TERRORISMO E ISLAM

di Max Trimurti -

Sono evidenti i limiti e le contraddizioni degli sforzi messi in opera dall’Occidente per distinguere un islam “moderato” dal jihadismo terrorista. Ma l’islam, nei suoi fondamenti, è forse apportatore di violenza?

Per i musulmani violenti, che i nostri media chiamano ormai “jihadisti” o “terroristi” e per i musulmani che li approvano e li sostengono più o meno apertamente (radicali, estremisti, fondamentalisti, ecc.) non può esistere più alcun dubbio: gruppi come Al-Qaida, lo Stato islamico (ISIS), Boko Haram agiscono per la più nobile e la più sacra delle cause, ovvero la difesa e/o l’espansione dell’islam.
I loro militanti sono musulmani irreprensibili, preoccupati unicamente dei loro doveri nei confronti di Allah e della Comunità dei Credenti (Umma) e tutte le loro azioni, ivi comprese quelle più barbare ai nostri occhi, risultano in conformità con la legge musulmana (Sharia). Dal punto di vista della loro classificazione in una scala di valori nel diritto musulmano, esse posso essere qualificate come lodevoli o obbligatorie, per qualcuno possono risultare indifferenti, ma mai riprovevoli o vietate.

Il messaggio del Corano e degli Hadith
Per affermare la loro perfetta ortodossia i jihadisti si appoggiano agli stessi fondamenti dell’islam: il Corano, libro eterno, non prodotto dell’uomo, ma increato come lo stesso Allah, che lo ha trasmesso e rivelato a Maometto per mezzo dell’arcangelo Gibril (Gabriele); gli Hadith, raccolta di fatti e detti del Profeta e dei suoi primi compagni.
Corano e Hadith sono i “dati scritti” dell’islam, le sue Scritture sante, in ultima analisi le sole fonti autorizzate della legge. Nessuno si sognerebbe di mettere in discussione l’autenticità di questi testi e il loro carattere sacro in uno qualsiasi dei 57 paesi dell’Organizzazione della Cooperazione islamica: l’imprudente che si avventurasse in questa “apostasia” sarebbe immediatamente ridotto al silenzio da parte delle autorità. Corano e Hadith costituiscono il capitale genetico dell’islam, fuori dalla portata di qualsiasi modificazione per volontà e decisione umana. Essi hanno costruito l’islam, allo stesso tempo come religione, come sistema politico e come civiltà. Essi continuano tutt’oggi ad animarlo e orientarlo.
Il Corano tratta della guerra in più di duecento versetti. Contiene appelli ad uccidere gli infedeli: “Combatteteli … affinché non ci sia che un solo culto, quello ad Allah” (Sura 8, versetto 39). “Uccidete gli infedeli o i miscredenti ovunque li troviate” (9.5). Detta le regole per quanto concerne la sorte dei vinti, il trattamento da riservare ai prigionieri, la ripartizione del bottino. In particolar modo il libro increato, facendo di Maometto “il modello di riferimento” (33.21), giustifica il comportamento violento del Profeta, facendone inoltre un modello da imitare. Gli Hadith, come anche le prime biografie del Profeta (al-sira), ci presentano un autocrate che spesso e volentieri ha fatto ricorso al terrorismo.

