partito, tra cui lo stesso László Rajk, accusato di titoismo e fucilato nel 1949».
László Rajk, uno dei maggiori esponenti del partito comunista ungherese, con un passato di combattente nella guerra civile spagnola, di militante clandestino sotto Horthy e di prigioniero del partito crocefrecciato, nel maggio 1945 entrò nel politburo del nuovo partito comunista ungherese (in sigla MKP). Dal 20 marzo 1946 al 5 agosto 1948 fu ministro dell’interno, succedendo ad Imre Nagy, e fu il principale organizzatore dell’ÁVO (poi ÁVH) e di molti processi politici da essa organizzati. Godette di molta popolarità, per la sua vita dedicata al partito, tra la base comunista. Dal 5 agosto 1948 al 30 maggio 1949 passò al Ministero degli esteri. Il 30 maggio 1949 fu arrestato improvvisamente, sulla base di prove falsificate, e processato dal 15 al 24 settembre a Budapest nel più clamoroso dei processi spettacolo avvenuti in Ungheria in quell’anno e condannato a morte. Il 15 ottobre 1949 fu impiccato. Rajk fu la vittima sacrificale ungherese sull’altare delle epurazioni interne ai partiti comunisti dell’Europa centro-orientale volute da Stalin sotto l’accusa di “titoismo” dopo la rottura tra l’URSS e Tito consumatasi con l’espulsione della Jugoslavia dal Cominform il 28 giugno 1948[6].

3) a p. 43-44 si afferma: «Imre Nagy, vero protagonista della tragedia di Budapest, aveva abbracciato il marxismo durante la Prima Guerra mondiale, quando era stato catturato e deportato in Siberia nel 1916. Iscrittosi al Partito comunista bolscevico, aveva anche partecipato in prima persona alla rivoluzione d’Ottobre».
La citazione mescola una verità con errori sorprendenti. Vero è che Imre Nagy, all’epoca ventenne soldato della Honvéd, l’armata ungherese, fu preso prigioniero il 29 luglio 1916 insieme a molte migliaia di commilitoni dopo la disfatta subita per l’offensiva del generale Brusilov sul fronte della Galizia e finì deportato in Siberia, località di Berezovka, presso il lago Baikal. Durante la detenzione conobbe la dottrina marxista-leninista, si iscrisse a un’organizzazione collaterale al partito bolscevico, nel quale entrò formalmente nel maggio 1920, due mesi dopo la fine del suo coinvolgimento nella guerra civile russa, e risultando così tra i primi comunisti ungheresi[7]. Risulta invece incomprensibile l’affermazione sulla sua partecipazione alla rivoluzione d’ottobre[8]. Come avrebbe potuto partecipare, in prima persona, se era detenuto in Siberia? L’unico appiglio, del tutto infondato, è che essendo presenti soldati ungheresi nel plotone di esecuzione che giustiziò brutalmente la famiglia imperiale dei Romanov a Ekaterinburg la notte del 17 luglio 1918, si diffuse la leggenda, oggi diremmo fake news, che Imre Nagy fosse parte di questo plotone[9].

4) a p. 44 l’A. scrive «[…] era divenuto Ministro degli Interni [Imre Nagy N. d. A.], quindi dell’Agricoltura e infine nominato Presidente dell’Assemblea Nazionale».
Ristabiliamo l’ordine corretto degli avvenimenti. Imre Nagy fu nominato ministro dell’Agricoltura nel governo provvisorio presieduto dal generale Béla Dálnoki Miklós costituitosi il 22 dicembre 1944 a Debrecen, zona già liberata dall’occupazione nazista, mentre l’Armata rossa proseguiva i combattimenti contro i nazisti nel resto dell’Ungheria. In questo ruolo fu firmatario dello storico provvedimento della legge di riforma agraria del 17 marzo 1945 che abolì per sempre il latifondo in Ungheria e iniziò materialmente la distribuzione degli appezzamenti terrieri ai contadini il 29 marzo seguente nella località di Pusztaszer nella tenuta del conte Pallavicini. Nel primo governo di coalizione dell’Ungheria liberata dagli eserciti nazisti, costituitosi il 15 novembre 1945, presieduto da Zoltan Tildy del partito dei Piccoli proprietari, assunse il ministero dell’Interno. In questa veste firmò nel dicembre 1945 la legge di espulsione forzata della minoranza tedesca. Mantenne questa carica fino al 20 marzo 1946 quando fu sostituito da Rajk, un comunista ben più duro. Dopo le elezioni del 31 agosto 1947 fu destinato alla presidenza dell’Assemblea nazionale. Ma dopo il voto del 15 maggio 1949, scontato plebiscito per il nuovo partito comunista (in sigla MDP) nato dalla fusione forzata del giugno precedente coi socialdemocratici, mentre l’Ungheria col caso Rajk piombava nella fase più cupa del terrore staliniano voluto e orchestrato dal “piccolo Stalin” ungherese Mátyás Rákosi, onnipotente segretario del MDP, finì sotto la lente d’ingrandimento dei servizi di sicurezza e, pur non rimanendone vittima, fu “esiliato” nel ruolo di professore dell’università agraria (pur restando nel comitato centrale del MDP)[10]. Risparmiando ulteriori dettagli, si può dire che la sua vera ascesa politica avverrà dopo la morte di Stalin quando verrà indicato dagli stessi vertici del Cremlino come nuovo capo del governo ungherese[11].

