VITA SOCIALE E SPIRITO PUBBLICO A COMO PRIMA DELL’UNITÀ

di Alberto Conti -

Tra tradizione e immobilismo, nei primi decenni del XIX secolo la vita seguiva i ritmi e le leggi naturali e sociali dell’Ancien Régime. Dalla mortalità infantile elevata alla povertà diffusa, le ragioni per cercare di emigrare erano molte.

 

Risulterà forse singolare ma, a introdurre l’argomento del presente saggio, è un’osservazione di carattere meteorologico: nel pieno scorrere della Restaurazione, precisamente nel 1832, si stava consumando sul Lario “una primavera lorda e piovosa”, alla quale sarebbe seguita un’estate caldissima, destinata a far registrare una notevole siccità ed una inevitabile serie di conseguenze sull’agricoltura e l’allevamento di bestiame(1). Chi offriva queste testimonianze era il nobile Francesco Della Torre di Rezzonico – metodico osservatore delle vicende comasche del tempo – il quale trovava opportuno premettere, a queste sue note sulle condizioni ambientali, un preambolo per spiegarne l’utilità, in considerazione che, non verificandosi “grandi fatti, avvenimenti strepitosi od almeno curiosi, né cangiamenti politici[…]” meglio è occuparsi dei “cangiamenti atmosferici che succedono annualmente[…]”.
La ragione di tale immobilismo dipendeva, secondo il nostro cronista, dal fatto che la “patria” comasca era “amante della tranquillità e della pace, osservatrice dell’ordine ed ubbidiente alle leggi sovrane […]”. Osservazioni che, in buona sostanza, coincidevano con il pensiero del delegato provinciale, ovvero la massima autorità politica locale, pur se esso, come vedremo, si sviluppava attraverso varie e più incisive osservazioni, sulle quali fermeremo la nostra attenzione. Due personaggi affatto diversi, e con ruoli sociali differenti all’interno del microcosmo lariano, che contribuiscono per la loro parte a guidarci in un periodo storico in parte ancora da scoprire.
Le strutture in parte ancora pre-moderne che caratterizzavano le comunità nelle quali resistevano quindi forti tratti tradizionali, in un’epoca che avrebbe dovuto far registrare il definitivo tramonto della concezione e della prassi del potere esercitato dai ceti, e vedere l’affermazione piena dello stato moderno- rende più stimolante, e ad un tempo più complessa, una riflessione sui temi proposti; premesso che l’intento del presente lavoro è quello, più limitato, di rappresentare uno spaccato di vita sociale in una fase storica la quale preludeva, lentamente, a quei grandi cambiamenti politici che Della Torre annotava, rassicurato, non potersi verificarsi nella provincia lariana: ci riferiamo al “48” ed alle successive guerre d’indipendenza. Avvenimenti che pur non interessando direttamente questo contributo, tuttavia non ne sono estranei, nella misura in cui i loro prodromi cominciarono a maturare proprio nei decenni precedenti.

Per una prima riflessione su quale fosse la qualità della vita dei comaschi, nella prima metà dell’ottocento, sono di indubbio interesse alcuni indicatori sociali e demografici, ricavabili dalle fonti dell’epoca.
A fronte di un quoziente grezzo di mortalità pari al 32 per mille nel 18392, troviamo che il tasso di mortalità infantile raggiungeva l’iperbolico valore del 308 per mille, decisamente più vicino alle medie “Ancien Régime” che non ai livelli europei del tempo(8). Se poi osserviamo le cause di morte aggregate dei vari settori anagrafici della popolazione – dopo che si erano scontate le pesanti conseguenze prodotte dal colera che aveva imperversato nel territorio comasco – possiamo rilevare come le più devastanti malattie epidemiche (il vaiolo in particolare) incidessero ancora con un significativo 2 per cento su un totale di 11572 decessi; ma erano le affezioni endemiche: morbillo, scarlattina, tubercolosi, pellagra e patologie dell’età senile a provocare gran parte delle morti per malattia.
Detto delle principali cause di mortalità troviamo che la stessa fonte aiuta a lumeggiare anche altre dinamiche. Sempre nel 1839 i nati furono 15.612, rispetto ad una popolazione iniziale di 374.341 individui; ne deriva che il quoziente grezzo di natalità, pari al 41,70 per mille, era ancora perfettamente ancorato al cosiddetto regime demografico “classico”, ovvero costituiva una tipica espressione delle dinamiche proprie dell’antico regime(3).
L’aspettativa di vita – o vita media – è un dato che colpisce particolarmente, per il valore di ancor più profonda cesura che rappresenta rispetto alla contemporaneità. Il dato proposto dalla fonte (che pur non potendosi desumere direttamente da una tavola della mortalità, sembra obiettivamente fondato su una metodologia corretta) esprime in 27 anni e 5 mesi la durata media della vita nella provincia. Un valore che non si discostava dalla tendenza generale in atto nella penisola durante la prima metà dell’ottocento, e che certo era nettamente inferiore a quello dei paesi anglosassoni(5).

Un altro elemento interessante scaturisce dall’essenziale disaggregazione di questo dato, che ne mostra i due estremi: il distretto di Como I, con il valore più basso: 24 anni e 3 mesi, ed il distretto di Cuvio, con quello più alto: 38 anni e 6 mesi. Lo scarto così ampio tra queste due realtà impone alcune riflessioni. Assumendo il suindicato valore come indicatore privilegiato (ma ovviamente non esclusivo) per misurare la qualità della vita, l’ambito cittadino e del territorio ad esso circostante risultavano decisamente “arretrati” rispetto ai villaggi che componevano il distretto varesino di Cuvio (21 comuni su una superficie di 80 kmq circa, con una popolazione di poco più di 10 mila persone). Certo va attentamente valutata anche l’incidenza del colera, il quale aveva drammaticamente colpito la città di Como – e significativamente i comuni appartenenti al suo distretto – lasciando pressoché immune il territorio di Cuvio(6)). Resta, comunque, l’impressione – che allo stato non è possibile supportare con altri valori coevi specifici per ogni distretto – che un tale divario possa essere spiegato, sia con riferimento a differenti “stili di vita” ( non è un eufemismo) che alla rispettiva situazione ambientale.
Sotto il primo profilo va considerata anzitutto l’alimentazione; e spesso gli ambiti di pianura erano penalizzati rispetto a quelli di montagna, come dimostra il confronto tra i regimi dietetici delle famiglie povere(7). Senza voler arbitrariamente estendere questo giudizio ai due distretti in questione, è vero che Como I è situato tra pianura e collina, mentre Cuvio è posto prevalentemente in montagna. Un altro aspetto molto rilevante era costituito dai problemi igienico – sanitari, i quali nella dimensione cittadina generavano frequentemente miasmi che favorivano la diffusione delle malattie.
Insalubrità ambientale e diete poverissime possono quindi essere due cause per spiegare il forte divario nella aspettativa di vita tra le rispettive popolazioni. Siamo tuttavia consapevoli dei limiti di tale argomentazione, e dell’opportunità che questo tema divenga oggetto di una più articolata ricerca – magari allargandola agli altri distretti della provincia. Di sicuro gli abitanti della valle di Cuvio – già elogiati per il caparbio volontarismo che li aveva contraddistinti nella realizzazione di un’importante bonifica – sarebbero andati fieri di questo primato, e chissà se la buona musica che la banda locale – sorta proprio nel 1839(8)- diffondeva per l’incantevole vallata, non fosse il segno di una reale armonia, che mitigava le asprezze del vivere quotidiano.
Le dinamiche concernenti il matrimonio ci mostrano, da un lato, la tendenza diffusa a sposarsi entro i 24 anni (il 66 per cento delle donne, il 34 per cento degli uomini) ma anche l’attitudine, meno scontata, ad unirsi in età più avanzate (oltre il 20 per cento di maschi si sposava tra i 30 ed i 40 anni e quasi l’8 per cento di donne). I fiori d’arancio onoravano maggiormente il pittoresco distretto bellagino, che nel 1839 fece registrare un matrimonio ogni 93 abitanti: un dato considerevole; mentre nell’erbese si rinveniva il rapporto più basso(9).

