VIRGINIA WOOLF E I NUOVI SENTIERI DELLE DONNE

 

di Michele Strazza -

Una donna al passo con la modernità, capace di prendere in mano il proprio destino e di indirizzare la società verso una maggiore pace sociale. Per la grande scrittrice inglese, la letteratura e un sano pragmatismo potevano svolgere un ruolo determinante in questa aspirazione.

Virginia Woolf (1882-1941) non è stata soltanto una grande romanziera del ‘900, ma si è anche addentrata, in maniera originale, in analisi e riflessioni sul ruolo della donna, lasciandoci alcuni scritti di fondamentale interesse.
In Una stanza tutta per sé, del 1929, la scrittrice raccoglie due conferenze tenute l’anno precedente alle studentesse di Cambridge.
Partendo dal tema centrale di tali incontri, Le donne e il romanzo?, la Woolf esprime le sue esortazioni alle giovani inglesi e fornisce loro una nuova immagine della donna, non costruita sulla semplice rivendicazione di alcuni diritti, ma sulla figura di una donna in grado di prendere in mano il proprio destino, anche in campo letterario.
Proprio partendo dal concetto di “estraneità” cui vengono tenute tutte le donne, anche quelle colte, all’interno delle istituzioni accademiche britanniche, la scrittrice pone all’uditorio tutta una serie di domande, ripercorrendo le difficoltà incontrate dal sesso femminile nel campo della cultura. Di qui l’esempio tratto dall’invenzione del personaggio della sorella di Shakespeare, Judith, di cui la Woolf si diverte a tracciare la biografia, assurta a simbolo del diverso destino attribuito dalla società al genio femminile. Se, dunque, Shakespeare avesse avuto una sorella, questa non avrebbe mai potuto raggiungere la fama del fratello e, alla fine, si sarebbe suicidata in una sera d’inverno perché – dice la scrittrice – chi può misurare la passione e la violenza del cuore del poeta quando è intrappolato e aggrovigliato nel corpo di una donna? Così continua: «qualunque donna che fosse nata nel Cinquecento con un grande talento sarebbe certamente impazzita, o si sarebbe suicidata, o avrebbe finito i suoi giorni in qualche casupola solitaria fuori del villaggio, mezza strega, mezza maga, temuta e derisa. Perché non è necessario essere esperti psicologi per affermare che una ragazza di grande talento che avesse cercato di mettere in pratica la sua inclinazione per la poesia, sarebbe stata così ostacolata e intralciata dagli altri, così torturata e dilaniata dai propri istinti contraddittori, da perdere sicuramente la salute e il giudizio».

Virginia Woolf con il padre Leslie Stephen

Virginia Woolf con il padre Leslie Stephen

La storia dell’emancipazione femminile – ricorda Woolf – registra invece una importante accelerazione alla fine del XVIII secolo, «quando la donna della classe media cominciò a scrivere» e non soltanto «l’aristocratica solitaria rinchiusa nella sua casa di campagna tra i suoi volumi e i suoi adulatori». Senza quelle “precorritrici” né Jane Austen, né le sorelle Bronte, né George Eliot avrebbero potuto scrivere.
Arriviamo, così, all’800, epoca delle grandi scrittrici, soprattutto di romanzi. Innanzitutto perché il romanzo era un genere abbastanza recente, ma anche perché le donne potevano scrivere, pur con molte interruzioni, nel “soggiorno comune”, stanza che tutte le famiglie della classe media possedevano nelle proprie abitazioni. Cosa scrivevano dunque? Prosa o romanzo, appunto, invece di poesia o drammi che richiedevano maggiore concentrazione.
Dal concetto di “privazione” per la donna la Woolf costruisce la propria riflessione sulla necessità della libertà di pensiero e della disponibilità economica. Il problema della conferenza, quello delle donne e il romanzo, dunque, ha una precisa e concreta risposta: 500 sterline all’anno e una stanza tutta per sé. La stanza tutta per sé diventa il paradigma della libertà mentale delle donne, quella stanza in cui potersi allontanare dalla vita domestica, da quella vita in cui gli uomini ordinano e giudicano.
Del resto, da sempre, l’uomo ha tiranneggiato sulla donna, umiliandola, schiaffeggiandola, rimproverandola e ammonendola: «E qui si tratta ancora di quell’interessantissimo e assai oscuro complesso maschile che ha avuto così tanta influenza sul movimento femminista; quel desiderio profondo, non tanto che lei sia inferiore, quanto che lui sia superiore, che mette l’uomo di guardia dovunque si posi lo sguardo, non solo all’ingresso delle arti, ma a sbarrare anche la strada della politica».
La riflessione della scrittrice è di una originalità disarmante: «La storia dell’opposizione degli uomini all’emancipazione delle donne è più interessante forse della storia di quella stessa emancipazione».
Solo quando le donne, dunque, avranno una stanza tutta per sé, potranno finalmente vivere con se stesse e con il mondo. L’indipendenza materiale come presupposto dell’indipendenza mentale e, perciò, di quella letteraria e professionale. Di qui l’invito alle studentesse di Cambridge ad esplorare il mondo, a scrivere senza alcun timore di ciò che pensano gli altri, ma, soprattutto, a farlo “da donne”, con un proprio linguaggio e su temi di loro interesse, senza sforzarsi di imitare gli scrittori maschili.