5) nella stessa pagina 44 a proposito di Kádár si ricorda il suo esser divenuto ministro degli interni nel 1948 e poi si scrive: «Accusato di titoismo, nel 1951 era stato arrestato, condannato all’ergastolo e internato, quindi trasferito in un campo di prigionia in URSS».
János Kádár fu sì ministro dell’interno dal 5 agosto 1948, dopo Rajk, che era stato trasferito al ministero degli esteri, ben meno importante in quel momento storico, mantenne l’incarico fino al 23 giugno 1950 e venne arrestato il 20 aprile 1951 sotto l’accusa di “titoismo”, condannato all’ergastolo il successivo 19 dicembre, ma non fu mai trasferito in Unione Sovietica, rimanendo nelle carceri ungheresi e liberato il 22 luglio 1954[12].

6) a p. 54 Giannotti descrive l’esplosione della Rivoluzione: «Il 23 ottobre fu indetta una manifestazione cui presero parte oltre duecentomila persone e quando Gerő parlò la sera per radio condannando le violenze, la sede dell’emittente venne circondata dalla folla che poi rivolse la sua rabbia contro l’enorme statua bronzea di Stalin, installata nel 1949 per il suo settantesimo compleanno. Dopo vari tentativi andati a vuoto, il monumento, che con il piedistallo era alto 25 metri, venne abbattuto e i manifestanti riuscirono anche a prendere il controllo di alcune caserme e delle armi lì custodite».
Sebbene la maggior parte dei fatti ricordati siano esposti correttamente, lo scoppio della Rivoluzione del 1956, la storica giornata del 23 ottobre[13], va ricostruito con molta maggior precisione. Presentato così pare che, in sequenza temporale e causale, ci sia stata dapprima la manifestazione popolare, poi il discorso del segretario del MDP Ernő Gerő (che condannava violenze delle quali non si è ancora parlato!), per reazione a quello l’attacco alla radio di Stato e infine l’assalto alla statua di Stalin.
Invece, già mentre l’oceanica manifestazione popolare scorreva per le vie di Budapest, partendo dai monumenti al generale Bem e al poeta Petőfi per attraversare il ponte Margherita, scorrere sul lungo Danubio e arrivare in piazza del Parlamento, Kossuth tér, gruppi più piccoli si erano diretti uno in Bródy Sándor utca all’esterno dell’edificio della radio di Stato per chiedere la messa in onda del programma in sedici punti e un altro, diverso da quello direttosi alla radio, poco più tardi in Dózsa György út, all’esterno del Városliget, il grande parco cittadino, nello slargo allora denominato Sztálin tér, con l’intenzione di abbattere la statua di Stalin, odiato simbolo della dittatura sovietica. Alla radio[14] si svolse una lunga trattativa con la direttrice Valeria Benke, conclusasi con il rifiuto di quest’ultima alle richieste popolari, l’accrescersi della folla e della tensione, esacerbata al massimo dal provocatorio discorso del segretario del MDP Ernő Gerő trasmesso dalla radio verso le 20 che apostrofò i manifestanti come nazionalisti e sciovinisti, e l’inizio di una vera e propria battaglia, pressappoco verso le 21, con morti e feriti tra i manifestanti e gli agenti dell’ÁVH presenti lì da tempo: l’inizio delle ostilità rivoluzionarie. Quindi non fu il discorso di Gerő a provocare la confluenza attorno alla radio, ma ad accendere gli animi di coloro che già da ore si trovavano sul posto con un preciso intento e portarli ormai al punto di non ritorno. Attorno al monumento di Stalin[15], invece, la folla riuscì, dopo varie ore di tentativi, a demolire la statua del dittatore (della quale rimasero al posto solo gli stivali), senza l’intervento delle forze di sicurezza, in palese inferiorità numerica. Quindi non si trattò, come invece sembra dalle parole dell’A., dello stesso gruppo che dalla radio si spostò al monumento di Stalin, ma di due “cellule” staccatesi dalla manifestazione principale e con due esiti molto diversi.

7) sempre a p. 54 l’A. scrive: «Fu a questo punto che i moniti di Andropov vennero considerati sotto tutt’altra luce. Gerő si rivolse a Chruščëv con la richiesta di inviare parte del “Corpo speciale” nella capitale per ripristinare la calma, ma Chruščëv disse al suo ambasciatore di procurarsi prima una richiesta scritta in tal senso firmata dal capo del governo, con cui aveva una consuetudine ormai consolidata. Sottoscrivere il documento fu l’ultimo atto di Hegedüs, che subito dopo si dimise».
Che ci sia qualcosa di poco chiaro in questa ricostruzione, apparentemente così coerente, lo fa intuire lo stesso Giannotti, affermando in nota: «La richiesta fu riportata ad Andropov, che la trasmise immediatamente a Mosca, il 28 ottobre». Ma se la richiesta era stata firmata il 23 ottobre (più esattamente il 24 nelle prime ore del mattino)[16] è strano dire che fu “immediatamente” trasmessa quattro giorni dopo, sebbene l’avverbio possa riferirsi alla ricezione e trasmissione da parte dello stesso Andropov. E infatti l’ambasciatore trasmise rapidamente il segretissimo documento non appena lo ebbe in mano, cioè il giorno 27 ottobre, quando il premier Nagy si rifiutò di firmarla così come gli veniva presentata, ossia retrodatata al primo mattino del 24 ottobre, affermando, correttamente, che al momento non era lui a rivestire quella carica. Così il suo vice, András Hegedüs, premier al momento nel quale la richiesta era stata formulata, firmò al suo posto[17].

