VITTORIANESIMO E INDUSTRIA: I “TEMPI DIFFICILI” DI DICKENS

di Giuliana Arena –

 

Con l’avvento dell’industrializzazione l’uomo cambia volto. E il romanzo sociale di Dickens coglie in modo impeccabile ogni singola sfumatura della nuova società urbana dominata dalla macchina.

Nel corso del Vittorianesimo, epoca di eccessi borghesi e privazioni operaie, ciò che ancora oggi colpisce è la capacità dello scrittore vittoriano par excellence, Charles Dickens, di ricordare al lettore di qualsivoglia nazione o estrazione sociale che, anche nella City, lo scotto da pagare per l’industrializzazione e il progresso è stato elevato. Rivelando attraverso il romanzo sociale gli aspetti più sordidi e reconditi legati all’osservazione e all’analisi delle conseguenze che l’avanzamento industriale ha avuto, la realtà narrata in buona parte della produzione dell’autore ha qualcosa di sinistro e fiabesco per certi versi. Sinistra è certamente l’ambientazione di romanzi quali Hard Times (1854) in cui il primo attore che si delinea è quel middle rank presentato in narrazioni-agonia del tempo di cui Dickens si presenta come figlio e padre. Gli industrial novel, in effetti, restituiscono il sapore agrodolce di un’era che definisce l’utile come il principale comandamento da seguire, una scelta di vita truce e scellerata quando porta a morte e distruzione, ma anche giusta e inevitabile per rendere l’universo borghese più sopportabile: l’esasperante ed esasperata realtà sociale è un quadro dipinto a tinte fosche.

Mediante la scrittura si realizza la scultura in pietra di una società vincitrice e vinta del/dal progresso: adeguamento o distacco radicale diventano gli estremi generati dai meccanismi abietti dell’industria creatrice di caos. La nuova religione della macchina rende tutto piatto e inconsistente, le sabbie mobili in cui affondano i fautori del cambiamento, non altro che la grande famiglia operaia, infangano e affondano ideali, come il peso di ingranaggi che faticano a mettere in funzione una comunità più giusta: il liberalismo e il liberismo economico sono le risultanti non di grandi contrapposizioni bensì di una più ampia comunione di intenti. In tale prospettiva il laicismo e lo sperimentalismo, in svariati campi, vengono analizzati e visti anche con timore da scrittori come Dickens, una delle vittime del disagio sociale vissuto nell’Inghilterra ottocentesca. L’utopia negativa porta con sé pessimismo e disillusione e la preoccupazione verso lo ‘spazio da incubo’, creato dalla nuova società urbana dominata dalla macchina, porta a osservare, in modo oppositivo, tutto ciò che c’è di antitetico e avverso nel Vittorianesimo, come in altre epoche storiche. Il progresso implica inoltre, abbrutimento e spersonalizzazione a causa dell’avvento della macchina; la distopia nasce nel XIX secolo «dall’estensione di un materialismo senz’anima che mette in questione il significato di una civiltà edificata a spese dell’umano, e che ottiene la “felicità” con l’incoscienza e con la meccanizzazione dei comportamenti»[1] inoltre, «il corso della storia viene piegato dall’illimitata fiducia nel progresso che le impone una direzione obbligata e, persino, un termine incerto. Il sogno utopico abbandona la sua dimensione ideale per abbracciare quella ideologica, radicandosi concretamente nella storia futura, con l’immediata conseguenza di escludere il passato e annichilire il presente»[2].

Painting, Coalbrookdale by Night, di Philippe Jacques de Loutherbourg, 1801.

Coalbrookdale by Night, di Philippe Jacques de Loutherbourg, 1801.

