VECCHI E NUOVI LAGER DOPO IL NAZISMO

di Renzo Paternoster -

 

 

All’indomani della Seconda guerra mondiale gli Alleati non esitarono a “convertire” i lager nazisti in campi di internamento e concentramento per nemici: non solo tedeschi, ma anche comunisti o anticomunisti, a seconda del regime di occupazione.

 

Finita la Seconda Guerra Mondiale, gli Alleati attuano una politica di occupazione molto repressiva. In questo modo i tanto condannati lager nazisti diventano un espediente per continuare la guerra con altri mezzi. Così, nell’Europa avviata alla Guerra fredda, in un clima di profonda miseria morale, se ai criminali nazisti e fascisti più utili alla propria causa (specialmente scienziati) fu offerta amnistia e protezione, a patto di una loro collaborazione per scopi militari e nello spionaggio, l’atteggiamento riservato ai prigionieri tedeschi “comuni” non può non risentire del comportamento adottato da questi durante la guerra, diventando del tutto speculare. Non si trattò tuttavia solo del problema della sistemazione dei numerosi nazisti catturati, ma anche di gestione politica dei territori occupati.
Cambiano dunque i carcerieri. Non più nazisti, ma inglesi, statunitensi, sovietici. Cambiano dunque anche i prigionieri. Non più ebrei, “zingari”, omosessuali, ma comunisti o anticomunisti, secondo la logica di uno dei due campi ideologici.
Così, dallo sbarco in Normandia, che inizia nelle prime ore del 6 giugno 1944, e durante la sua avanzata, l’esercito statunitense raduna i tedeschi catturati nei Prisoner of War Temporary Enclosures, campi temporanei per prigionieri di guerra. Con la resa dei tede­schi agli anglo–americani il numero dei prigionieri aumenta ver­tiginosamente. Gli Alleati occidentali ritengono pra­tico riav­viare anche i vecchi campi nazisti. Lo stesso accadde nel settore sovie­tico, dove si riorganizzano gli ex campi nazisti, trasformandoli in Speziallager.

Un rheinwiesenlager gestito dagli alleati occidentali.

Un rheinwiesenlager gestito dagli alleati occidentali.

Nel campo occidentale, se per i tedeschi imprigionati in Patria il trattamento è rispettoso della Convenzione di Vienna sui prigionieri di guerra, per quelli internati in Europa è punitivo.
La politica di internamento in Europa degli ex nazisti da parte degli alleati occidentali è condotta con assoluta discrezione e interessa tre aree: il territorio propriamente francese, la zona di confine tra la Francia e la Germania adiacente la riva sinistra del fiume Reno, la zona di occupazione anglo-statunitense nei territori tedeschi dell’ex Reich (Baden-Württemberg, Baviera, parte dell’Assia per gli statunitensi; Schleswig-Holstein, Amburgo, Bassa Sassonia e Renania Settentrionale-Vestfalia, per i britannici).
Gli alleati occidentali non solo riutilizzano ex campi nazisti, ma adattano a luoghi di prigionia anche edifici già esistenti, come ex caserme o fabbriche dismesse, oppure erigono nuovi zone di prigionia con attendamenti e baraccamenti di fortuna. Lo stesso fanno per i prigionieri italiani della Repubblica Sociale Italiana. I maggiori di questi campi si trovano a Coltano (Pisa), Miramare (Rimini), Collescipoli (Terni), Sant’Andrea di Taranto.
La condizione detentiva in Europa fu diversa secondo la localizzazione: nei campi situati in territorio francese (Prisoner of War Temporary Enclosures) e nei campi della zona di occupazione militare occidentale ubicata al confine tra la Francia e la Germania adiacente la riva sinistra del fiume Reno (Rheinwiesenlager), l’internamento fu molto più terribile e mortifero, rispetto a quelli in seguito stabiliti nella zona di occupazione nei territori tedeschi dell’ex Reich.
I Prisoner of War Temporary Enclosures e i Rheinwiesenlager sono infatti semplicemente distese di prati recintati da filo spinato, ubicati generalmente ai margini di un collegamento ferroviario, senza alcuna struttura di accoglienza, dove gli internati sono lasciati soli a sé stessi, senza alcuni riparo, privi di cure mediche, con pochissimo cibo e per molti giorni senz’acqua. È pure vietato a chiunque di portare viveri agli internati, anzi dar da mangiare ai prigionieri diviene un crimine capitale [Bacque, 1989]: «Il generale Eisenhower inviò un ‘corriere urgente’ per tutta la vasta area ai suoi ordini dichiarando che per i civili tedeschi era un reato punibile con la morte dar da mangiare ai prigionieri. Ed era un reato da pena di morte anche accumulare del cibo in qualche luogo per portarlo ai prigionieri [Bacque, 1997].
Per aggirare la Convenzione di Vienna del 1929, lo Stato maggiore dell’esercito statunitense riclassifica i prigionieri di guerra tedeschi catturati dopo la capitolazione del Terzo Reich. Così se i tedeschi catturati prima della resa sono Prisoners of War (POWs), quindi tutelati dalla Convenzione del 1929, quelli catturati dopo la resa acquistano il nuovo status di Disarmed Enemy Forces (DEFs – forze nemiche disarmate), ossia prigionieri non soggetti alle tutele giuridiche internazionali.
Anche i britannici, pure loro in violazione della Convenzione di Vienna, adottano la distinzione tra tedeschi catturati prima della resa e quelli arrestati dopo. Quest’ultimi sono definiti Surrendered Enemy Personnel (SEPs – truppe nemiche arrese).
La sospensione della Convenzione di Vienna sul trattamento dei prigionieri di guerra, assicura agli Alleati occidentali l’esenzione delle ispezioni della Croce Rossa Internazionale.