8) a p. 56 l’A. afferma: «Ma il ritiro dei soldati sovietici dalla città non portò alcun rasserenamento [si allude al ritiro dei sovietici da Budapest il 30 ottobre. N. d. R.]. Anzi, dopo i patimenti e soprusi sofferti durante il regime di Rákosi, tanti cittadini erano decisi a vendicarsi e in città si aprì una vera e propria caccia all’uomo. Molti membri delle forze di sicurezza vennero linciati e impiccati agli alberi. Poi la rabbia si rivolse verso i funzionari del partito e durante un assalto alla sede centrale del partito comunista di Budapest Imre Mező, uno dei membri del CC che guidava le difese del palazzo, rimase ucciso».
Qui bisogna sottolineare con forza e amaro stupore la clamorosa reviviscenza, in tempi così recenti, della più nota e al tempo stesso infondata visione propagandistica di alcuni degli eventi rivoluzionari, se non di tutta la Rivoluzione, da parte del regime comunista ripristinato da Kádár, il cosiddetto “terrore bianco” (sebbene la formula non sia usata). Basti pensare al famigerato Libro bianco edito negli anni 1956-1958[18]. Certamente i patimenti degli anni dello stalinismo più duro avevano duramente colpito un’elevata percentuale della popolazione ungherese come scolpisce un’efficace battuta dell’epoca: «Tre sono le categorie di cittadini: quelli che sono stati in prigione, quelli che sono in prigione e quelli che andranno in prigione»[19]. Ma da questo a dire che a partire dal 30 ottobre si scatenò una vendicativa caccia all’uomo contro i membri delle forze di sicurezza, i pur odiati “blu”, come venivano designati dal colore delle loro divise e, a seguire (non precisando a partire da quando) contro i funzionari comunisti, significa falsare completamente la realtà dei fatti[20]. Per di più la citazione di Imre Mező, rimasto ucciso a seguito delle ferite riportate nell’assedio alla sede del MDP di Budapest, allude al tragico episodio di Köztársaság tér, piazza della Repubblica[21], dove appunto il 30 ottobre si svolse il più drammatico episodio dei giorni rivoluzionari con l’assedio e una vera battaglia durata un’intera mattinata tra gruppi di insorti e un gruppo di reclute della disciolta ÁVH e funzionari del MDP conclusasi con il brutale linciaggio di 25 assediati rimasti prigionieri che non ebbero il tempo di rendere effettiva la loro resa, nonostante sventolassero bandiera bianca. Mező, segretario della federazione budapestina del MDP, certamente non ostile a Nagy e personale amico di Kádár, divenne così il protomartire della propaganda comunista contro i “controrivoluzionari” per tutta la durata del regime. In realtà è proprio dopo quel tragico episodio, unanimemente condannato da tutte le organizzazioni degli insorti, che le violenze rivoluzionarie, pur molto limitate se paragonate ad altri eventi storici simili, si possono considerare concluse e, per un fugace momento, la Rivoluzione sembrò indirizzata a un epilogo positivo. Purtroppo si trattò di una brevissima illusione, perché già il 31 ottobre al Cremlino si decise per la repressione armata. Giova ancora una volta riportare le parole documentate e accurate del giornalista britannico Peter Fryer, corrispondente del quotidiano comunista Daily Worker[22]: «Il cielo salvi Andrew Rothstein e quegli altri che definiscono la situazione ungherese dell’1, 2 e 3 novembre “terrore bianco”, semmai essi dovessero trovarsi faccia a faccia con il vero “terrore bianco”. In dieci giorni l’esercito di Versaglia, che soppresse la Comune parigina del 1871, massacrò da 20.000 a 30.000 tra uomini, donne e bambini, sia in combattimento che a sangue freddo, in mezzo a terribili scene di crudeltà e sofferenza. “Il terreno è pavimentato dai loro cadaveri”, esultava Thiers. Altri 20.000 furono deportati e 7.800 inviati alle fortezze costiere. Questo era il “terrore bianco”. Migliaia di comunisti e di ebrei furono assassinati dopo la soppressione della Repubblica Sovietica Ungherese del 1919 e atrocità abominevoli ebbero luogo a Orgovany e Siofok. Questo era “terrore bianco”. Nel 1927 Ciang-kai-scek massacrò a Sciangai 5.000 operai organizzati. Questo era “terrore bianco”. Dall’avvento di Hitler alla sconfitta della Germania nazista furono assassinati milioni di comunisti, socialisti, sindacalisti, ebrei e cristiani. Questo era “terrore bianco”. È perfettamente vero che una parte della popolazione di Budapest, oltraggiata dalla follia dei crimini della polizia segreta, fu presa dal desiderio di sterminare i comunisti. È vero che degli innocenti soffrirono quanto i colpevoli. Questo è un fatto penoso e sconvolgente. Ma descrivere l’uccisione di un esiguo numero di comunisti (tutti gli osservatori concordano nel circoscrivere questi fatti a Budapest) come “terrore bianco” che rendeva necessario l’intervento sovietico significa descrivere gli avvenimenti di Ungheria in modo unilaterale, puramente propagandistico. Quanti comunisti innocenti furono uccisi a Budapest? Venti? Cinquanta? Non lo so. Ma certamente meno – infinitamente meno – di quanti uomini dell’ÁVH siano stati linciati. Nella mostra dell’Agonia dell’Ungheria tenutasi a Londra, ed in tutte le centinaia di fotografie che ho visto, non ve n’era una sola che mostrasse un comunista linciato [la grafia dei nomi è quella del testo citato, N. d. A.]».