Spostiamo ora la nostra attenzione su indicatori di tutt’altro segno, riguardanti quelle che potremmo chiamare cause di morte “sociali”, ovvero da ricondurre ad uccisioni, suicidi, incidenti, e comunque di natura violenta.
Alcuni dati sono drammatici, specie se teniamo conto della fonte di Della Torre. Ciò riguarda in particolare le uccisioni, calcolate in 18 nel 1839(10) e in ben 67 tre anni prima, tanto da far esclamare al nobile comasco:”[…] fa conoscere ciò qual sia l’immoralità crescente nel popolo della provincia[…](11). Giudizio pesante, e tema questo della moralità destinato a permeare alcune nostre riflessioni. Colpisce anche il numero di individui che si tolsero la vita: 13 sopra una popolazione di ormai 380 mila individui(12), dei quali peraltro non siamo in grado di conoscere l’estrazione sociale. Un evento narrato da Della Torre, avvenuto nel maggio del 1833 nei pressi di Lezzeno, descrive il suicidio di due donne (di generalità sconosciute), le quali “lasciandosi quindi prendere dal cattivo genio della disperazione” si gettarono nelle acque del lago. Il senso di umana pietas del “cronista” si estendeva anche a tutti quegli infelici che attentavano alla propria vita e “purtroppo di sovente ne succedono di casi tristi in Como e nella provincia[…]”(13). La categoria delle persone “perite” (73 nel 1839)(14) è più difficile da decifrare e comunque si riferisce a cause non naturali che possono dipendere da fattori molteplici: gli incidenti sul lavoro, il servizio militare e pure i frequenti casi di annegamento che si verificavano nel lago di Como(15).
Visto che abbiamo detto dei delitti più gravi, conviene riprendere in esame la tabella riportata dal delegato provinciale, Terzi, risalente al 183216. Proprio con riferimento alla categoria degli omicidi, rileviamo intanto una significativa differenza rispetto ai dati sopra esposti. Infatti nel triennio 29-31 si consumarono 26 uccisioni, molto meno quindi che nel solo 36. Va tuttavia precisato che l’ufficialità di questa cifra si riconduceva ai delitti effettivamente accertati dalla giustizia criminale; forse più che dubitare della fonte di Della Torre (che tra l’altro sosteneva di aver ripreso da una “statistica annuale”) bisogna considerare la reale possibilità che un certo numero di delitti restasse ignoto al tribunale criminale. Tra gli altri reati spiccano in particolare: il furto e l’infedeltà (630 casi accertati(17)), ferite ed altre offese corporali(170 reati) e le rapine (152). Anche gli incendi dolosi (25) e la pubblica violenza (ben 174 casi) sono di un certo rilievo. Sotto il profilo dei comportamenti privati e del pubblico decoro emergono però anche dei dati che, da un lato rassicurano i moralisti dell’epoca, dall’altro possono consentire a noi di cogliere alcune attitudini della popolazione comasca in quel contesto storico. Per il primo va considerata, anzitutto, la totale assenza di reati accertati di bigamia e di calunnia, ed i rarissimi casi di “perturbazione della religione”. Altri indicatori gettano invece un barlume su tendenze e comportamenti che attraversano l’insidioso confine posto tra responsabilità pubblica e universo privato. Ci riferiamo ai reati che attengono alla sfera affettiva e sessuale. La cura dei bambini rivela una preoccupante serie di delitti contro la loro integrità psico-fisica ( 32 furono i casi indagati dall’autorità giudiziaria), mentre nessun caso di procurato aborto venne accertato nel triennio in esame. La violenza sessuale e gli atti di libidine presentano un tasso di aleatorietà molto maggiore, data la notevole difficoltà al loro accertamento; comunque il numero dei reati censiti raggiungeva le dieci unità, compresi i casi in cui i colpevoli non si erano potuti individuare od arrestare.
Improbabile, invece, su queste basi tentare un’argomentazione sulla violenza domestica, che restava sostanzialmente estranea alla repressione giudiziaria, salvo quando, ovviamente, non degenerasse nei delitti più gravi.