Il centro interrogatori britannico di Bad Nenndorf.

Il centro interrogatori britannico di Bad Nenndorf.

Oltre ai campi di prigionia militare, gli inglesi istituiscono anche centri inquisitori segreti per ex membri del Partito Nazionalsocialista Tedesco. Ubicati in Inghilterra e nella zona di occupazione britannica, questi luoghi sono gestiti dal Combined Services Detailed Interrogation Centre (CSDIC), una divisione del Ministero della Guerra.
In Inghilterra i più terribili sono la London Cage (Gab­bia di Londra) e il Camp 020. La London Cage è situata in Kensington Palace Gardens, una strada nella zona ovest di Londra. È un piccolo edificio con una capienza di sessanta prigionieri e con cinque stanze, in cui uomini dei servizi segreti, coadiuvati da interpreti, estorcono informazioni con l’utilizzo della tortura. Il Camp 020 è invece sistemato nella Latchmere House, quartiere londinese di Richmond upon Thames, con trenta camere trasformate in celle e dotate di microfoni nascosti, una stanza di punizione e altre per interrogare sempre con l’utilizzo della tortura. Il peggiore di questi centri si trova sul continente europeo nella zona di occupazione britannica, a Wincklerbad, nei pressi di Bad Nen­n­dorf, vicino Hannover. Questo centro funziona dal 1945 e per due anni, “ospitando” presumibilmente 372 uomini e 44 donne.
Quando l’alleanza antinazista tra i governi statunitense, britannico e sovietico inizia a mostrare le prime crepe, USA e Gran Bretagna abbandonano la denazificazione dei territori tedeschi da loro occupati, convogliando le loro energie nella lotta al comunismo in funzione antisovietica.
Così, tutti i campi anglo-statunitensi iniziano a svuotarsi, liberando dapprima prigionieri ritenuti meno compromessi con il nazismo. I terribili centri inquisitori, invece, iniziano a “ospitare” presunti filosovietici. Dunque i crudeli nemici di ieri diventano buoni amici e gli ormai ex alleati pericolosi rivali.