9) ancora riguardo a Kádár scrive a p. 56: «Tale richiesta approfondì il solco tra Nagy e Kádár, che il 28 aveva sostituito Gerő alla guida del partito ed era entrato nel governo e che riteneva invece opportuna in quel momento la presenza militare sovietica». Più avanti a p. 60 l’A. afferma ancora: «[…] un gruppo capeggiato da Kádár e comprendente il futuro Presidente dell’Assemblea nazionale Antal Apró, il Ministro delle Finanze István Kossa e il Ministro degli Interni Ferenc Münnich si recò all’ambasciata sovietica e nella notte lasciò Budapest alla volta di Tekel, sede del comando sovietico, e quindi di Szolnok, dove era acquartierato Konev. Da qui vennero trasferiti con un aereo militare a Mosca, dove fu deciso di istituire un governo ungherese provvisorio. Kádár rappresentava una soluzione utile per il Cremlino. Era un comunista di comprovata fede, incarcerato da Rákosi con l’accusa di titoismo e poi entrato nel governo Nagy, salvo dissentire da buona parte delle sue scelte e reagire “in difesa del socialismo”».
Kádár, da tempo noto per essere un riformista, fu nominato segretario del MDP, il partito comunista ungherese, il 25 ottobre mattina, pressappoco nelle ore in cui avveniva il massacro di Kossuth tér, piazza del Parlamento. Non risulta (né Giannotti cita alcun documento in proposito) che abbia particolarmente approvato l’intervento sovietico già avvenuto, soprattutto non dissentì mai dalle scelte del governo Nagy fino alla sera del 1° novembre (tanto che fu inizialmente inserito anche nella compagine dell’ultimo governo Nagy, quello costituito il 3 novembre, poi il suo nome fu cancellato), anzi, fino a quel momento le approvò tutte. Inoltre, lo stesso 1° novembre, mentre egli stava recandosi in segreto all’ambasciata sovietica, la radio di Stato mandò in onda il suo discorso nel quale esaltava la “nostra gloriosa insurrezione” che egli si impegnava a difendere e il giorno successivo apparve la sua intervista al Giornale d’Italia. Ma di lui e di Ferenc Münnich, fino a poco prima ministro dell’interno (e solo loro due), si persero le tracce appunto la sera del 1° novembre, per poi scoprire che si erano recati all’ambasciata sovietica in Bajza utca 35, proprio a conferire con l’ambasciatore Andropov (ed è strano che l’A. non sottolinei qui il suo ruolo decisivo in questa vicenda, ben chiarito invece in altri momenti) e che di lì furono trasferiti fino a Mosca per costituire il cosiddetto “governo rivoluzionario operaio contadino” del quale facevano parte anche i citati Apró e Kossa (e altri) che si rese noto al mondo il 4 novembre mattina pochi minuti dopo il drammatico appello di Nagy dopo l’inizio dell’attacco sovietico.

10) ancora a p. 60 si trova scritto: «I delegati ungheresi giunsero a Tekel la mattina del 3 novembre, guidati dal neo Ministro della Difesa Pál Maléter, e poco dopo furono arrestati da Serov in persona».
Il drammatico e proditorio episodio dell’arresto di Maléter e di tutta la delegazione ungherese avvenne a Tököl (non Tekel!) intorno alla mezzanotte tra il 3 ed il 4 novembre ad opera del capo del KGB in persona Ivan Aleksandrovič Serov alla guida di un drappello dei suoi uomini[23]. Verso mezzogiorno le trattative, rivelatesi uno specchietto per le allodole per gli ungheresi e iniziate al palazzo del Parlamento, erano state aggiornate alle 22 al quartier generale sovietico nella località di Tököl, sull’isola di Csepel, quartiere a sud di Budapest, roccaforte degli operai metalmeccanici. Un militare esperto come Maléter sospettò la trappola, ma la sua integrità morale lo spinse, anche contro il consiglio della moglie, a rispettare la parola data ai militari sovietici. Insieme con lui componevano la delegazione ungherese István Kovács, capo di Stato maggiore, il colonnello Miklós Szücs e Ferenc Erdei, uomo politico di lungo corso, già vice primo ministro allo scoppio della Rivoluzione e ministro nei governi rivoluzionari di Imre Nagy. Ma gli altri membri della delegazione furono ben presto rilasciati, ai Sovietici interessava solo Maléter, l’ormai celebre e amato difensore della caserma Kilián di Budapest, il più capace e competente uomo d’armi della Rivoluzione, unico vero possibile perno di un’improbabile resistenza armata degli ungheresi all’attacco in forze che i Sovietici stavano per far scattare, operazione denominata «Vichr», in inglese «Whirlwind», in italiano «Turbine».