Se le fonti statistiche ci offrono, come abbiamo visto, significativi spunti di riflessione, il nostro sguardo deve ora indirizzarsi verso quei corposi microcosmi che caratterizzavano la realtà sociale della provincia.
Proprio prendendo spunto dalla tabella dei delitti, conviene intanto ragionare intorno al rapporto dei comaschi con la legalità; che poi significa anche – tanto per un accanito tradizionalista come Della Torre, che per il più laico e moderno Terzi (formatosi nei tumultuosi anni napoleonici) – moralità nei comportamenti pubblici e privati. In generale questo periodo storico faceva registrare un significativo tasso di illegalità, comunque di gran lunga maggiore rispetto a quello desumibile dalle fonti giudiziarie di oltre venticinque anni più tardi, all’epilogo ormai della storia del Lombardo-Veneto(18). Ciò sembra confermare le citate preoccupazioni espresse da Della Torre, sul decadimento della moralità tra gli abitanti della provincia. Diversa, e più articolata, la disamina di Terzi, il quale, considerando evidentemente fisiologica una certa propensione delittuosa e criminale, rifletteva “sulla generale condizione degli abitanti” per giungere poi a conclusioni che toccavano direttamente l’ambito della “politica” e dei comportamenti sediziosi (temi che affronteremo in seguito): ciò che incarnava, in definitiva, lo spirito pubblico. Ciò derivava, essenzialmente: dalla particolare configurazione della proprietà fondiaria, e dall’indole operosa e pragmatica della popolazione. Sosteneva infatti il delegato, per il primo punto, che “grandi proprietari non esistono nella provincia”; infatti, aggiungeva, “i terreni più ubertosi della parte piana e leggermente montuosa spettano a famiglie domiciliate in Milano. Così appartengono ai milanesi i migliori poderi dei distretti di Erba, di Oggiono, di Missaglia, di Brivio, di Cantù, di Appiano, di Tradate, di Varese […]”. Se “tenui” sono poi le ricchezze delle famiglie dimoranti in Como, ne deriva “che non vi sono quindi nella provincia ricchi signori che vivano con qualche lautezza delle loro rendite e si abbandonino all’ozio ed ai piaceri”. Se dissipatezze ed ozio erano quindi giudicate cause potenziali di propensioni delittuose o criminali, ciò, va sottolineato, significava, dal punto di osservazione del delegato, azioni o comportamenti sediziosi, comunque volti contro la sicurezza dello Stato, come diremmo oggi. Inoltre, la notevole polverizzazione dei villaggi avrebbe reso oltremodo difficile lo sviluppo di “quelle relazioni e di quei convegni ove irrequieti semidotti e pseudoletterati potessero trar alimento al loro amor proprio ed ai loro bisogni”. La conclusione, lapidaria, era che “da tutto ciò seguiva l’abitudine generale di occuparsi dei propri affari per migliorare o conservare la propria fortuna”.
La dedizione al lavoro, “l’alienazione da investigazioni sopra materie di politica ed i metodi di governare[…]” forniscono, in ultima analisi, l’immagine di una società fortemente ancorata alle tradizioni ed al proprio “particulare”, indifferente alla politica e quindi impermeabile sostanzialmente ad ogni istanza di cambiamento.

Discuteremo più avanti della plausibilità di questa tesi; certo è che essa, come abbiamo detto, ci fa entrare nel campo dei reati di sovversione politica, quelli che il codice penale rubricava come “alto tradimento” e “sollevazione e ribellione”, ma non ci fornisce invece risposte rispetto al più diffuso fenomeno della criminalità comune.
La realtà è che, più che lo smarrimento di codici morali – o comunque ciò può esserne una conseguenza – le radici del malessere sociale ed il suo incanalamento nella violenza erano da ricondurre primariamente alle condizioni di bisogno e di disperazione economica nelle quali versano moltissimi individui; non a caso, furti e rapine costituiscono da sole una quota considerevole dei reati accertati nel triennio 29-31. Era la questione del pauperismo, il problema, come ha scritto Della Peruta(19), “dell’esistenza di una povertà e di una indigenza inseparabili dal mondo popolare[…]”, che si era così esteso tanto da preoccupare, molto più che in passato, autorità e opinione pubblica. Un esame degli archivi comunali – nelle cartelle che interessano la vita delle deputazioni amministrative – potrà offrire un significativo spaccato della realtà della violenza comune, tra gli anni venti ed i cinquanta del secolo. Nel caso esaminato, si sono rinvenuti rapporti di rapine commesse da banditi da strada, che depredavano i viandanti, o di “malandrini” che si presentavano direttamente nelle case a chiedere denaro, armati di bastoni(20). Se per Terzi il problema della delinquenza sembrava più che altro da ricondurre al pessimo funzionamento della giustizia, noi crediamo, a parte questo, che un di più di violenza caratterizzasse questa temperie storica, ed il deterrente di una più efficace repressione non sarebbe bastato certo ad eliminarla.
Quindi violenza causata dal bisogno, prima di tutto, in una fase di transizione tra strutture e caratteri d’antico regime ed aperture al nuovo, dove crisi occupazionali, sottoccupazione, malattie che colpivano componenti attivi delle famiglie, producevano un quadro di grave malessere appena mitigato dalla beneficenza pubblica e privata. Era l’emigrazione, semmai, a far si che questa realtà non diventasse esplosiva.
La sofferenza ed il disagio economico, che affliggevano i più, e l’appagamento ed il benessere che contraddistinguevano i settori più fortunati della società comense, erano in qualche modo lo specchio della vita quotidiana, la quale sembrava procedere senza grandi scosse, come animata dalle stesse antiche consuetudini e da una sorta di motore perpetuo che le stratificava nelle diverse componenti sociali.

La città offriva certamente uno spaccato caratterizzato da un certo dinamismo, e non solo per essere il centro politico ed amministrativo della provincia. La modernizzazione del suo assetto urbano, la nascita di tessiture, la mondanità e le relazioni sociali, davano un tono ovviamente non rintracciabile in altri contesti, borghi o villaggi che siano. La vivacità del capoluogo comense era anche determinata dai notevoli movimenti di persone, richiamate dai suoi mercati e fiere; essa contava, inoltre, una folta componente di non nativi, impegnati nelle rispettive attività economiche e di servizio (circa 800 nel censimento del 1832)(21) oltre ai militari della guarnigione. Per quanto riguardava gli esteri va osservato che, a parte ovviamente ufficiali e militari in servizio, erano pressoché assenti dai quadri dell’amministrazione politica e giudiziaria, e se tale dato venisse corroborato da un’indagine più mirata, ciò sarebbe senz’altro di un qualche rilievo per sviluppare una comparazione con le altre province del Regno(22).
Un’essenziale osservazione della toponomastica cittadina, ci rivela che la popolazione era equamente distribuita tra città (Santa Maria Maggiore, San Fedele, San Donnino) e sobborghi (San Bartolomeo, Sant’Agata, Sant’Agostino, San Giorgio e l’Annunziata)(23).
La più dura prova, in questo scorcio storico, che gli abitanti del capoluogo si trovarono ad affrontare fu la diffusione del colera, che mietette moltissime vite durante il suo infierire. C’è un’immagine molto suggestiva, che ci ha lasciato Della Torre di Rezzonico, dove si descrivono i comaschi, quasi in una catarsi collettiva, intenti a pregare “colle mani alzate al cielo, con fervidi voti ad implorare grazia dal sommo dator d’ogni bene, affinché ritirasse la mano armata, vindice dei delitti degli uomini[…] “ per la liberazione dal flagello(24). Il giubilo, quando nell’ottobre del 38 “l’ospite micidiale era partito dalle nostre contrade”(25), corrisponde a uno di quei momenti nella storia in cui più forte si rintraccia il senso di un’identità collettiva; dopo che qualcosa di tremendo ed esterno alla comunità, pareva poterla stravolgere e consumare. Ed erano la solidarietà ed il soccorso, che caratterizzavano l’azione di “piccoli eroi” che non sarebbero passati alla storia, attraverso la condivisione della sofferenza(26), così come le collette e le varie forme di beneficenza che si diffusero in quella difficile temperie, a testimoniare la reazione collettiva di fronte al flagello.