Ricorda Virginia Woolf: «Le donne sono state sedute dentro casa per così tanti milioni di anni, che ormai anche i muri sono pervasi della loro energia creativa, la quale, infatti, ha talmente ecceduto la capacità di mattoni e malta che deve necessariamente legarsi alle penne, ai pennelli, agli affari e alla politica. Questa forza creativa, tuttavia, differisce enormemente dalla forza creativa degli uomini. E dobbiamo dedurre che sarebbe un vero peccato se venisse ostacolata o sprecata, perché è stata conquistata con secoli e secoli della più drastica disciplina, e non c’è niente che la possa sostituire. Sarebbe un vero peccato se le donne scrivessero come gli uomini, o vivessero come gli uomini, o somigliassero agli uomini, perché se due sessi non bastano, considerando la vastità e la varietà del mondo, come potremmo cavarcela con uno solo?»
E con queste parole, davvero, Virginia Woolf si incammina, in maniera originale, sulla strada di una conquista femminile che non ripercorre strade già battute dal mondo maschile. L’eguaglianza – sembra dirci – non è omologazione e uniformità, non è accettazione del modello maschile solo perché imitandolo se ne possano condividere i risultati e i vantaggi.
Ecco perché alla fine del saggio la scrittrice ci presenta ancora Judith Shakespeare, simbolo di una poesia femminile costretta a passare di corpo in corpo, abbandonando il proprio, pronta a rinascere, ma soltanto quando le donne avranno raggiunto veramente la propria indipendenza materiale e mentale: «Io credo dunque che questa poetessa che non scrisse mai niente e venne sepolta ad un incrocio, vive ancora. Vive in voi e in me, e in molte altre donne che non sono qui stasera, perché stanno lavando i piatti e mettendo i figli a letto. Ma vive; perché i grandi poeti non muoiono; sono presenze eterne; hanno solo bisogno dell’opportunità di essere di nuovo tra noi, in carne ed ossa. E questa opportunità, credo, avete oggi la facoltà di potergliela offrire. Perché sono convinta che se viviamo un altro secolo – sto parlando della vita comune, che è la vita reale, e non delle piccole vite separate che viviamo come singoli individui – e possediamo cinquecento sterline all’anno, ognuna di noi, e delle stanze tutte per noi; se abbiamo la consuetudine della libertà e il coraggio di scrivere esattamente quello che pensiamo; se evadiamo per un po’dal soggiorno comune e consideriamo gli esseri umani non sempre in relazione l’uno con l’altro, ma in relazione con la realtà; […] allora questa opportunità si presenterà, e la poetessa morta, sorella di Shakespeare, rianimerà quel corpo che ha così spesso abbandonato. Attingendo la sua vita dalle vite di quelle sconosciute che l’hanno preceduta, come prima di lei ha fatto suo fratello, ella verrà alla luce».