Il Profeta si impone attraverso la violenza

Maometto alla battaglia di Uhud, illustrazione del 1595

Maometto alla battaglia di Uhud, illustrazione del 1595

L’esiliato arrivato a Medina nell’autunno del 622 prende il potere nell’oasi un anno e mezzo più tardi a seguito di imboscate a mano armata (episodi di Nakla e di Badr). Egli non tollera alcuna opposizione. Fino alla sua morte, nel 632 Maometto fa ricorso a metodi di “assassini mirati”, che rientrano nella categorie delle “campagne” (maghazi), titoli di gloria dell’Inviato di Allah. Egli attacca e saccheggia i clan arabi che si rifiutano di prestargli obbedienza. Procede all’epurazione etnica di Medina, popolata in maggioranza da ebrei, attraverso l’esilio dopo spoliazione, ma anche per mezzo del massacro; da 600 a 900 uomini vengono decapitati in pubblico in una sola giornata, mentre le donne e i bambini vengono venduti come schiavi (aprile del 627). Egli impiega la tortura, pratica lo stupro (nel 628 a Khaybar, egli abusa di una giovane di 17 anni, Safiyya, qualche ora dopo aver fatto torturare e quindi uccidere suo marito). Gli uomini dell’ISIS e altri gruppi “jihadisti” possono impunemente affermare che, secondo loro, non esiste alcun “crimine” da loro commesso del quale non si trovi un precedente nella vita del Profeta. Sono questi fatti riportati dai testi sacri che costituiranno la base, in applicazione del principio della Sunna (la regola determinata dalla tradizione e dal precedente), il diritto della guerra secondo l’islam.
La terra, l’umanità sono divise in due: la Casa dell’islam (dar-al-islam), i paesi dove vivono i musulmani e dove si applica la Sharia e la Casa della guerra (dar el- harb). La guerra dei musulmani contro gli “altri” è universale e perpetua. Una tregua con gli infedeli non può superare il limite dei 10 anni (in riferimento a un accordo stretto da Maometto con quelli della Mecca, a Hudaybiyya nel 628). Di fatto, per tutti i quattordici secoli di storia, l’islam non sospenderà le sue offensive armate, se non quando sarà battuto o contenuto. Il jihad tuttavia non cesserà mai: allora, il combattimento “sul cammino di Allah” potrà assumere una diversa forma, per mezzo della predicazione, ma anche attraverso l’astuzia, la dissimulazione, la menzogna, la taqiyya (“Allah è il migliore ingannatore” 8.30)

Terrorismo e islamizzazione
Quando recentemente gruppi terroristi si sono rivoltati, per ragioni diverse, contro l’Arabia Saudita e il Qatar, essi hanno posto i dirigenti wahabiti di questi paesi, loro creatori e finanziatori, in serio imbarazzo. Come può uno Stato condannare avversari che sono in condizioni di provare che tutti i loro atti risultano conformi alla legge in vigore all’interno delle sue frontiere? Se gli storici del futuro riusciranno a conservare una dose di humor, ricorderanno che l’emittente satellitare del Qatar, Al-Jazira, è stata forzata a ricalcare i nostri distinguo linguistici al fine di “evitare di defilarsi e di amalgamarsi”. Nelle sue emissioni, la lingua araba si è improvvisamente arricchita di neologismi che consentono di operare la distinzione o la scelta fra i cattivi islamisti (islamiyyun) e i veri musulmani (muslimun), gli esecrabili jihadisti (jihadiyyun) e i valori combattenti del santo Jihad (mujahidun), senza peraltro mai spiegare sulla base di quale testo sacro viene operata tale sottile distinzione. Queste non sono le uniche contorsioni lessicali che si possono notare nei media arabi. Essendo il suicidio vietato nel mondo islamico, i “cattivi” musulmani commettono “attentati suicidi”, mentre i “buoni” diventano “martiri e testimoni”.
I terroristi operano anche in seno alla diaspora. Per mezzo della loro evidente violenza, essi minacciano una strategia dell’islam, ben impostata, di progressione e di conquista a piccoli passi, “a macchie di leopardo”, basata sulla Taqiyya. Per lungo tempo il numero dei musulmani in Europa era stato basso, per volontà dei governi, ma anche perché il diritto musulmano vieta a un credente di soggiornare, al di fuori della jihad, fra gli Infedeli: i suoi costumi potrebbero corrompersi e potrebbe non essere più in misura di compiere correttamente tutti i doveri. L’immigrazione massiccia dei musulmani, voluta e organizzata dagli Europei, è stata una sorpresa divina per certi attivisti e per lo stesso Gheddafi che vi hanno rapidamente intravisto una possibilità d’invasione senza combattere.
Le tappe della conquista sono state tracciate negli anni Ottanta: accrescere la popolazione musulmana in Europa; sotto la copertura della parola “religione” e in nome della “democrazia”, dei diritti dell’uomo, della tolleranza e dell’accoglienza cercare di ottenere progressive concessioni (velo, segregazione tra uomini e donne, moschee, alimentazione halal nei luoghi pubblici, celebrazione in comune del ramadam…); abituare a poco a poco gli autoctoni all’islam, fino alla libanizzazione del paese attraverso la legalizzazione delle comunità religiose; creazione di zone di pieno diritto musulmano, come, ad esempio, al tempo dei protestanti del XVI secolo in Francia, le famose “piazze di sicurezza”, specie di ridotti a uso esclusivo. In definitiva, una strategia di confronto con la maggiorità dei paesi occidentali al fine di costituire una comunità specifica, estranea al paese d’accoglienza.
Di fronte a una opinione pubblica traumatizzata dagli attentati, risulta sempre più difficile agli imam, qualificati come “moderati”, agenti di questa strategia di lungo termine, di convincere che l’islam è solo una religione come le altre, pacifica e compatibile con la laicità (in Turchia, fino ad Ataturk, non era mai esistito ed era completamente sconosciuto il termine “laico”, introdotto nel paese traducendolo dal francese: lailik), il sistema democratico e la civiltà europea (ma la nostra civiltà è stata storicamente sempre antagonista di quella musulmana).
I quadri incaricati della Taqiyya continuano a ripetere discorsi tranquillizzanti. Ad esempio, ribadire che il termine jihad nel Corano non può essere semplicemente tradotto come “guerra”; occorrerebbe interpretarlo come “sforzo su di sé stessi”, mentre, in effetti questa interpretazione è apparsa solo in determinate sette mistiche, molto tempo dopo la rivelazione del Corano e non trova grande sostegno nelle Sure del loro Libro Sacro.