Dalla ridefinizione e rilettura di Hard Times for these Times, esempio tipico di industrial novel, nasce una riflessione inevitabile sulla costruzione dello spazio urbano e la trattazione che ne fa Dickens nei suoi prodotti letterari. Secondo Northrop Frye in Hard Times, come in altri romanzi, sono evidenti le tendenze perverse della società e gli effetti della distopia: «Hard Times, of all Dickens’s stories, comes nearest to being what in our day is sometimes called the dystopia, the book which, like Brave New World or 1984, shows us the nightmare world that results from certain features in his society that most directly threaten his own social function as a writer. Dickens sees in the cult of facts and statistics a threat, not to the realistic novelist, and not only to a life based on concrete and personal relations, but to the unfettered imagination, the mind that can respond to fairy tales and fantasy and understand their relevance to reality (neretto mio)»[3].
Coketown (alla lettera: la città del carbon fossile) è surreale, soffocata da fumo nero e pesante; il diretto prodotto della filosofia utilitaristica così come gli attanti che vi gravitano intorno, i quali sembrano riprenderne le caratteristiche intrinseche. Ripensando in termini “mooriani”, essa diventa definibile come la capitale di Distopia in rapporto di reciprocità con Amauroto, la capitale di Utopia. La dinamica della critica distopica acquisisce diverse sfumature, anche se si rivela sempre e soprattutto un medium attraverso il quale impostare il discorso anti-utilitaristico: «Coketown costituisce la pietra di paragone letteraria per le future distopie che, a partire dalla fine del XIX secolo, affolleranno l’immaginario collettivo, anticipandone le ansie e radicalizzandone i conflitti»[4] per cui «il messaggio della distopia, per quanto surreale o parodistico, può, quindi, essere considerato realmente profetico»[5]. All’interno del testo è presente la città-fabbrica: un no place (la geografia invisibile di ciò che in greco si definisce ου τοπος, ou topos, è una terra immaginaria ma ancorata alla realtà e identificata dai critici con l’insieme di Manchester, Oldham, Bolton, Blackburn e Preston), oltre che un bad place, emblema dell’industrializzazione, e vista, in modo idealistico, come il diretto prodotto della filosofia utilitaristica. Nella prospettiva della distopia tra città e campagna si inserisce anche il discorso sul sedime ferroviario che squarcia la realtà incontaminata dell’arcaica e arcadica società di stampo rurale, rendendone il profilo frastagliato e meno nitido. La ferrovia è ciò che ingloba l’istanza moderna, il movimento e la velocità della città nuova che ha una «vita dal ritmo naturalmente “accelerato”»[6]. A fine secolo si bussa ormai alle porte della modernità e la vecchia Inghilterra dal volto rurale non restituisce più le meraviglie della natura e così «l’idillio è in Dickens luogo di sofferenza, collocato in una topografia storica e sociale riconoscibile “in cui si cela e dimora soltanto l’innocenza”»[7]. In breve gli equilibri, o meglio disequilibri, mostrano che si può giungere allo sconvolgimento della natura lussureggiante, ora fatalmente occupata da un complesso e articolato sistema di fatti: «dimenticata l’armonia solo apparente, Londra assume le sembianze di un enorme mostro, uno sterminato ammasso di fabbriche dove la gente è occupata a produrre oggetti»[8].

Superate le utopie dell’ordine e della totalità, in una suggestiva e onirica ricerca del bello e della perfezione, le distopie propongono astrazioni di forme spaziali con rifacimento al tempo presente, ricalpestando il cammino tracciato dagli errori umani. La dislocazione topologica prevista dai romanzi di tipo distopico nonché l’assenza quasi totale di riferimenti cronologici (l’altro tempo viene definito ucronia) risultano incanalati come costanti nella maggior parte dei testi redatti dall’autore. La filosofia utilitaristica avvolge e soffoca soprattutto l’ambito educativo, oltre che la vita in generale, e grazie a Coketown la riflessione sull’era industriale assume una chiara connotazione di critica e di protesta. Mr. Gradgrind e Bounderby, ad esempio, sono i simboli in carne e ossa del ‘sistema dei fatti’ che osteggia l’immaginazione: «Thomas Gradgrind’s case is one of the earliest literary studies of near dystopian results of misguided idealism [...] Dickens’s critical exploration of the nature and the results of Gradgrind’s single-minded adherence to a Utopian vision is thus associated not only with the liminal place of Hard Times in the history of ideas, but also with the general tendencies of a fictional narrative’s processing of ideological systems»[9].
Non senza tradursi in quella che, a volte, risulta un’utopia o una prospettiva favolistica, Hard Times mostra realisticamente come non siano e non possano essere i fatti un’univoca e veritiera strada da percorrere, invece è il circo, la Città felice e giusta, l’imago mundi in cui galoppano la fantasia e la speranza e sussiste una separazione tra verità-menzogna, realismo-irrealismo e si avverte un senso di libertà e magia per le infinite possibilità umane di guardare dentro di sé e svelarsi irrazionale: «It was in the Victorian period that the circus emerged as a commercialized entertainment that we would recognize today. The equestrian […] the female acrobat […] the gymnastic clown […] the animal tamer […] the sword swallower […] All were physical embodiments of that quintessentially Dickensian love of “fancy”, an inalienable human desire generated by spontaneity, freedom, release, enjoyment, curiosity and the wonder of life […] In Charles Dickens’s Hard Times (1854) the children of the Benthamite schoolmaster Mr. Gradgrind clandestinely steal glimpses of the “hidden glories” in Mr. Sleary’s circus by peeping (a different kind of embodied experience) through a hole»[10].