Quasi un decennio dopo, alla vigilia dello scoppio del secondo conflitto mondiale, Virginia Woolf ritorna su queste tematiche in Le tre ghinee. Iniziato alla fine del 1936 e completato nella primavera del 1938, il saggio è occasionato da una lettera che la scrittrice riceve da un avvocato pacifista riguardo a cosa fare per prevenire la guerra. Le iniziative suggerite dalla lettera sono sostanzialmente tre: scrivere sulla stampa a favore dell’associazione pacifista, iscriversi a questa o fare una donazione in denaro.
La Woolf, avendo a propria disposizione tre ghinee, si accinge a spiegare come utilizzarle. Di qui un libro composto di tre capitoli, uno per ogni ghinea.
Riprendendo molte delle riflessioni espresse in Una stanza tutta per sé, la romanziera si accinge ad una profonda critica della logica maschile sottesa alla richiesta dell’avvocato, contrapponendo una logica opposta, quella delle donne, la quale costituirà il metro di giudizio per la destinazione del denaro.
Il primo capitolo parte dalla consapevolezza che «le figlie degli uomini colti» hanno ormai una situazione diversa da quelle precedenti le conquiste delle donne in campo economico e sociale, avendo acquisito quella libertà di pensiero che spiega il perché ci si rivolga a loro per un intervento contro la guerra.
In realtà – afferma la scrittrice – combattere è sempre stata un’abitudine dell’uomo, non della donna, un’espressione del predominio maschile, di un tipo di istruzione e di cultura profondamente lontani dalla sensibilità femminile. Per questo motivo la prima ghinea andrà ad un’altra richiesta pervenutagli per la ricostruzione di un “college” per ragazze, ma ad una precisa condizione: quella di una struttura educativa che non ricalchi quelle maschili, più ricche e fondate proprio sulla cultura che produce le guerre. Scrive l’autrice: «… cosa si dovrà insegnare nel college nuovo, nel college povero? Certo non l’arte di dominare sugli altri; non l’arte di governare, di uccidere, di accumulare terra e capitale. […] Nel college povero si dovranno insegnare solo le arti che si possono insegnare con poca spesa e che possono essere esercitate da gente povera: la medicina, la matematica, la musica, la pittura, la letteratura. E l’arte dei rapporti umani; l’arte di comprendere la vita e la mente degli altri, insieme alle arti minori che le completano: l’arte di conversare, di vestire, di cucinare. Lo scopo nel nuovo college, del college povero, dovrebbe essere non di segregare e di specializzare, ma di integrare».
Solo con un capovolgimento di valori, dunque, può nascere una vera cultura pacifista. Solo sostituendo il sistema di valori maschilista e patriarcale dominante con quello proposto dalle donne si potranno evitare i conflitti. Solo in tal modo, inoltre, puntualizza la Woolf, le donne non andranno più, come nella prima guerra mondiale, ad arruolarsi volontarie nei servizi ausiliari, pur di lasciare la casa paterna. Solo con una istruzione diversa si potrà cambiare la realtà: «Nell’attuale stato di cose, la maniera più efficace per prevenire la guerra, attraverso l’istruzione, è di contribuire il più generosamente possibile ai college per le figlie degli uomini colti. Perché, ripetiamo, se queste donne non riceveranno un’istruzione universitaria, non potranno guadagnarsi da vivere; se non saranno in grado di guadagnarsi da vivere, torneranno a essere educate entro i confini angusti della casa paterna e finiranno quindi, ancora una volta, per esercitare tutta la loro influenza, consciamente o inconsciamente, in favore della guerra».