11) a p. 57 l’A. afferma: «Lo stesso Chruščëv, assai scosso, iniziò ad orientarsi verso una soluzione dura e chiese al maresciallo Konev quanto tempo sarebbe stato necessario per l’invasione, sentendosi rispondere che tre giorni sarebbero stati sufficienti». E in merito allo stesso argomento, cioè alla decisione di intervenire manu militari per stroncare la Rivoluzione, alle pp. 58-59 illustra così la formazione di questa decisione: «Ottenuto questo assenso [quello dei cinesi, il 1° novembre, N. d. R.] e poi quello dei polacchi durante un incontro segreto tenutosi a Brest, Chruščëv partì in tutta fretta con Malenkov alla volta dell’isola di Brioni, nell’Adriatico settentrionale, dove Tito stava trascorrendo un periodo di riposo. […] Il colloquio con Tito convinse definitivamente Chruščëv che, nonostante la contrarietà di Mikojan, comunicò al Presidium come alla luce degli ultimi sviluppi fosse opportuno rivedere la decisione di ritirare le truppe dall’Ungheria e da Budapest e assumere l’iniziativa per ripristinare l’ordine».
Qui l’ordine degli avvenimenti risulta capovolto. Chruščëv non fece nessun viaggio preventivo presso i leader comunisti del Patto di Varsavia e cinesi per assicurarsi di poter successivamente prendere la decisione dell’attacco armato: la decisione, che ribaltava quella del non intervento del giorno prima, era già stata presa al Cremlino il 31 ottobre[24] e il viaggio del leader sovietico aveva solo lo scopo di assicurarsi il più ampio consenso possibile alla scelta già fatta. Solo il polacco Gomułka non approvò. L’incontro con Tito, ben descritto da Giannotti, compreso il viaggio, attraverso le memorie di Chruščëv, fu invece utile per calibrare la scelta del nuovo leader ungherese, che per i sovietici avrebbe dovuto essere Münnich, ma fu invece Kádár. Incomprensibile, però, come mai si ricostruisca l’importantissimo incontro di Brioni solo dalle stringate memorie del leader sovietico tralasciando completamente l’unica vera e ben più ampia fonte a disposizione, cioè le memorie dell’ambasciatore jugoslavo a Mosca Mičunovič[25].

12) infine, a p. 62 Giannotti, dopo aver ricordato che Nagy ed il suo gruppo si erano rifugiati la mattina del 4 novembre nell’ambasciata jugoslava, scrive: «Alla fine fu deciso di mandare l’ex Primo Ministro in Romania, dove rimase fino ad aprile 1957, tenuto in confortevole detenzione in una lussuosa dacia poco distante da Bucarest. Il 14 aprile 1957 venne trasferito a Budapest, processato a porte chiuse e condannato a morte insieme con Maléter il 15 giugno 1958 e fucilati il giorno seguente. La sentenza irritò molto Chruščëv […]».
Anche questa breve ricostruzione lascia totalmente a desiderare[26]. Nagy (e il suo gruppo) si rifugiarono all’ambasciata jugoslava in Hősök tere, piazza degli Eroi, la mattina del 4 novembre, vi rimasero fino alla sera del 22 novembre quando, alla loro uscita concordata e garantita perfino da un (fittizio) salvacondotto personale di Kádár, furono rapiti da un commando sovietico che guidò l’autobus all’aeroporto militare di Budapest per trasportarli in Romania a Snagov, 40 km a nord di Bucarest, in un resort per i funzionari del partito comunista rumeno (non sappiamo se si trattasse di una lussuosa dacia e di confortevole detenzione), fu sì riportato in aereo a Budapest il 14 aprile 1957 per essere detenuto nel carcere della corte penale militare in Fö utca 70-78[27], processato a porte chiuse tra il 5-6 febbraio e il 9-15 giugno 1958 e condannato a morte e giustiziato per impiccagione nel cortile del carcere centrale di Budapest in Kozma utca all’alba del 16 giugno insieme con Maléter e il giornalista Miklós Gimes, mentre già il 24 aprile precedente era stato giustiziato nello stesso modo József Szilagyi, già segretario personale di Nagy, e il 21 dicembre 1957 era misteriosamente morto in carcere Géza Losonczy, ministro di Stato nell’ultimo governo rivoluzionario presieduto da Nagy. Chruščëv non fu per nulla irritato dalla sentenza, che non sarebbe passata mai senza il suo assenso, anzi difese quella scelta. Così ricostruisce la sua reazione l’ambasciatore Mičunovič[28]: «Il 17 giugno i giornali sovietici hanno pubblicato un comunicato che annuncia l’esecuzione di Imre Nagy e dei suoi compagni. […] Ho affrontato in seguito l’argomento dell’esecuzione di Nagy. Ho detto a Krusciov che il mondo è inorridito, che si è trattato di un errore irreparabile, che difficilmente qualcuno avrebbe potuto immaginare qualcosa di peggio contro l’URSS e contro l’Ungheria. Ormai Nagy significava sempre meno in Ungheria: i sovietici ne hanno decretato la morte fisica e la resurrezione politica. A Krusciov chiaramente questo argomento non garbava. Ha detto che si tratta di un affare riguardante l’Ungheria, non l’URSS; lui, comunque, approva ciò che è stato fatto, e personalmente farebbe la stessa cosa. Mi ha rinfacciato che, come comunista, io mi richiamassi all’opinione pubblica mondiale: i comunisti hanno altri criteri, di classe, per giudicare eventi di questo genere».