Non si intende sopravvalutare il contributo del solidarismo, né si può omettere di sottolineare che esso costituiva già una prerogativa, quasi istituzionale, delle classi abbienti e degli enti religiosi ( il che vale va ovviamente non solo per il capoluogo), in una prospettiva ancora pre-moderna dove senso cristiano, desiderio di autocelebrazione, timori per le possibili ripercussioni sociali provocate da fame e malattie, si combinavano per assicurare comunque il mantenimento dello status quo. La vicenda del colera offre tuttavia una chiave di lettura in parte diversa, non fosse altro che per il fatto che esso poteva colpire chiunque, ovvero tanto i ricchi che i poveri, disarmando in qualche modo anche le certezze dei primi. In tale contesto, solidarietà e soccorsi non corrispondevano che in parte alle tradizionali forme di beneficenza. Può sembrare paradossale, ma gli effetti psicologici e sociali provocati dalla epidemia determinarono da un lato la tendenza all’isolamento degli individui, terrorizzati dal rischio del contagio, dall’altro sollecitarono il formarsi di un più robusto spirito comunitario: per questo le opere di solidarietà assumevano un rilievo per certi versi inedito. Non erano quindi solo le autorità politiche a preoccuparsi della pubblica salute, diffusa era la consapevolezza, da parte dei comaschi, di doversi adoperare per la difesa della propria comunità.
Di là dalla drammaticità e dall’eccezionalità di questo evento, la ricerca di una rappresentazione del microcosmo cittadino conduce fatalmente ad una immagine bifronte, dove, più che in altri luoghi della provincia, si colgono i caratteri irriducibili delle profonde divisioni sociali ed economiche, le quali si riflettevano sulla vita quotidiana e sulle generali attitudini degli abitanti. Ma la varia umanità che si muoveva attraverso le contrade e le pubbliche piazze, o nei luoghi in cui si svolgevano le attività economiche, esprimeva pure i nuovi bisogni ed aspettative che stavano lentamente avanzando. Erano i nuovi rapporti sociali – scaturiti dal primo sorgere del lavoro di fabbrica – il progressivo emergere di un ceto borghese non ancora pienamente consapevole di sé, il più largo interesse per l’informazione e la cultura; infine, la formazione di una coscienza politica, critica se non antagonistica rispetto all’ordinamento asburgico. Durante gli anni trenta nacquero diverse riviste di carattere scientifico, o periodici con chiari contenuti pedagogici, come gli almanacchi della provincia di Como.

Quanto alla borghesia comasca, ancora inibita a partecipare al lussuoso mondo del “ceto categorico dei civili”(27), era costituita principalmente da proprietari di negozi ed industrie, artigiani benestanti, liberi professionisti, funzionari pubblici. Il presunto strapotere che essa avrebbe esercitato nelle cariche pubbliche, corrispondeva ad un pregiudizio di Della Torre e non risulta veritiero. Tuttavia è innegabile che l’accesso ai pubblici impieghi, tendendo a privilegiare le nuove professionalità, ne accrescesse in definitiva la visibilità sociale. Le motivazioni di carattere eminentemente economico che, secondo Severin(28), determinavano, già nel corso del secondo ventennio, un raffreddamento degli entusiasmi del ceto medio locale rispetto all’amministrazione austriaca, non producevano ancora – se non in limitati casi – una dislocazione di questa insoddisfazione sul terreno politico; soprattutto perché, difettava esso di una chiara e consapevole coscienza di classe, ed inoltre, per l’indole conservatrice, e forse anche un po’ fatalista, che lo contraddistingueva. Nondimeno, ciò non significava immobilismo, né mancanza di energia ed intraprendenza. L’interesse per le innovazioni tecnico-scientifiche, il moderato progredire dell’industria, gli stessi ruoli ricoperti nella pubblica amministrazione, testimoniavano di una certa vitalità ed apertura alle novità, anche e soprattutto provenienti dall’estero.
La maggior complessità della realtà socio-economica, ed il miglioramento del tasso d’istruzione superiore, ampliavano intanto il ventaglio delle cosiddette professioni “liberali”. Solo nella città di Como, alle soglie degli anni quaranta, operavano 20 medici-chirurghi, mentre nell’intero ambito provinciale risultavano complessivamente censiti: 33 avvocati, 40 notai, 95 ingegneri, 45 ragionieri e 61 agrimensori(29).
Il microcosmo cittadino era anche caratterizzato dalle diverse espressioni di vita sociale e di riti collettivi, che se da un lato riproducevano le ferree divisioni di status ed economiche, dall’altro erano pure espressione di aspettative condivise. Così accadeva per le solennità religiose, ma anche per i momenti di pubblico divertimento, come il carnevale. La vita di società, dove si continuava ad ostentare un forte esclusivismo, non era solamente quella che pulsava nel salotti aristocratici, ma era anche alimentata dagli spettacoli ed intrattenimenti che animavano il casino sociale (che nel 1834 fece registrare 163 associati)(30), dove si davano feste da ballo e concerti. Per i più, diversamente, erano le bettole e le osterie a rappresentare il luogo privilegiato della socialità, ma ciò costituiva per l’autorità (specie con riferimento ai villaggi di campagna) un serio problema di ordine pubblico Riaffiorava qui la preoccupazione che l’ozio ed i vizi rendessero proclivi alle attività illecite ed immorali; sicché, era partita una piccola “crociata”, contro il dilagare di questi esercizi pubblici, destinata a non sortire tuttavia – almeno nel medio periodo – gli effetti auspicati.