Anche i sovietici nella loro zona di occupazione riavviano gli ex lager o creano nuovi luoghi di concentramento per imprigionare soldati nazisti catturati durante la guerra. Con la direttiva numero 00315 si dispo­ne anche l’arresto e l’internamento di tutti gli attivisti, collaborazionisti, spie e agenti del nazismo, assieme a tutti gli elementi ostili all’Unione Sovietica. Quindi è istituito l’Abteilung Speziallager des NKVD der UdSSR in Deutschland (Dipartimento dei campi spe­ciali del Commissariato del Popolo per gli Affari interni in Ter­ri­torio Tedesco dell’URSS), con a capo il colonnello-generale Ivan Serov.
I primi campi sovietici sono istituti ancor prima del termine del conflitto mondiale, nelle regioni via via occupate dai soldati dell’Ar­ma­ta Rossa.
Alcuni di questi campi sono temporanei e smantellati pochi mesi dopo. Tra questi ci sono il campo di Posen, nel sobborgo di Sankt Lazarus, funzionante da aprile 1945 a dicembre 1945; il campo di raccolta e di transito di Landsberg, operativo da giugno 1945 a gennaio 1946; il campo di raccolta per profughi e prigionieri di guerra di Graudenz, attivo da novembre 1945 a febbraio 1946; il campo di Weesow, il primo istituito subito dopo l’ingresso delle truppe sovietiche in sei fattorie del villaggio Werneuchen, in funzione da maggio 1945 ad agosto 1946. Altri passano sotto l’amministrazione po­lac­ca. Tra questi il crudele campo di Oppeln, aperto nel giugno 1945 e passato ufficialmente nell’inverno dello stesso anno sotto la nuova Amministrazione di Varsavia.
In quella che poi diverrà Repubblica Democratica Tedesca, i sovietici riutilizzano alcuni ex lager, vecchi penitenziari o luoghi militari nazisti. Chiamati dai tedeschi Speziallager o in russo Spezlag (Campo speciale), a ciascuno di essi il “Dipartimento dei Campi speciali della NKVD dell’URSS in Germania” assegna un numero di identificazione. Così c’è lo Speziallager nr. 1, vecchio campo tedesco per prigionieri di guerra ubi­cato a circa quattro chilometri a Nord–Est della città di Mühl­berg sull’Elba; lo Speziallager nr. 2, l’ex lager di Buchenwald che conserva il motto sui cancelli: “Jedem das Seine” (A ciascuno il suo).
Tutti gli Speziallager hanno un’amministrazione e un servizio di polizia tedesche, ma il comando è sovietico. Il regime di detenzione è punitivo. Sino alla fine del 1947 le condizioni di detenzione sono di gran lunga le peggiori. Un certo ammor­bi­dimento delle condizioni di detenzione è compiuto a partire dall’ottobre 1947, grazie all’interessamento dei vescovi cattolici e dei pastori evangelici.
Nell’ottobre del 1948, con la deportazione in URSS di molti internati e, assieme, con la liberazione di quelli condannati a pene minori, l’apparato concentrazionario della Germania Est è rivisto e molti campi sono chiusi. Solamente tre rimangono in piena attività con una nuova numerazione (1-3), Sachsen­hau­sen, Buchenwald e Bautzen. Entro marzo del 1950 anche questi sono chiusi e tutti gli internati sono smistati in prigioni della Stasi (Stasi-Knast), penitenziari (Zuchthäuser), carceri (Gefän­gnisse), istituti di prigionia preventiva (Untersuchungs-Haftan­stalte), case di correzione giovanile (Jugendhäuser) e ospedali di detenzione (Haftkrankenhàuser).
Nei primi mesi del 1951, i sovietici passano le com­pe­tenze di questi campi al “Ministero per la Sicurezza di Stato della DDR” (Stasi), rima­nendo tuttavia sotto tutela della “Com­mis­­sione Sovietica di Con­trollo in Germania”.

In Polonia, finita la guerra, il filosovietico “Go­verno Provvisorio di Unità Nazionale”, appoggiato, protetto e guidato dal potente “Commissariato del popolo per gli affari interni” sovietico (NKVD), organizza lo Stato polacco. Oltre alla “polo­niz­za­zione” del nuovo Stato, alla crea­zione di una specifica eco­no­mia nazio­nale di stampo socialista, si provvede a internare nazisti, criminali economici e tutti gli elementi rite­nuti ostili al socialismo (e all’URSS). I primi a essere internati, dopo i prigionieri di guerra, sono i partigiani dell’Armia Krajowa (Esercito nazio­nale, il grande movimento di resi­stenza armata an­ti­nazista e anticomunista polacco).
Dal 1944 e fino al 1950 in Polonia, oltre ai “campi selvaggi” istituiti provvisoriamente durante la guerra e le prime fasi del dopoguerra, sono attivi duecentosei fra campi penali, di detenzione, di lavoro, di espulsione e rimpatrio, di prigionieri di guerra e colonie agricole. Fra questi, alcuni sono ex lager nazisti, come i campi di Majdanek, Skrobów e Jaworz­no. Altri sono ex caserme, fabbriche in rovina, ex monasteri diroccati. Molti di questi campi sono creati dall’Armata Rossa, altri dipendono dagli uffici di Pubblica Sicurezza provinciali e comunali. La maggior parte di questi campi si trovano in Slesia, regione al confine tra Germania e Repubblica Ceca.
Molti campi della prima ora sono affidati a ex deportati ebrei polacchi, entrati a far parte dell’Uffi­cio per la Sicurezza dello Stato nella Polonia occupata dalle trup­pe sovietiche.
Dopo la prima fase caotica, il Ministerstwo Bezpieczeństwa Publicznego (Ministero della Sicurezza Pubblica), isti­tuito il 1° gennaio 1945, crea al suo interno un dipartimento delle prigioni e dei campi.
Gli internati dei vari campi di lavoro sono impiegati nelle miniere, nella ricostruzione di strade e ponti, nella realizzazione di edifici per finalità pubbliche. Il lavoro forzato è visto come un procedimento per la rieducazione politica e sociale dei po­lacchi, ma anche come un criterio vendicativo e di risar­cimento applicato ai tedeschi, responsabili dei danni subiti dalla Polonia durante l’occu­pa­zione e la guerra d’aggressione nazista.
L’architettura di questi campi è quella classica: recinzione con filo spinato, torrette di guardia, misere baracche come allog­gi, latrine comuni. La fer­rea disciplina, l’eccessivo numero dei detenuti, le insuffi­cienti razioni alimen­tari, il duro lavoro e il comporta­mento sadico e vendicativo dei car­ce­rieri de­ter­mina­no un alto tasso di mortalità.