Concludiamo con una considerazione generale che forse ci aiuta a capire questa peculiarità storiografica che sembra accompagnare frequentemente la Rivoluzione ungherese, quella della deformazione dei fatti stessi (non ci occupiamo qui delle calunnie e falsificazioni politicamente motivate). Si tratta del tipico fenomeno postmoderno delle fake truths, “false verità”, ossia affermazioni in sé errate e fuorvianti che, passando sotto silenzio, perché spesso non vengono controbattute e falsificate da nessuno, magari per il semplice motivo che non si trovano con facilità persone competenti in materia, finiscono per imporsi come verità incontestate. Quando poi passa un tempo sufficientemente lungo chi prova a ristabilire la verità, pur fattualmente e documentalmente inoppugnabile, si trova bersagliato da critiche o anche insulti tanto emotivamente motivati, quanto privi di un qualsiasi fondamento critico e spesso mosse da persone non preparate nella specifica materia[29], quasi al modo del platonico prigioniero che una volta uscito dalla mitologica caverna si azzarda a rientrarvi per stimolare i suoi compagni a liberarsi anch’essi. Ecco perché, senza nessuna orgogliosa pretesa, ma con la sincerità di chi sa accettare la storia così com’è senza piegarla ai propri interessi o alla personale soddisfazione emotiva, riteniamo molto importante continuare ad osservare le ricostruzioni storiche per evitarne la deformazione e la tendenziosa riscrittura, da qualunque parte essa provenga[30].

Note

[1] Per continuare con gli anniversari che lo riguardano si può anche evidenziare il 110° della sua nascita, avvenuta, secondo la maggior parte dei documenti, il 15 giugno 1914 nel villaggio di Nagutskoe, nell’oblast di Stavropol’, nel Caucaso settentrionale. Cfr. Giannotti, Tra partito e KGB, 12. L’A. indica le date d’inizio e termine del mandato diplomatico di Andropov a Budapest rispettivamente alle pagine 34 e 65. Sul luogo di nascita di Andropov facciamo ammenda della nostra indicazione troppo generica riportata in R. Pietrosanti, Imre Nagy, un ungherese comunista. Vita e martirio di un leader dell’ottobre 1956 (= Quaderni di Storia 24), prefazione di F. Argentieri, Le Monnier, Firenze 2014, 311, dove citiamo Stavropol’, che è in realtà il capoluogo dell’oblast dove si trova il villaggio in cui Andropov nacque.

[2] Atteggiamento che Andropov si troverà puntualmente a suggerire ed appoggiare nelle altre tre maggiori crisi internazionali da lui vissute al vertice della nomenklatura sovietica: Cecoslovacchia 1968; Afghanistan 1979 e Polonia 1980-1981; cfr. Giannotti, Tra partito e KGB, 157-210.

[3] Pluralis modestiae di chi scrive in tutto il testo.

[4] Faremo riferimento quasi soltanto a queste opere: F. Argentieri – L. Gianotti, L’Ottobre ungherese, Valerio Levi, Roma 1986; J. M. Rainer, Nagy Imre: Politikai életrajz, 2 voll., 1956-os Intézet, Budapest 1996-1999; Id., Imre Nagy. A biography (= Communist Lives 2), I. B. Tauris, London & New York 2009; T. Huszár, Kádár János. Politikai eletrajza 1912-1956, 1. kötet, Szabad Tér Kiadó, Kossuth Kiadó, Budapest 2001; B. Dent, Budapest 1956. Locations of Drama, Európa Könyvkiadó, Budapest 2006; Dizionario del comunismo nel XX secolo (a cura di S. Pons e R. Service), 2 voll., Einaudi, Torino 2006; R. Gough, A Good Comrade. János Kádár, Communism and Hungary, I. B. Tauris, London & New York 2006; e da ultimo, si licet parva componere magnis, al nostro Pietrosanti, Imre Nagy, un ungherese comunista. Raccomandiamo poi l’eccellente, anzi indispensabile, antologia di documenti The 1956 Hungarian Revolution: A History in Documents (a cura di CS. Bekés, M. Byrne e J. M. Rainer) Central European University Press, Budapest & New York 2002. In ciascuno di questi testi si trova un’ampia bibliografia di fonti primarie e secondarie in grado di soddisfare le esigenze di un maggiore approfondimento.

[5] Cfr. Argentieri – Gianotti, L’Ottobre ungherese, XIII. 28; Rainer, Nagy Imre, vol. I, 356; Gough, A Good Comrade, 33; Pietrosanti, Imre Nagy, un ungherese comunista, 48.