In riferimento all’utilizzo della seconda ghinea, viene esaminata la richiesta di una associazione di assistenza e preparazione professionale alle donne che intendano inserirsi nel mondo del lavoro.
La scrittrice contesta, innanzitutto, l’affermazione del filosofo Cyril Edwin Mitchinson Joad secondo cui le associazioni femminili, pur avendo usufruito di finanziamenti pubblici, e nonostante il diritto di voto, non avevano ottenuto la fine delle guerre. Utilizzando importanti dati statistici, la Woolf, dimostra l’infondatezza delle accuse, rilevando come i finanziamenti concessi alle associazioni di donne fossero irrilevanti rispetto a quelli usufruiti dai movimenti politici maschili. Passa, poi, ad analizzare accuratamente il rapporto tra donne e lavoro, precisando l’esclusione di queste dalle occupazioni più redditizie, nonché la stessa disparità dei salari, ampiamente praticata nella società inglese.
Eppure, anche in questo caso, la scrittrice non accetta una logica semplicemente emancipazionista che porterebbe le donne verso la conquista dei posti maschili così come gli uomini li hanno costruiti, ritornando ad appoggiare quella cultura della guerra che, invece, si vuole combattere. Come per l’istruzione, dunque, anche per il lavoro è necessario distinguersi. Come possiamo intraprendere quelle professioni – si interroga – e tuttavia rimanere esseri umani civili, esseri umani che vogliono evitare le guerre?
Per tutte queste motivazioni, la seconda ghinea viene assegnata all’associazione femminile affinché venga spesa per la causa della pace.

L’ultimo capitolo contiene le conclusioni che Virginia Woolf vuole indicare ai lettori.
Ritornando all’azione concreta affinché le “figlie degli uomini colti” possano impegnarsi a scongiurare un futuro conflitto, puntualizza come la pace costituisca una derivazione diretta della cultura e della libertà di pensiero. Sono, allora, questi mezzi, insieme all’istruzione e al lavoro, concepiti in modo diverso da quelli maschili, a consentire alle donne la costruzione di quello che potremmo definire oggi come un “nuovo sistema di valori”, senza alcuna adulterazione della verità. Perché, ricorda l’autrice, «vendere il cervello è peggio che vendere il corpo, perché quando la venditrice del corpo ha venduto il suo momentaneo piacere fa in modo che la cosa finisca lì. Ma quando la venditrice del cervello ha venduto il proprio cervello, la sua anemica, maligna, appestata progenie invade al mondo a contagiare, a corrompere, a seminare il morbo negli altri».
Ecco perché non ha senso neanche l’altro suggerimento dato dall’avvocato, cioè quello di scrivere sulla stampa per difendere la cultura e la libertà di pensiero, cultura e libertà di pensiero che, come già detto, la Woolf contesta in quanto pervase dall’impronta maschile: «L’unico modo in cui possiamo aiutarvi a difendere la cultura e la libertà di pensiero è difendere la nostra cultura e la nostra libertà di pensiero. Vale a dire che, quando da un college femminile ci scrivono chiedendoci quattrini, possiamo far presente la possibilità che qualcosa cambi in quell’istituzione satellite quando essa cessi di essere satellite; oppure, se da un’associazione che aiuta le donne a trovare impiego ci scrivono chiedendoci quattrini, possiamo far presente che nell’interesse della cultura e della libertà di pensiero sarebbe auspicabile qualche cambiamento nel modo di esercitare le libere professioni».
In realtà, è proprio la nuova condizione di indipendenza delle “figlie degli uomini colti” a consentire loro di aiutare gli uomini nelle difficili situazioni di discriminazione politica e razziale in cui si trovano in diverse parti d’Europa, ricordando proprio l’emarginazione cui le donne sono state sottoposte per secoli: «Ora voi provate sulla vostra persona quello che hanno provato le vostre madri quando furono escluse, quando furono imprigionate perché erano donne. Ora voi siete esclusi, ora voi siete imprigionati, perché siete ebrei, perché siete democratici, per ragioni razziali, per ragioni religiose. Non è una fotografia quella che vi sta davanti; siete voi stessi, che arrancate in fila. Allora tutto cambia. Ora vi appare evidente in tutto il suo orrore l’iniquità della dittatura, non importa dove, se a Oxford o a Cambridge, a Whitehall o a Downing Street, in Inghilterra o in Germania, in Italia o in Spagna; non importa contro chi, se contro gli ebrei o contro le donne. Ma oggi lottiamo fianco a fianco. Le figlie e i figli degli uomini colti oggi lottano uniti».