Il campo cecoslovacco di Vojna Lešetice.

Il campo cecoslovacco di Vojna Lešetice.

In Cecoslovacchia, già nel periodo di tran­sizione tra la liberazione dai nazisti e l’instaurazione di una de­mo­crazia popolare, si aprirono campi per i prigionieri nazisti, per i civili tedeschi residenti nel Paese e per i collabora­zio­nisti (o presunti tali).
Secondo la qualità degli internati, in Cecoslovacchia ci sono tre tipi di campi: di prigionia di guerra e di concentramento e lavoro for­zato, per ex nazisti, traditori e colla­borazio­nisti (tra cui i tedeschi dei Sudeti); di internamento con lavoro correzionale, per i cittadini cechi e slovacchi accusati di essere “capitalisti reazionari”, speculatori economici, insudiciatori della “morale del lavoro”, persone “inaffidabili per lo Stato”, oppositori politici, religiosi.
Lo spirito di vendetta, la più totale impreparazione, lo sfruttamento nei lavori pesanti e l’insufficienza di cibo, determinano un alto tasso di mor­talità tra i prigionieri.
A seguito del colpo di Stato comunista (febbraio del 1948) i cosiddetti “nemici del popolo” e tutti gli elementi dissidenti diventano gli “ospiti” speciali di questi campi che si chiamano Práce Tabory Nucené (campi di lavoro coatto). Il 25 ottobre 1948, con la Legge nr. 247, il sistema di internamento è disciplinato: da punitiva la detenzione diventa di lavoro disciplinare a beneficio dell’intera collettività. Per questo all’ingresso del campo di Vojna-Lešetice, a cinque chilo­metri da Pribram nella Boemia centrale, domina un cartello con la scritta Prací ke svobodě, “Lavoro per la libertà”.
Le con­di­zioni di vita dei detenuti tut­tavia variano secondo le motiva­zioni dell’inter­na­mento, i tipi di lavoro e la linea adottata dalla dire­zione del campo. Questi campi sono istituiti e amministrati inizialmente dal Mi­ni­stero degli Interni che, secondo le necessità, può tra­sfe­rire questa competenza ai Comitati Nazionali Distrettuali.
A seguito dell’emanazione della Legge 217, approvata dal Parlamento il 14 ottobre 1949, sono istituiti anche luoghi di internamento per religiosi, tutti accusati di svol­gere attività poli­tica per conto di potenze straniere ostili alla Re­pub­blica. Alcuni monasteri utiliz­zati come luo­ghi di interna­mento e di rieducazione.
Nel 1951 molti campi sono chiusi e gli internati accorpati nei campi più grandi. In seguito la denominazione dei campi cambia in Campi di Lavoro Penali (Trestanecké Pracovní Tábory), Unità di Lavoro Carceraria (Pracovní útvary Vězňů), Unità di Lavoro Punitiva (Pracovní útvary Potrestaných), Unità di Lavoro Penale (Pracovní útvary Odsouzených). So­stan­­­­zialmente variano solo i nomi, ma non le condizioni di in­ter­­namento. Dal 1954 tutti i campi di lavoro hanno una deno­minazione comune: Campi di Lavoro Correttivi (Nápravně Pra­covní Tábory). L’ultimo campo di lavoro è chiuso uffi­­­­cial­mente nel 1956, mentre i campi-miniera sono comple­ta­mente aboliti solo nel 1961.