[6] Cfr. Argentieri – Gianotti, L’Ottobre ungherese, XIII. 59-62; Rainer, Imre Nagy, 49; Huszár, Kádár János, 141-153; Gough, A Good Comrade, 39-47; Dent, Budapest 1956, 296-299; V. Sereda – A. S. Stykalin, «Rajk, László», in Dizionario del comunismo nel XX secolo, vol. II, 313-314 (ma anche qui si ripete l’errore sul modo dell’esecuzione: «[…] il 15 ottobre [1949 N. d. A.] venne fucilato»; Pietrosanti, Imre Nagy, un ungherese comunista, 52-53. Da menzionare l’eccezionale pubblicazione, contemporanea a quella avvenuta in Ungheria, del verbale dell’interrogatorio a Rajk cui partecipò come ‘persuasore’ Kádár: Kádár inquisitore di Rajk. L’interrogatorio di László Rajk da parte di János Kádár, Mihály Farkas, Gábor Péter, a cura di F. Argentieri, in «MicroMega», 2 (1992), 83-106.

[7] In sigla il partito si chiamava KMP.

[8] Usiamo l’espressione consolidata, ma ormai, fuori della retorica tipicamente comunista, non certo del tutto scomparsa, la storiografia chiama piuttosto ‘rivoluzioni’ i movimenti del 1905 e del febbraio 1917 e ‘colpo di stato’ la presa di potere bolscevica dell’ottobre 1917. Cfr. E. Cinnella, 1917. La Russia verso l’abisso, Della Porta, Pisa 2017, 135.

[9] Per maggiori dettagli cfr. Rainer, Nagy Imre, vol. I, 54 nota 32; Ch. Gati, Failed Illusions: Moscow, Washington, Budapest and 1956 Hungarian Revolution, Woodrow Wilson Center Press, Washington D. C. & Stanford University Press, Stanford 2006, 32-33 nota 14; Pietrosanti, Imre Nagy, un ungherese comunista, 360-361 nota 26.

[10] Cfr. Argentieri – Gianotti, L’Ottobre ungherese, 35-78; Rainer, Nagy Imre, vol. I, 323-435; Id., Imre Nagy, 38-64; Huszár, Kádár János, 69-162; Gough, A Good Comrade, 26-38; V. Sereda – A. S. Stykalin, «Nagy, Imre», in Dizionario del comunismo del XX secolo, vol. II, 56-59; Pietrosanti, Imre Nagy, un ungherese comunista, 39-60.

[11] Cfr. Argentieri – Gianotti, L’Ottobre ungherese, 79-89; Rainer, Nagy Imre, vol. I, 509-542; Id., Imre Nagy, 57-63; Dent, Budapest 1956, 109-112; V. Sereda – A. S. Stykalin, «Nagy, Imre», in Dizionario del comunismo del XX secolo, vol. II, 56-59; Pietrosanti, Imre Nagy, un ungherese comunista, 63-74; The 1956 Hungarian Revolution, XXXIII. 14-33.

[12] Cfr. Argentieri – Gianotti, L’Ottobre ungherese, 64; Huszár, Kádár János, 163-220; Gough, A Good Comrade, 48-65; S. Bottoni, «Kádár János», in Dizionario del comunismo del XX secolo, vol. I, 462-463; Pietrosanti, Imre Nagy, un ungherese comunista, 54.326. Per la cronaca, proprio quello stesso giorno, 20 aprile 1951 il successore di Kádár al ministero dell’interno, Sándor Zöld, si uccise dopo aver sterminato la sua famiglia. Il giorno prima Rákosi lo aveva duramente attaccato e temeva di fare la stessa fine del predecessore. La maggior parte della classe dirigente ungherese comunista era passata, prima o poi, per le terribili celle di Andrássy út 60, dapprima utilizzato dalla Gestapo nazista e dai loro partner ungheresi, le Crocifrecciate, poi dall’ ÁVO-ÁVH. Dal 2002 vi ha sede il museo Terror Háza.

[13] Cfr. Argentieri – Gianotti, L’Ottobre ungherese, 120-129; Rainer, Nagy Imre: Politikai életrajz, vol. II, 237-252; Id., Imre Nagy, 100-104; Huszár, Kádár János, 298-300; Dent, Budapest 1956, 47-53. 91-98. 158-162; A. Szakolczai, «Rivoluzione ungherese (1956)», in Dizionario del comunismo nel XX secolo, vol. II, 365-366; Gough, A Good Comrade, 77-79; Pietrosanti, Imre Nagy, un ungherese comunista, 123-130; The 1956 Hungarian Revolution, XXXVI-XXXVII.

[14] Sugli avvenimenti attorno alla radio cfr. Argentieri – Gianotti, L’Ottobre ungherese, 124-126; Dent, Budapest 1956, 164-176; Pietrosanti, Imre Nagy, un ungherese comunista, 126-127; The 1956 Hungarian Revolution, XXXVII. Il regime comunista postrivoluzionario cavalcò con intento propagandistico gli scontri attorno alla radio come prova del complotto controrivoluzionario premeditato e del fatto che fossero stati gli insorti a sparare per primi (cosa dimostratasi falsa).

[15] Sull’abbattimento della statua di Stalin cfr. Argentieri – Gianotti, L’Ottobre ungherese, 127; Dent, Budapest 1956, 267-273; Pietrosanti, Imre Nagy, un ungherese comunista, 124-125; The Hungarian Revolution, XXXVII. Testimonianza di prima mano si trova nelle memorie dell’allora questore di Budapest: cfr. S. Kopácsi, Abbiamo quaranta fucili, compagno colonnello, Edizioni E/O, Roma 2006, 138-140.

[16] Rainer, Imre Nagy, 109 riproduce fotograficamente il documento.