Nonostante questa comunanza di lotta, però, restano sempre chiare le ragioni della differenza che impediscono alle donne di iscriversi alle associazioni maschili: «E diversi lo siamo, come hanno dimostrato i fatti, e per sesso e per educazione. E da quella differenza, ancora una volta, che può venirvi l’aiuto, se aiutarvi possiamo, per difendere la libertà, per prevenire la guerra».
Da queste differenze nasce, perciò, l’esigenza di un associazionismo tipicamente femminile, con caratteristiche e regole diverse dalle associazioni maschili, senza tesorieri, fondi, sedi o segreterie: «non convocherà riunioni, non organizzerà convegni. Se un nome dovrà avere, la si potrà chiamare la Società delle Estranee».
E quali sono gli impegni di tale Società? Quello di non combattere mai con le armi, oltre a quello di astenersi, durante eventuali conflitti, dal lavoro nelle fabbriche di munizioni, dalle attività da infermiere e al rigetto di qualsiasi tipo di patriottismo.
E poi, ancora, quello di mantenersi estranee, cioè di impegnarsi a «non incitare i fratelli a combattere, e neppure cercare di dissuaderli, bensì mantenere un atteggiamento di totale indifferenza».
Tale “estraneità” alle strutture della società diventa una vera e propria azione di resistenza passiva perché «dimostra che essere passive vuol dire essere attive; che anche chi rimane al di fuori è utile. Facendo sentire la loro assenza, le estranee rendono desiderabile la loro presenza».
Pur avendo gli stessi obiettivi di libertà, uguaglianza e pace delle associazioni maschili, questa Società cercherà di raggiungerli in modo profondamente diverso: «con i mezzi che un sesso diverso, una tradizione diversa, un’educazione diversa e i diversi valori che derivano da tutte queste diversità hanno messo a nostra disposizione. In generale possiamo dire che la principale differenza tra noi che siamo fuori dalla società e voi che siete dentro la società consiste in questo: che voi utilizzerete i mezzi che la vostra posizione vi offre: leghe, convegni, campagne, grossi nomi e tutte le misure pubbliche che la ricchezza e il potere politico vi mettono a disposizione, mentre noi, restandocene fuori, faremo degli esperimenti non con strumenti pubblici in pubblico, ma con strumenti privati in privato».

Del resto, per Virginia Woolf non cambia il giudizio negativo sulla società maschile che ha generato la guerra: «Non possiamo non pensare che le società sono congiure che soffocano il fratello privato che molte di noi hanno motivo di rispettare, e generano al suo posto un maschio mostruoso, dalla voce prepotente, dal pugno duro, puerilmente intento a tracciare cerchi di gesso sulla superficie della terra entro i quali vengono ammassati gli esseri umani, rigidamente, separatamente, artificialmente; dove dipinto di rosso e di oro, adorno come un selvaggio di piume, nostro fratello consuma mistici riti e assapora il dubbio piacere del potere e del dominio, mentre noi, le “sue” donne, siamo chiuse a chiave tra le pareti domestiche, senza spazio alcuno nelle molte società di cui la società si compone».
La conclusione di Virginia Woolf è, dunque, sì, quella di destinare la terza ghinea all’associazione maschile contraria alla guerra, ma senza iscriversi ad essa: «il modo migliore per aiutarvi a prevenire la guerra non è di ripetere le vostre parole e seguire i vostri metodi, ma di trovare nuove parole e inventare nuovi metodi».
Ed è proprio questa la vera missione delle donne in una società per lungo tempo dominata dall’uomo. Non quella di sostituirli nei posti di potere, non quella di occuparne semplicemente le postazioni professionali, ma di costruire un nuovo “sistema di valori”, di inventare metodi alternativi, persino di usare un linguaggio diverso. La vera emancipazione femminile, per Virginia Woolf, non passa affatto per l’omologazione, ma per la valorizzazione delle differenze, perché, solo con esse, si arricchisce il mondo.

Per saperne di più
Woolf V., A Room of One’s Own, London, Hogarth Press, 1929 (edizione italiana Woolf V., Una stanza tutta per sé, trad. di Graziella Mistrulli, Rimini, Guaraldi, 1995.
Woolf V., Three Guineas, London, Hogarth Press, 1938 (edizione italiana Woolf V., Le tre ghinee, trad. di Adriana Bottini, Milano, Feltrinelli, 1980.