La prigione di Pitesti, oggi memoriale.

La prigione di Pitesti, oggi memoriale.

Anche in Romania, Ungheria, Bulgaria e Albania sono riadattati alcuni ex campi di prigionia utilizzati durante la guerra. A questi, poi, se ne aggiungono altri creati ad hoc.
In Romania si preferisce maggiormente utilizzare penitenziari per rinchiudere ex nazisti, collaborazionisti e dissidenti politici, ma non mancano campi classici di lavoro forzato istituiti nei pressi delle miniere di allu­minio o presso il Delta del Danubio, zona del progetto di escavazione del canale Danubio-Mar Nero. Il più terribile luogo di prigionia è la prigione di Pitesti, cittadina romena situata un centinaio di chilometri a nord-ovest di Bucarest, dove è attuato un terribile esperimento di “autorieducazione” specialmente per ex seminaristi [vedi anche il mio L’esperimento carcerario di Pitesti: quando si voleva rieducare anche l’anima].
In Ungheria, subito dopo l’entrata dell’Armata Rossa nel Paese (settembre 1944), cominciano le deportazioni in URSS e l’internamento in campi ungheresi di criminali di guerra e col­la­borazionisti. In seguito alle elezioni del maggio 1949, i comunisti prendono il potere e nasce la Repubblica Popolare d’Ungheria (Magyar Nép­köz­tár­saság). Il nuovo governo prende in carico i campi esi­stenti nel Paese, continuando a riempirli, ma di nemici del popolo. Particolare luogo di terrore del nuovo regime è il quartier generale a Buda­pest della polizia politica ungherese (Államvédelmi Hatóság – Autorità per la Protezione dello Stato), denominato “Casa del terrore”, luogo già centro di tortura dei fascisti che con il nuovo regime non cambia la sua destinazione d’uso, ma ora per anticomunisti e dissidenti del regime. I campi ungheresi, che sono di rieducazione attraverso il lavoro forzato sono smantellati a partire dalla fine di luglio del 1953, a seguito della richiesta dell’Ungheria di aderire all’ONU. Così molti internati sono rimessi in libertà a piccoli gruppi, mentre quelli ritenuti più pericolosi sono invece trasferiti nelle prigioni della Polizia politica.
In seguito all’insurrezione popolare del 1956, che scoppia per la profonda insoddisfazione delle masse, dovuta al falli­mento della politica economica, che aveva prodotto una diffusa povertà, e per gli abusi della Polizia politica, molti campi sono riaperti. Saranno chiusi solo nel 1989 quando la Repub­blica Popolare diventa la Repubblica d’Ungheria.
Come in altri Stati del blocco orientale, la Repub­­blica Popolare di Bulgaria (Narodna Republika Bălgarija), gestisce una rete di campi di lavoro forzato sino al 1989. Migliaia di “tradi­tori della classe”, veri o presunti, sono inviati nei campi, quasi sempre senza processo.
Con l’accusa di essere “una minaccia per la stabilità e la sicurezza dello Stato”, dapprima ex nazisti e molti collaborazionisti, poi molti cittadini bulgari considerati “nemici del popolo”, vanno a popolare i campi di lavoro correzionale di Sveti Vrach, Rositsa, Kutsiyan, Bobov Dol, Stanke Dimitrov, Kout­siyan, Bosna, Nikolaevo, Bosho­ulya, Nozharevo, Cher­nevo, Belene e Lovech. Quest’ultimo è oggi il simbolo dell’op­pres­sione comunista in Bulgaria.
Il regime comunista cade nel novembre 1989, i campi sono dismessi e iniziano le inchieste sulle responsabilità penali di chi aveva permesso e gestito i campi di lavoro forzato nel Paese. Nessuno è tuttavia mai stato condannato per i crimini compiuti nei campi, poiché la magi­stratura ha ritenuto i reati caduti in pre­scri­zione.
In Albania, finita la guerra, l’11 febbraio 1945 il Fronte di liberazione nazionale proclamò la nuova Repubblica Popolare (Republika Popullore e Shqipërisë). Nel dicembre dello stesso anno confermò il suo potere alle elezioni: Enver Hoxha, già presidente del “Comitato Antifascista Nazionale di Libera­zione”, capo del governo provvisorio e segretario del Partito del Lavoro d’Albania (Partia e Punes e Shqiperise), divenne il reg­gente del piccolo Stato albanese.
Hoxha dapprima attua una politica di stretta alleanza con la Iugoslavia (1946-48), poi si schiera con l’URSS (1948-1961), poi ancora con la Cina (1961-1978), infine ap­plica una forte politica isolazionista per difendere il comu­nis­mo orto­dosso. A parte le regolari “purghe” (le più vaste coincidono con la rot­tura delle relazioni prima con Belgrado, poi con Mosca e poi ancora con Pechino), sono isolati gli oppositori poli­tici, veri o presunti. Sono così istituiti campi di lavoro per “correggere” i disub­bidienti ma anche per intimidire gli ubbidienti. Anche le prigioni si riempiono di oppositori al regime.
Per la maggior parte dei campi di lavoro (Kampe pune), le finalità economico-produttive ne determinano l’ubica­zione: ad esempio Rinas (per la costruzione dell’aeroporto militare di Tirana), Shtyllas (per la realizzazione di due canali), Sarandë, Radostimë, Elbasan (per la costruzione di cementifici), Ballsh (per il lavoro nella raffineria di petrolio), Bulqizë (per il lavoro nella miniera di cromo), Maliq (per la bonifica delle paludi), Batër, Beden, Spac (per il lavoro nelle miniere di pirite di rame). Fra tutte le istituzioni repressive albanesi, spiccano per ferocia il carcere di Burrel, il campo-prigione di Spaç e il campo di Tepelena, luoghi degni di competere con i peggiori Gulag sovietici.
Rispetto agli altri Paesi comunisti europei, la morte di Stalin non segna un “alleggerimento” del sistema concentrazionario, al contrario sono avviate nuove ondate di purghe, con epurazioni politiche all’interno del gruppo dirigente e di repressione della in­tellettualità, facendo sprofondare un’altra volta nell’in­cubo poli­tico il Paese. Lo stesso accade in seguito, quando l’Albania sospende i rapporti politico-militari con la Cina. I campi sono definitivamente chiusi all’inizio del 1991.