[17] Cfr. Argentieri – Gianotti, L’Ottobre ungherese, 129; Rainer, Imre Nagy, 105; Dent, Budapest 1956, 138; Pietrosanti, Imre Nagy, un ungherese comunista, 139.

[18] Bureau d’Information du Conseil des Ministres de la R.P. Hongroise, La contrerévolution et les évènements d’octobre en Hongrie (vol. I), s. l., ma Budapest, s. d., ma 1956; Idem, Les forces contre-révolutionnaires dans les évènements d’octobre en Hongrie (voll. II, III, IV), s. l., ma Budapest, s. d., ma 1957; Idem, Le complot contre-revolutionnaire de Imre Nagy et de ses complices, s. l. ma Budapest, s. d. ma 1958; trad. it. Il complotto controrivoluzionario di Imre Nagy e dei suoi complici. Cfr. anche il sunto in italiano: Legazione D’Ungheria in Roma, Documenti sui fatti controrivoluzionari in Ungheria, Roma, 1960. Per un breve giudizio storiografico (italiano) sul documento governativo cfr. Pietrosanti, Imre Nagy, un ungherese comunista, 224-225 con la bibliografia riferita.

[19] Battuta riportata in Pietrosanti, Imre Nagy, un ungherese comunista, 54, citandola da V. Sebestyen, Budapest 1956. La prima rivolta contro l’impero sovietico, Rizzoli, Milano 2006, 52 che non indica alcuna fonte specifica.

[20] Il “terrore bianco” è una formula storiografica indica le violenze diffuse contro i comunisti in Ungheria dopo la caduta della Repubblica dei Consigli (o Soviet) il 1° agosto 1919: cfr. I. Romsics, Hungary in the Twentieth Century, Corvina & Osiris, Budapest 1999, 108-116; M. Ormos, Hungary in the Age of the Two World Wars, 1914-1945 (= Atlantic Studies on Society in Change 133), Social Science Monographs & Atlantic Research & Pub., Boulder (Co.) & Highland Lake (NJ), 2007, 60-71.

[21] Sull’attacco di piazza della Repubblica cfr. Argentieri – Gianotti, L’Ottobre ungherese, XXV. 142; Rainer, Nagy Imre, vol. II, 299; Id., Imre Nagy, 121; Huszár, Kádár János, 317; Dent, Budapest 1956, 307-318. 387-394; Gough, A Good Comrade, 87; The 1956 Hungarian Revolution, XL. 208; Pietrosanti, Imre Nagy, un ungherese comunista, 149-150. Superfluo citare gli innumerevoli passaggi in merito del Libro bianco. Per la cronaca, la piazza dal luglio 2011 è stata intitolata a papa Giovanni Paolo II.

[22] P. Fryer, La tragedia ungherese, Opere Nuove, Roma 1957, 89-90. Per queste e altre sue osservazioni e corrispondenze Fryer fu espulso dal partito comunista britannico.

[23] Cfr. Argentieri – Gianotti, L’Ottobre ungherese, XXVI. 155-156; Rainer, Nagy Imre, vol. II, 328; Dent, Budapest 1956, 363-366; Gough, A Good Comrade, 100; Pietrosanti, Imre Nagy, un ungherese comunista, 165-167; The 1956 Hungarian Revolution, XLII. Naturalmente le ricostruzioni memorialistiche e le biografie di Maléter dedicano opportuno spazio alla vicenda, come anche tutte le storie della Rivoluzione.

[24] Cfr. The 1956 Hungarian Revolution, 307-310. Questo documento, il n° 53 della raccolta, è un estratto delle cosiddette «carte Malin», dal nome del segretario del comitato centrale del PCUS, come si evince dalla citazione della fonte. Lo storico americano Mark Kramer le pubblicò per la prima volta nel 1996.

[25] V. Mičunovič, Diario dal Cremlino, l’ambasciatore jugoslavo nella Russia di Krusciov 1956/1958, Bompiani, Milano, 1979, 140-150.

[26] Per la sorte di Nagy a partire dal 4 novembre 1956, fuga nell’ambasciata jugoslava, fino al processo e all’esecuzione del 16 giugno 1958 cfr. Argentieri – Gianotti, L’Ottobre ungherese, XXVII. XXIX-XXX, 173-176; Rainer, Nagy Imre, vol. II, 339-437; Id., Imre Nagy, 141-165; Dent, Budapest 1956, 53-64. 274-280. 321-327; Gough, A Good Comrade, 103-118; Pietrosanti, Imre Nagy, un ungherese comunista, 172-204. Naturalmente omettiamo le raccolte documentarie relative al processo, abbondanti soprattutto in lingua ungherese.

[27] La piazza di fronte all’edificio, dopo il 1989, è stata denominata Nagy Imre tér.

[28] Mičunovič, Diario dal Cremlino, 442, 444-445.

[29] Ne abbiamo fatto personale esperienza pubblicando su YouTube post critici nei confronti della ricostruzione della Rivoluzione ungherese operata dall’illustre filologo classico e storico dell’antichità greco-romana Luciano Canfora all’interno del suo 1956, l’anno spartiacque registrato per il programma radiofonico Alle 8 della sera. Cfr. https://www.youtube.com/watch?v=vx8i6_IJLIY&t=2s.

[30] La cancel culture contemporanea ne è un’evidente applicazione.