Il fenomeno sociale che maggiormente investiva la provincia lariana, durante la Restaurazione, era comunque costituito dall’emigrazione. E’ un tema molto studiato, e che beneficia di contributi storiografici illuminanti. Pur non rappresentando una novità, esso tendeva ad assumere, nella prima metà dell’ottocento, proporzioni impressionanti. Nel 1833 risulta che oltre il 20 per cento della popolazione attiva, “non trovando nella provincia sufficienti mezzi con che vivere”, era costretto ad emigrare(31). La quota decisamente più consistente era data da uomini che abitano le terre dell’Alto Lago; ma un contributo significativo veniva anche dalla pianura. I primi “vanno per ogni dove”: li si incontra, infatti, nella Svizzera, in Inghilterra, in Norvegia, naturalmente nelle diverse regioni d’Italia (tipico era il caso dei gravedonesi, che sin dal Medioevo si dirigevano verso Palermo(32)) e finanche in America. Peculiari le attività che essi svolgevano, in alcuni casi, più generiche in altri. Parte essenziale della cultura artigianale delle rispettive località, erano i mestieri del barometraio e del “piccapietra”(33) o dello stuccatore; tra la manovalanza più comune, diffusi erano i lavori di oste, facchino e filatore. L’ambito geografico dell’emigrazione degli abitanti della pianura era invece molto più stretto, e tendeva a privilegiare le varie province lombarde, con una variegato, anche qui, filone di mestieri. Tipica era poi la quota di emigrazione proveniente dalle terre brianzole, legata alle competenze acquisite dagli emigranti nell’ambito della coltura del baco da seta. Infine, a completamento di questa breve sintesi, vale la pena di accennare ad un fenomeno migratorio che interessava il distretto di Canzo, dove erano le donne, principalmente, a spostarsi, durante l’estate, in altre località in cui è richiesta la loro esperienza maturata nella filatura della seta.
La grande diffusione dei processi migratori (eterogenei per destinazioni, mestieri esercitati, ma anche in relazione alla durata e frequenza che essi assumevano) non poteva non produrre significative ripercussioni sul tessuto socio-economico dei luoghi di provenienza. Pensiamo, in particolare, ad interi villaggi popolati per interi mesi da soli vecchi, donne e bambini, i quali si facevano carico della gestione delle pratiche agricole, per lo più in grado di fornire ben scarse risorse.
E’ interessante notare come alcune felici esperienze legate alla emigrazione (sotto il profilo della gratificazione economica) fossero giudicate in modo addirittura sprezzante da Della Torre – e forse vi riecheggiava il comune sentire dell’alta società comasca – dove alla consueta alterità con la quale si consideravano le attività economiche, si aggiungeva una buona dose di pregiudizio:”[…] quando io penso meco medesimo, come a di nostri tante zotiche persone calate giù dai monti del nostro Lario, portandosi a negoziare in Francia, Inghilterra ed in America; pochi anni dopo ritornati in seno alle loro case pieni di denaro, comperando case o possessioni vaste che stupironsi molti di tanta loro fortuna[…] “ nonostante, aggiunge, non avessero “veruna cultura, e persino non sapevano alcuni scrivere corretto il proprio nome[…]”(34). La conclusione è che costoro siano “divenuti ricchi col raggiro improprio, l’usura, il contrabbando”(35).
Con ben altro spirito, lo stesso Della Torre registrava altrove alcune delle attività svolte dagli emigranti (come i barometrai ed i venditori di macchinette di fisica sperimentale) “che scorsero la Germania, la Svizzera, i Griggioni ed il Trentino con la cassa ed il fardello in ispalla[…]”(36). Esperienze, comunque, che in tutti i casi rappresentavano solo uno spaccato di un fenomeno, quale è l’emigrazione, più causa di disagi e sofferenze che certo non all’origine di un diffuso accumulo di fortune.

Un mondo in larga parte inesplorato era quello dei giovani. E’ forse superfluo sottolineare come i “tempi” della giovinezza venissero scanditi, oltre che dai ritmi naturali, dalle differenti collocazioni sociali. Il tema dell’istruzione esemplificava queste differenze, prefigurando, con una certa rigidità, i percorsi sociali di fanciulli ed adolescenti. A fronte delle nuove consapevolezze che maturarono nella protezione e cura dell’infanzia, l’adolescenza e la prima giovinezza erano irrigimentate in dinamiche che reiteravano i consueti approcci paternalistici e repressivi. Certo per molti fanciulli il passaggio all’età adulta avveniva, in un certo modo, ben prima che ne fosse completata la formazione fisiologica, attraverso il precoce inserimento in cicli lavorativi profondamente alienanti e causa di gravi sofferenze fisiche. Se esisteva un fattore, peraltro, fonte di timori ed angosce, questo era rappresentato soprattutto dalla chiamata di leva. Ansie e preoccupazioni condivise dalle famiglie dei giovani, specie se il loro allontanamento ne pregiudicasse il precario equilibrio economico. Con la renitenza alla leva, trattata dagli austriaci come un grave reato (i refrattari erano condannati “a servire in uno dei corpi d’armata per dieci anni, salva l’esonerazione di un anno nel caso di spontanea presentazione”(37)), la possibilità di evitare il servizio militare era legata all’accertamento di precise condizioni previste dalle norme vigenti: lo stato civile (chi avesse contratto matrimonio, in determinate fattispecie), il livello di povertà della famiglia, la frequenza delle scuole teologiche e dei seminari (questione che aveva suscitato le polemiche del laicissimo delegato provinciale(38)). Di là da questa precisa regolamentazione, fioccavano, sulle scrivanie del comando generale militare, molte domande volte ad ottenere congedi temporanei dei soldati, come testimonia una circolare delegatizia del 1825(39). In generale, quindi, si può arguire come fare il soldato producesse un diffuso malessere,non solo tra i giovani che dovevano essere arruolati. Nonostante questo, ha scritto Cantù, “quando poi furono i nostri chiamati alle armi, non si mostrarono a niun italiano secondi: pure combattevano per una causa straniera”(40).

L’omologazione coatta – nell’ambito di ciascuna categoria sociale – non annullava ovviamente le inquietudini e gli entusiasmi tipicamente giovanili, ed era desta l’attenzione dei moralisti, pronti a registrare le censurabili, o pericolose, attitudini della gioventù comasca. Divertente ed istruttivo, per certi versi, il quadretto che ci fornisce l’immancabile Della Torre: “La gioventù sola interessa ad osservare le figlie degli uomini […] basta il dare un’occhiata nei giorni festivi nelle chiese, si conoscerà abbastanza quanto mancanza di rispetto alla casa di Dio. Si sdraiano sulle panche e non fanno in tutto il tempo del divin sacrificio, e delle ecclesiastiche funzioni che ciarlare dei divertimenti pubblici, discorrere dei teatri e del merito delle fanciulle le più vistose della città. Si vedono in crocchio molti giovani insieme uniti ridendo e scherzando, a girare d’intorno gli occhi lusinghieri fermandoli in que’ luoghi che più oggetti gli compiace, distogliendo l’attenzione dalle loro orazioni ed attenzione alle ecclesiastiche cerimonie: sarebbe meglio che stessero nelle piazze o nei pubblici caffè, invece di venire nelle chiese con simili intenzioni”. E infine un’altra stoccata:”[…] si chiama in causa soprattutto la cattiva educazione nelle famiglie ove ciucciano col latte i più perversi costumi”(41).
Ma erano sempre i giovani a fornire i migliori esempi nel campo della solidarietà verso il prossimo, mentre imperversava il colera, ha annotato lo stesso severo censore delle loro intemperanze(42). Ed era tra la gioventù colta del liceo comasco che maturarono sentimenti di rinnovamento, già inquadrabili nell’alveo delle lotte risorgimentali(43).