I campi di internamento e concentramento creati dagli Alleati dopo il nazismo sono la dimostrazione che la storia, terribilmente noiosa e noiosamente terribile, si ripete secondo le convenienze ideologiche… e nessuna considerazione morale ha minato la creazione di questi luoghi di umiliazione dell’umano: anche gli Alleati, sia quelli del blocco atlantico sia quelli sovietici hanno azzerato la distanza morale che li separava dalla Germania di Hitler.

Per saperne di più
C. Simpson, Blowback. American’s recruitment of nazist and its effects on the Cold War, Wiedenfeld & Nicholson, New York 1988.
J. Bacque, Crimes and Mercies. The Fate of German Civilians Under Allied Occupation, 1944-1950, Little,
Brown & C., London 1997.
S. Courtois et all., Le Livre noir du communisme. Crimes, terreur, répression, Lafont, Paris 1997 (trad. it., Il libro nero del comunismo, Mondadori, Milano 2000).
O. Hoare, Camp 020. MI5 and the Nazi Spies. The Official History of MI5’s Wartime Interrogation Centre, Public Record Office, London 2000.
J. Bacque, Other Losses. An Investigation into the Mass Deaths of German Prisoners of War at the Hands of the French and Americans After World War II, Stoddart, Toronto 1989 (trad. It. Gli altri lager. I prigionieri tedeschi nei campi alleati in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale, Mursia, Milano 2004).
I. Cobain, The secrets of the London Cage, «The Guardian», 12 November 2005, http://www.theguardian.com/uk/2005/nov/12/secondworldwar.world.
I. Cobain, The interrogation camp that turned prisoners into living skeletons, «The Guardian», 17 december 2005, http://www.theguardian.com/uk/2005/ dec/17/secondworldwar.topstories3.
P. Leone, I campi dei vinti. Civili e militari nei campi di concentramento alleati in Italia (1944–46), Cantagalli, Siena 2012.
E. Lichtblau, The Nazis next door. How America became a safe haven for Hitler’s men, Houghton Mifflin Harcourt, New York 2014.
R. Paternoster, La politica dell’esclusione. Deportazione e campi di concentramento, Tralerighe, Lucca 2020.