VENTI ANNI FA IL GENOCIDIO IN RWANDA

di Michele Strazza -

Tra la primavera e l’estate del 1994 il pluridecennale odio etnico tra la popolazione Hutu, alla guida del Paese, e i Tutsi, una minoranza nomade dedita alla pastorizia, sfociò nell’ultimo  genocidio del XX secolo. Le grandi potenze e l’ONU nulla fecero per fermare un massacro che costò la vita a oltre un milione di persone.

Venti anni fa, nel 1994, in Rwanda si consumò uno dei peggiori genocidi del XX secolo con il massacro di oltre un milione di persone.
Già dai tempi dell’indipendenza del 1962 lo Stato africano aveva vissuto episodi di violenza dovuta agli scontri etnici. I due principali gruppi etnici erano i Tutsi, prevalentemente pastori e allevatori, conosciuti con il nome di Watussi, e gli Hutu, dediti all’agricoltura e conosciuti con il nome di Wahutu. Minoritari erano, invece, i Twa, i pigmei originari, cacciatori e artigiani, conosciuti come Watwa.
Raggiunta l’indipendenza, abolita la monarchia ed instaurata la repubblica, il nuovo governo, monopolizzato dagli Hutu promosse una politica razzista nei confronti dei Tutsi che generò decine di migliaia di morti e centinaia di migliaia di profughi.
La situazione non cambiò, dopo il 1973, con il colpo di Stato del generale Juvenal Habyarinama. Nel 1987 i Tutsi si riorganizzarono nel Fronte Patriottico Ruandese (FPR), con l’obiettivo di favorire il rientro dei profughi e di prendere il potere. La successiva crisi economica, gli scontri interni e le pressioni internazionali, soprattutto francesi, portarono il presidente Habyarimana ad annunciare nel 1990 l’abolizione del sistema a partito unico e a promulgare l’anno dopo una nuova Costituzione. Ma le violenze, messe in atto da entrambe le parti, non cessarono. Solo il 4 agosto 1993 vennero firmati gli “Accordi di Arusha” che prevedevano il rientro dei profughi Tutsi e la divisione del potere tra le due etnie.

Il presidente Juvénal Habyarimana

Il presidente Juvénal Habyarimana

A garantire l’adempimento degli impegni, ad ottobre l’ONU inviò la “United Nations Assistance Mission for Ruanda” (UNAMIR). I 2.500 Caschi Blu che ne facevano parte operarono inutilmente per la pacificazione: gli scontri aumentarono e dieci soldati belgi vennero uccisi.
Il 6 aprile 1994 l’aereo presidenziale di Juvénal Habyarimana venne abbattuto da un missile. Numerose le ipotesi sulla responsabilità dell’attentato: tra queste, una rimanda a gruppi estremisti dello stesso partito presidenziale che non accettavano gli accordi di Arusha.
Il giorno successivo, nella capitale Kigali e nelle zone sottoposte al controllo dell’esercito ruandese, con il pretesto della vendetta si scatenarono una serie di massacri contro la popolazione tutsi e gli oppositori interni hutu. L’inizio delle stragi venne dato dalla radio estremista RTLM il cui speaker Kantano esortò a “uccidere gli scarafaggi Tutsi”.
Il 21 aprile, con la risoluzione 912, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, per evitare l’uccisioni di altri Caschi Blu, ridusse il contingente ONU a soli 270 militari canadesi, al comando del generale Romeo Dallaire. Il 17 maggio (risoluzione 918) si ampliò il mandato dell’UNAMIR con l’aumento del contingente e la protezione dei rifugiati, ma il dispiegamento delle forze non sarebbe avvenuto prima di luglio. Il 22 giugno (risoluzione 929) si autorizzarono gli Stati membri a condurre le operazioni militari necessarie.

Dopo i rifiuti di vari Stati, la Francia decise di intervenire da sola avviando l’operazione “Turquoise” (23 giugno-21 agosto 1994) per portare in salvo i propri cittadini e per creare un corridoio umanitario nel Rwanda sudoccidentale (come suggerito dalla Santa Sede), al fine di costituire una zona protetta per i profughi. Sulla missione francese si addensarono però forti dubbi. Il governo di Parigi era infatti uno dei maggiori alleati del governo di Habyarimana e dal corridoio riuscirono a fuggire numerosi responsabili del genocidio.
Il risultato fu che il Rwanda, in pratica, fu abbandonato al proprio destino dalla comunità internazionale. Per 100 giorni il Paese africano divenne un lago di sangue. Prima fu compilata una lista di 1.500 oppositori da eliminare. Poi, i miliziani hutu irregolari, i famigerati “Interahamwe” armati di machete, istituirono dei blocchi stradali in tutto il Paese per identificare i Tutsi, che una volta individuati venivano uccisi con ogni tipo di arma. A sostenere il massacro contribuì Radio “Mille Colline” che esultava alle notizie delle carneficine.
Le stragi furono innumerevoli. Nella chiesa di Nyamata vennero stipate 2.500 persone, per lo più donne e bambini, e poi uccise con il lancio di bombe a mano. Nella scuola di Murami si calcola che vennero massacrate oltre 27.000 persone.

Resti delle vittime nel Nyamata Genocide Memorial - Fanny Schertzer

Resti delle vittime nel Nyamata Genocide Memorial – Fanny Schertzer

Riorganizzatisi, i Tutsi e l’FPR passarono al contrattacco e a luglio presero il potere costringendo due milioni di Hutu a fuggire per paura della vendetta. Tra di loro anche gli autori delle stragi.
Quando entrò in funzione l’International Criminal Tribunal for Rwanda (ICTR), istituito dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU (risoluzione 955 dell’8 novembre 1994) ad Arusha, in Tanzania, apparve subito evidente che le violenze non si erano limitate ai massacri: anche centinaia di migliaia di donne, dalle 250.000 alle 500.000, erano state stuprate. Si trattava di donne tutsi dell’etnia nemica o anche di donne hutu che avevano sposato uomini tutsi ed erano incinte di bambini ritenuti anch’essi tutsi. Le vittime venivano spesso uccise dopo le violenze ripetutamente commesse da più aggressori. La violenza in genere era eseguita in pubblico per terrorizzare maggiormente ed umiliare le vittime. Il resto l’avrebbe fatto l’AIDS di cui si ammalò il 70% delle donne.
Le cifre del genocidio furono drammatiche. Il governo ruandese riferì di 1.174.000 persone uccise su una popolazione di 7.300.000 abitanti, di cui l’84% Hutu, il 15% Tutsi e l’1% Twa. I Tutsi sopravvissuti furono solo 300.000. Secondo le stime dell’UNICEF il genocidio e gli effetti dell’AIDS hanno provocato circa un milione di orfani.
Nonostante l’impegno dell’International Criminal Tribunal for Rwanda, non furono molti i responsabili dei massacri ad essere stati condannati.

 

Per saperne di più
P. Costa e L. Scalettari, La lista del console. Ruanda: cento giorni un milione di morti - Milano, Edizioni Paoline, 2004
M. Fusaschi, Hutu-Tutsi: alle radici del genocidio rwandeseTorino, Bollati Boringhieri, 2000
M. Fusaschi (a cura di), Rwanda: etnografie del post-genocidio - Roma, Meltemi, 2009
G. Prunier, The Rwanda Crisis. History of a Genocide - London, Hurst & Company, 1997
I. Soi, Il genocidio in Rwanda. Da guerra civile a guerra regionale - “Storicamente”, n. 6, 2010
Umwantisi (Mainardo Benardelli), La Guerra Civile in Rwanda - Milano, Franco Angeli, 1997