L’inserimento funzionale del circo rafforza il senso di denuncia e satira, descrivendo con tratti patetici e umoristici il senso stesso del reale: vivere secondo ragione o assecondare l’istinto. Si tratta di una realtà di cui gli individui sono diretto prodotto, ma anche reazione, come nel caso di Sissy Jupe, figlia di un circense e per questo rappresentativa di una dimensione parallela e utopica: il circo, contrario al culto dei fatti e delle statistiche. Il cuore si contrappone alla testa in una società atomistica in cui l’individuo perde le sue peculiarità e diventa uno dei tanti numeri trattati dalle autorità. L’immaginazione acquisisce così una valenza primaria perché rappresenta l’unico strumento possibile per arginare gli effetti del materialismo e approdare a una ricostituzione dei valori. Dickens presenta l’ottimismo e il pessimismo londinese: l’«imagination compromise»[11] diventa il motivo centrale della tradizione utopica e distopica.
Hard Times si pone come una «palese denuncia della centralità degli aspetti antropologici all’interno della più vasta questione operaia»[12] e, in effetti, la lotta tra classe borghese e operaia mostra divergenze non appianabili, contraddizioni e lotte interne: si pensi alla reazione degli operai verso Stephen Blackpool, personaggio drammatico che viene osteggiato, mal compreso ed emarginato sia per la sua vita privata (la moglie è un’alcolizzata affetta da isteria) sia per la sua condotta lavorativa. Egli non può più prender parte alla causa comune e viene messo al bando dai suoi compagni che lo tradiscono, ma sono a loro volta traditi da coloro che garantiscono il progresso con malefatte e soprusi, rendendosi complici di discrepanze e disparità sociali: «The conceit of the rich and the callousness of the government created panic among the inhabitants of Hard Times as a Dickensian Dystopia. Coketown is not only a no-place but also an awful place. Though created by Dickens, Coketown is an epitome of “savagery” revealing the socio-economic plight of his own society. In opposition to the fantasy ridden utopia, Dickens’ imaginary Coketown is a dystopian tangible»[13].
L’uomo cambia volto con l’avvento dell’industrializzazione e autori come Dickens ne hanno colto in maniera impeccabile ogni singola sfumatura: «il trionfo dei fatti e l’industriosità indefessa»[14] tarpano le ali di quel Pegaso, simbolo del circo equestre Sleary, che sorvola un mondo di convenzioni, ipocrisia e durezza. «I mostruosi serpenti di fumo che si snodavano sopra Coketown»[15] avvolgono nelle loro spire i rappresentanti del nuovo mondo urbano creato dalla capitalizzazione economica, i cui giorni sono scanditi dalle lancette di uno «spietato orologio statistico»[16].

Note

[1] Baldini A. E. e Colombo A. (a cura di) [1987], Utopia e distopia, Firenze, Dedalo, 1993, p. 27.
[2] Mencacci L., L’eclissi dell’utopia urbana, Roma, Città Nuova Editrice, 2009, p. 23.
[3] Wimsatt W. K., Literary Criticism: Idea and Act, Berkley and Los Angeles: University of California Press, 1974, p. 549. Si rimanda al saggio di Frye N., An Anatomy of Criticism, Princeton: Princeton University Press, 1957.
[4] Mencacci L., op. cit., p. 106.
[5] ivi, p. 34.
[6] Bonadei R., Paesaggio con figure. Intorno all’Inghilterra di Charles Dickens, Milano, Jaka Book, 1996, p. 27.
[7] ivi, p. 30.
[8] Bertinetti P., Virginia Woolf: l’avventura della conoscenza, Milano, Jaka, 1980, pp. 11-12.
[9] Toker L., “«Hard Times» and a Critique of Utopia: A Typological Study”, Narrative, IV:3 (October 1996), p. 219.
[10] Assael B., The Circus and Victorian Society, Charlottesville and London: University of Virginia Press, 2005, p. 1.
[11] Rogers P., “Dystopian Intertexts: Dickens’ «Hard Times» and Zamiatin’s «We»”, Comparative Literature Studies, XXXV:4 (1998), p. 400.
[12] Mencacci L., op. cit., p. 107.
[13] Prayer Elmo Ray P., “Hard Times as a Dickensian Dystopia”, Rupkatha Journal on Interdisciplinary Studies in Humanities, IV:1 (2012), pp. 96-97.
[14] Dickens C., Grandi speranze, Milano, Garzanti, 2011, p. 26.
[15] ivi, p. 72.
[16] ivi, p. 221.