Dirigenti europei impotenti
I cosiddetti “estremisti” islamici sono oggi impiantati in discreto numero nei nostri quartieri “a rischio”, dove diffondono le loro idee e impongono le loro pratiche. Essi arruolano uomini e donne, specialmente fra i giovani, che – evidentemente in una società che li emargina, in crisi di valori e dove l’unico dio è il denaro – trovano nell’impegno nell’islam più intransigente la fierezza dell’appartenenza che la nostra società non è in grado di offrire.
Si ha torto nel pensare che, diffondendo gli atti di terrorismo, l’ISIS cerchi solamente di terrorizzarci. Si tratta, facendo riferimento agli Hadith, di dimostrare la “forza dell’islam”, che consente ai suoi soggetti migliori di “superarsi” e, per mezzo dell’esempio, di suscitare arruolamenti e conversioni. I dirigenti europei di fronte a questo fenomeno appaiono sgomenti. Non sanno cosa fare dei milioni di musulmani che essi stessi hanno fatto arrivare e dei quali devono ora tener conto (soprattutto in Francia) a causa del loro notevole peso elettorale (una statistica dell’IFOP ha evidenziato che François Hollande fu eletto al secondo turno, nel 2012, grazie al voto dei musulmani). Quale politico crede ancora sinceramente, perlomeno in Francia, alla possibilità di creare, nell’epoca della globalizzazione, un “islam di Francia”, diverso dall’islam di un miliardo e sei cento milioni di essere umani, mentre ovunque altrove, le riforme iniziate dai nazionalisti arabi del XX secolo sono state cancellate dal ritorno al passato e dalla reazione? Quale fenomeno sarebbe in grado di fermare la violenza dell’islam? L’economia? Un accrescimento generale del livello di vita che potrebbe attirare i musulmani nelle delizie della società consumistica? Credere a questa possibilità, significa tenere in poco conto le radici culturali e psicologiche profonde alla base della “radicalizzazione” attuale. E come mettere in pratica questa opzione se nessuno si pone seriamente il grave problema della demografia nella nostra società?
Nella metà del secolo scorso, il sociologo francese Gaston Bouthoul ha studiato le popolazioni che nella storia sono andate incontro a una crescita numerica eccessiva rispetto alle loro capacità economiche. Egli ha constatato che se l’espansione demografica non viene frenata da una carestia o da una epidemia, il ritorno all’equilibrio si consegue attraverso una guerra interna o l’emigrazione di massa.
Attualmente, i musulmani, il cui peso demografico si è accresciuto notevolmente, si battono fra di loro (sunniti contro sciiti, in Irak, in Siria, nello Yemen), combattono gli infedeli o emigrano.
Risulta verosimile che, attivata sistematicamente dalla demografia, la violenza islamica è destinata ad estendersi. In questo prospettiva, il terrorismo, giustificato dai testi sacri, dimostrando la forza dell’islam, contribuisce alla fierezza d’appartenenza e troverà sostegno anche per il futuro.

Per saperne di più
J. Chabbi, Le Seigneur Des Tribus. L’islam De Mahomet – Editions Noésis 1997 e CNRS 2013
G. Bouthoul, Traité de polémologie. Sociologie des guerres – Paris, Payot, 1970
G. Quagliarello, A. Spiri (a cura), Sfida all’Occidente: il terrorismo islamico e le sue conseguenze. Dall’11 settembre 2001 all’elezione di Donald Trump – Rubbettino, 2017
M. Allam, Vincere la paura. La mia vita contro il terrorismo islamico e l’incoscienza dell’Occidente – Mondadori, 2006