Quest’ultimo tema ci riporta al nucleo delle considerazioni svolte dal delegato sullo spirito pubblico, che dalla sua prospettiva rivelava una generale attitudine al rispetto delle leggi ed un sostanziale individualismo, estraneo alle questioni afferenti la politica. E’ una lettura corretta, se consideriamo che al principio degli anni trenta – e per parecchi anni ancora – la lotta politica era cosa per una manipolo di persone, e non produceva particolari effetti tra l’opinione pubblica. Eppure le cospirazioni di quegli anni non potevano non aver preoccupato le autorità austriache, come testimoniarono la puntualità e la durezza della repressione messa in atto. Tra il 1831 ed il 1834, furono parecchi i comaschi processati per attività sovversiva(44). Tra costoro figuravano persone di primo piano della società comasca, come il marchese Gaspare Rosales e Cesare Cantù. La composizione sociale e la provenienza geografica degli inquisiti mostra – di là dalla assenza di persone del popolo – una non irrilevante eterogeneità, segno che, pur mancando una efficace capacità di irradiazione, il “movimento” era meno settario ed isolato di quanto superficialmente poteva apparire. Figuravano tra di essi: medici, avvocati, industriali, studenti, preti, e naturalmente nobili. La varietà dei rispettivi luoghi di provenienza corrispondeva in parte alle località nelle quali si tenevano adunate sediziose di ribelli: non solo il capoluogo quindi, ma anche Bellagio(45) e la Vall’d’Intelvi(46).
Era di un po’ di anni più tardi un volume pubblicato anonimamente in Francia, che proponeva un’interessante lettura dello spirito pubblico, precipuamente con riferimento al Lombardo Veneto, e che riteniamo sia utile riprendere, in alcuni punti, nella prospettiva di problematizzare ulteriormente le considerazioni sin qui svolte.47 L’autore rivendicava all’esperienza francese il merito storico di aver prodotto il “germe” dell’emancipazione del popolo, dacché ormai “la cieca ubbidienza” era stata posta in ridicolo e “l’aureola di che si erano circondati i sovrani” scomparsa. Tuttavia, e qui emerge un aspetto meno scontato, con riguardo al nostro tema, ovvero che, durante il corso della Restaurazione, lo spirito pubblico avrebbe mostrato un volto più articolato, rispetto alla lettura lapidaria fornita dal delegato provinciale (certo riferita, quest’ultima, essenzialmente all’ambito comense, ma non pregiudizievole di una comparazione in una prospettiva regionale). Scriveva infatti l’anonimo: “ Lo spirito pubblico è desto nel senso, che l’occuparsi di cose pubbliche non è più l’esclusiva di alcuni singoli posti in circostanze speciali; ma in ogni classe di persone, e segnatamente nella città si trova chi vi prende interesse e ne parla bene o male”. Certo questo spirito andava alimentato e sarebbe stata una grande illusione pensare che, allo stato, fosse giunto ad un tale grado di maturazione da poter costituire il “mezzo più efficace” sul quale poter fondare le speranze patriottiche per la liberazione dalla dominazione straniera.

Ora, il grande tema del processo politico risorgimentale ci porterebbe fuori dai più limitati orizzonti di questo lavoro, ma la riflessione intorno alla presunta coscienza critica, non più ristretta alle élite, mostra, appunto, un volto più articolato e problematico della popolazione del Regno, sebbene non sfuggisse all’autore l’enorme difficoltà di promuovere istanze di partecipazione al bene pubblico laddove – e lo abbiamo visto per la provincia comense – i più fossero interamente assorbiti nella drammatica ricerca nella sussistenza personale e della propria famiglia. Tanto che le potenzialità che l’autore credeva di rilevare sarebbero rimaste tali, se nulla fosse cambiato nell’educazione e nella struttura economica della regione. Resta – quasi un ‘osservazione antropologica – la rivendicazione di un’attitudine “positiva” della gente semplice e negletta, ovvero l’assenza di quel sentimento di apatia, che l’anonimo definiva un vizio, una corruzione dello spirito, e si riproponeva l’importanza del ruolo politico e pedagogico che le élite risorgimentali avrebbero dovuto svolgere.
Se quindi l’entusiasta – ma anche realista – autore del testo proposto tendeva a proporre un quadro almeno potenzialmente dinamico dello stato dello spirito pubblico, il delegato provinciale, nel suo rapporto, rappresentava le tendenze predominanti e più largamente condivise, non paventando timori particolari per l’ordine pubblico e la stabilità ( una preoccupazione “istituzionale”, evidentemente e nulla vieta di pensare che per un funzionario come lui, formatosi durante l’esperienza napoleonica, altri potessero esserne gli auspici(48).
Per quanto attiene alle specifiche attitudini della gente del Lario, che Terzi tratteggiava con una certa sicurezza, l’attenzione posta alla ricerca del progresso materiale del singolo è il tema più stimolante. Certo i cambiamenti prodotti durante l’età rivoluzionaria si facevano sentire – tra l’altro – nella propensione alla valorizzazione individuale, tesa a forzare, in qualche misura, gli argini di una comunità in buona sostanza ancora tradizionale. E’ possibile quindi mutuare l’espressione “società per atomi”, di cui parla Meriggi(49), prodotto della rivoluzione napoleonica. Leopardi avrebbe descritto, piuttosto, questa tendenza come l’esito naturale dell’illuminismo, con la rottura dei legami morali della tradizione, che determinava cinismo, disincanto, egoismo, assenza di moralità appunto(50). In altri termini, l’individualismo (in una accezione negativa quindi) non sarebbe stato che il portato della decadenza dei costumi (la morale): la conseguenza di una rivoluzione che aveva fatto “tabula rasa” del tessuto connettivo della vecchia società, e dei suoi “fondamenti” (è appena il caso di sottolineare che Leopardi non sviluppava queste osservazioni da un punto di vista reazionario, e semmai esprimeva il proprio pessimismo sulla base della convinzione che, alla sottrazione dei “fondamenti tradizionali” non avesse fatto riscontro in Italia un processo di incivilimento, come era accaduto in altre nazioni). D’altra parte, quanto scriveva Terzi poteva non sottendere significati particolari – di là dal testimoniare, come in altri casi, il suo “savoir” di uomo e funzionario formatosi nella temperie culturale degli anni “francesi” – ed “aprire” soltanto alla conoscenza del sostanziale agnosticismo politico della popolazione lariana.

E’ peraltro utile sviluppare altre considerazioni. Se sosteniamo l’idea di una società più dinamica di quanto all’apparenza potrebbe sembrare, dove l’affrancamento dal passato pre-rivoluzionario era un processo ancora in divenire (ovvero non interdetto dal nuovo contesto politico-istituzionale), ciò può implicare una riconsiderazione del rapporto dell’individuo con la società stessa, e quindi delle sue speranze ed aspettative. E’ vero che occorre distinguere tra un dinamismo imposto dalla necessità: l’adattamento alla flessibilità richiesta dalle attività manifatturiere, che si coniugava con la conservazione, in larga parte, del legame con la terra (i contadini) ed un dinamismo volto alla ricerca della promozione sociale :era quel ceto borghese che si faceva strada anche attraverso l’inserimento negli organici e nelle cariche della pubblica amministrazione (risultando forse la causa di un singolare fenomeno di emigrazione di esponenti dell’aristocrazia cittadina, specie in direzione di Milano(51)). Ciò, nondimeno, esprimeva la maturazione di nuove consapevolezze, le quali articolavano rapporti sociali in parte diversi rispetto al passato, con effetti sia sul versante delle relazioni comunitarie che nei riguardi del potere pubblico. Tutto questo era legato ad un processo di lunga durata destinato ad incidere, con effetti diversi, sulle varie classi sociali e sul rapporto tra di esse, ma le coordinate che regolavano la vita comunitaria rivelavano anche la persistenza di analogie con le epoche immediatamente precedenti. Se prendiamo la descrizione di Manzoni sull’ambiente sociale del ’600, nel primo capitolo de “I Promessi Sposi” (sebbene in una più ampia prospettiva regionale), troviamo che egli mostrava il volto di una società non organica, e dominata dai particolarismi; e il saggio di Caizzi sul comasco corrobora tale tesi(52).
La realtà dei primi decenni del XIX secolo non sembra significativamente diversa – sotto questo aspetto – e ciò pur dovendo ovviamente riconoscere i cambiamenti che si erano prodotti attraverso due secoli. Quello che pare avvicinare le due epoche, in definitiva, è soprattutto la comune carenza di uno spirito comunitario, o se vogliamo di una vera coesione, costruita intorno a valori in grado di legare tra loro gli individui –di là dai vincoli parentali e di vicinato – anche a prescindere dalla rispettiva collocazione sociale(53). Sostanzialmente vano, in tal senso, era il concorso del pur consapevole ruolo guida rivendicato dal declinante mondo aristocratico, con la propria pretesa di essere il garante “dell’esistenza stessa della società “(54). Questo non significa che non vi fossero condivisioni di obiettivi, magari molto sentiti all’interno di determinate comunità: si pensi ad importanti opere collettive, come le bonifiche, o a quel, per certi aspetti straordinario, sentimento di fratellanza che maturò durante il divampare del terribile colera.
Anche la vita delle istituzioni locali mostra il quadro, pur articolato, di un particolarismo che sembrava tracimare dalla pur fisiologica contrapposizione di interessi; e le istanze collettive, quando si manifestavano, erano volte, per lo più, a contrastare processi di modernizzazione (come accadeva nelle comunità di montagna): esse, più che rappresentare una espressione di spirito comunitario, costituivano una risposta di quella che è stata efficacemente descritta come “democrazia della miseria”(55).
Se poi volgiamo lo sguardo al rapporto delle comunità con l’esterno, l’esistenza di istanze superiori: la provincia, e poi lo Stato, apparivano molto lontani, e non fondativi di un legame che non fosse, ovviamente, quello imposto dal rispetto di leggi e consuetudini. Nel primo caso, del resto, la persistenza di differenze ed antagonismi ,all’interno del territorio provinciale, affondavano le proprie origini nel peculiare processo di formazione degli ordinamenti territoriali nel comasco(56).

Il rapporto degli individui con lo Stato – o meglio con l’autorità – di là dalle pubbliche manifestazioni di entusiasmo registrate al passaggio del viceré o ad esempio, “alla dimostrazione di esultanza” espressa dai comaschi per il fallito attentato (nell’agosto del 32) al figlio primogenito del sovrano asburgico(57), si caratterizzavano per la deferenza ed il timore nei riguardi delle autorità politiche locali: ufficio di polizia, delegazione e commissarie. Ma con queste ultime si sviluppava più naturalmente una “dialettica” tra privati e potere pubblico, non indifferente al formarsi di più complesse dinamiche giuridiche, proprie di una realtà che aveva conosciuto le radicali novità imposte durante gli anni “francesi”.
Può risultare singolare, ma i pensieri di tre contemporanei – così diversi, per spessore intellettuale e ruolo sociale, e non ugualmente coinvolti nelle specifiche vicende comasche – combinano insieme una rappresentazione credibile di alcune attitudini che si rinvengono tra la gente del Lario, in questo contesto storico, con riferimento al modo di porsi degli individui rispetto alla propria comunità, alle leggi, ed in definitiva anche verso se stessi.
Il declinare della moralità pubblica, secondo Della Torre di Rezzonico (che era da quest’ultimo anche messa in relazione all’erosione dell’egemonia patrizia); l’indole pragmatica, operosa, tesa al miglioramento di sé, che registrava Terzi a proposito dello spirito pubblico, esente da influenze politiche e da sollecitazioni diverse dalla difesa dei propri interessi; quindi le ficcanti osservazioni del Leopardi fine sociologo, che intendeva disvelare la vera natura dei costumi degli italiani: “[…] lo spirito pubblico in Italia è tale, che, salvo il prescritto dalle leggi e ordinanze dé principi, lascia a ciascuno quasi intera libertà di condursi in tutto il resto come gli aggrada[…]. Gli usi e i costumi in Italia si riducono generalmente a questo, che ciascuno segua l’uso e il costume proprio, qual che egli si sia”(58). Sono osservazioni che aiutano, in un certo modo, a delineare la tipologia sociale dei comaschi in questo torno di tempo; soprattutto valgono a corroborare l’idea che la comunità fosse una mera aggregazione di individui, legati solo da vincoli familiari o tutt’al più da interessi di ceto, e che raramente si autorappresentava come una entità organica, come forza collettiva. Ma ciò non accadeva per il solo attaccamento di ciascuno al proprio “particulare”. In realtà mancavano, come abbiamo accennato, ideali che potessero sollecitare il costituirsi di una coscienza collettiva, in grado anche di superare le divisioni sociali. Poteva concorrere a colmare questo deficit di valori il processo risorgimentale, che nel 48 avrebbe visto la prima volta protagoniste anche le masse urbane (ovviamente in una prospettiva che travalicava la mera comunità tradizionale)? E’ un tema affascinante, che meriterebbe una trattazione specifica, al fine di cogliere più a fondo le implicazioni prodotte, in ambito locale, dalle guerre d’indipendenza. E’ possibile sostenere, comunque, che il diffondersi degli ideali patriottici avesse, almeno in una certa misura, sedimentato nella società comasca un nuovo sentire comune, spingendola oltre i propri ristretti orizzonti, in direzione di un più largo coinvolgimento nelle nuove istanze politiche e civili. Un esito, questo, che quasi all’alba del “grande evento”, l’anonimo estensore del testo, di cui ci siamo occupati in precedenza, auspicava con forza, ma che riteneva ancora, a ragione, ben lungi dal compiersi.

Note

(1) F. Della Torre di Rezzonico, “Memorie patrie dal 1812 al 1830 e cronaca della città di Como e sua diocesi dal 1831 al 1835”, tomo I, libro terzo. Manoscritto in Biblioteca comunale Como.
(2) Almanacco della provincia di Como per l’anno 1841, pp. 145-148, Biblioteca comunale di Como
(3) A. Pasi, “Contare gli uomini”, pp. 121-122, Led, Milano, 1992
(4) A. Pasi, cit. pp. 91-92
(5) Ibidem, p.118
(6) Gazzetta provincia Como, anno 1838, Biblioteca comunale di Como
(7) R.Merzario, “Il capitalismo nelle montagne”, p. 105, Bologna, 1989
(8) G.Roncari, “1839-1989 una banda e il suo paese – 150 anni di storia”, Como, 1989
(9) Almanacco provincia di Como per l’anno 1841, pp. 145-148, B.c.Co.
(10) Ibidem
(11) F. Della Torre di Rezzonico, cit. tomo II, libro sesto
(12) Almanacco della provincia di Como per l’anno 1841, pp. 145-148, Biblioteca comunale di Como
(13) F. Della Torre di Rezzonico, cit. tomo I, libro terzo
(14) Almanacco della provincia di Como per l’anno 1841, pp. 145-148, Biblioteca comunale di Como
(15) F. Della Torre di Rezzonico, cit. tomo I, libro terzo
(16) Archivio di Stato di Como, f.do prefettura, cart. n.4472
(17) L’infedeltà viene, nella statistica, conteggiata insieme al furto. Tuttavia costituisce una tipologia di reato trattata separatamente, nel codice penale, che costituisce una sorta di appropriazione indebita
(18) C.Cantù, “Grande illustrazione del Lombardo-Veneto”, p. 783, Milano,1858
(19) F. Della Peruta, “Storia dell’ottocento”, p. 110, Firenze,1992
(20) Archivio comunale di Arosio, f.do Carugo-Arosio, cart. n.68
(21) Manuale della provincia di Como per l’anno 1840 (i dati sono riferiti al 1832), pp. 37-38, Biblioteca comunale Como
(22) M. Meriggi, “Amministrazione e classi sociali nel Lombardo Veneto (1814-1848)”, pp. 302-317, Bologna, 1983
(23) Manuale della provincia di Como per l’anno 1840 (i dati sono riferiti al 1839), p. 38, Biblioteca comunale Como
(24) F. Della Torre di Rezzonico, cit. tomo II, libro sesto
(25) ibidem
(26) Ibidem
(27) Ibidem, tomo I, libro secondo
(28) D. Severin, “L’industria serica” pp.107-112
(29) Almanacco della provincia di Como per l’anno 1839, pp.66-75, Biblioteca comunale Como
(30) F. Della Torre di Rezzonico, cit. tomo I, libro terzo
(31) “Cenni statistici sull’agricoltura nella provincia di Como” che offrono un interessantissimo quadro dei movimenti migratori. Archivio di Stato di Milano
(32) C. Volpati, “Da Gravedona a Palermo”,pp.11-12, Biblioteca comunale Como
(33) Un utile contributo è stato fornito da L. Valenti, con il volume “Picapréda l’antico mestiere della lavorazione della pietra in Val d’Intelvi”, Provincia di Como, 2003
(34) F. Della Torre di Rezzonico, cit. tomo I, libro terzo
(35) Ibidem
(36) Ibidem, tomo II, libro ottavo
(37) Archivio di Stato di Como, f.do prefettura, cart. n.1336
(38) Restava inoltre il privilegio della “supplenza”, che finiva con lo scaricare ancor di più sui poveri l’onere di questo gravoso servizio
(39) Archivio di Staro di Como, f.do prefettura, cart. n.1341
(40) C. Cantù, “Storia della città di Como”, p. 364, Como,1829
(41) F. Della Torre di Rezzonico, cit. tomo I, libro terzo
(42) Ibidem, tomo II, libro sesto
(43) S. Monti, “Pagine di storia comasca contemporanea, pp.27-40, in Periodico Società Storica Comense, Como, 1908
(44) Ibidem, pp.22-23
(45) Si veda in particolare L. Gilardoni, “Storia di Bellagio”, pp.69-72, Bellagio, 1988
(46) Si veda in particolare P. Conti, “Memorie storiche della Vall’Intelvi”, pp.114-117, Como, Reprint, 1896
(47) “Pensieri sull’Italia”, Parigi, 1846.
(48) E’ interessante riferire che Fermo Terzi, anni più tardi, avrebbe coadiuvato Carlo Cattaneo, da funzionario,durante i moti milanesi del “48”. Notizia riportata da M. Meriggi in “Amministrazioni e classi sociali..”, op.cit.
(49) M. Meriggi, “Amministrazioni e classi sociali…”, cit. pp.153-158
(50) G. Leopardi, “Dei costumi degli italiani”, Milano, (edizione 2015)
(51) F. Della Torre di Rezzonico,cit. tomo I, libro IV
(52) B. Caizzi, “Il comasco sotto il dominio spagnolo”,Napoli,1980
(53) Quando parliamo di comunità – in una accezione che privilegia l’approccio tecnico di comunità tradizionale, ancora estraneo in un certo modo all’antitesi “comunità-società” elaborata da Ferdinand Tonnies, più adeguata a rappresentare i processi in atto tra fine XIX secolo e XX secolo – intendiamo riferirci, prima di tutto, alla dimensione delle singole aggregazioni territoriali, di norma coincidenti con una amministrazione comunale, ma che più largamente può coincidere anche con le diverse “aree geografiche” che formano la provincia, in ciascuna delle quali siano rintracciabili significativi elementi di omogeneità sociale. Parlare, infine, di una comunità lariana presuppone, crediamo, un approccio che muova, appunto, dalle realtà più piccole, ovvero le comunità nelle quali si svolge una grande parte della vita di uomini e donne.
(54) L. Rovelli, “La società comasca ai tempi di Volta” Como,1945
(55) M. Meriggi, “Amministrazione e classi sociali…”, cit.p.187
(56) Si veda in particolare L.Prosdocimi, “Problemi sulla formazione e sull’ordinamento del territorio di Como”, in Periodico Società Storica Comense., vol.XXXIII, pp.7-34, Como, 1940
(57) F. Della Torre di Rezzonico, cit. tomo I, libro secondo
(58) “Dei costumi degli italiani”,cit.