STUPRI DI REGIME IN ARGENTINA E CILE

di Michele Strazza -

La violazione del corpo femminile come strumento di potere. Anche in questo modo si sono imposte le dittature sudamericane della seconda metà del Novecento. Di fatto estendendo alla “sfera pubblica” gli effetti di una società maschilista in cui la violenza era praticata già all’interno delle mura domestiche.

Il presidente della giunta militare argentina Jorge Rafael Videla

Il presidente della giunta militare argentina Jorge Rafael Videla

In Argentina la violenza sessuale imperversò nella seconda metà degli anni ’70 del XX secolo e all’inizio degli ’80. Essa venne praticata sulle donne arrestate perché ritenute in qualche modo oppositrici del regime dittatoriale.
Nei Centri Clandestini di Detenzione (CCD) le detenute erano sottoposte ad ogni tipo di violenze, dalla tortura allo stupro, per poi essere chiuse in carcere. Famoso quello di “Villa Devoto”, a Buenos Aires, dove venivano concentrate le detenute politiche.
Gli aguzzini non si facevano scrupoli: anche le donne incinte venivano interrogate e picchiate. Così racconta il suo arresto Estela Robledo, imprigionata insieme al marito nei giorni precedenti il golpe militare del 24 marzo 1976: «La notte del 2 marzo 1976 arrivarono a casa di mia madre, con la quale abitavamo. Dalle 2 di notte in poi la nostra vita cambiò. Subito ci separarono: io in una macchina, messa dietro e coperta perché non vedessi fuori, e lui in un’altra. […] Ci portarono al centro ora denominato D2, allora era chiamato Dipartimento di Informazione, e lì cominciò l’interrogatorio con tutto quello che ciò significava. Verso le 5 del mattino, più o meno, credo, iniziai ad avere delle contrazioni (ero al sesto mese di gravidanza). Continuarono a picchiarmi, più picchiavano più la mia pancia diventava dura, fino a che il medico che controllava disse “questa lo partorisce qui”. Allora mi caricarono su una macchina e mi portarono alla Maternità Provinciale […]».

Una recente manifestazione delle Madri di Plaza de Mayo a Buenos Aires - Roblespepe

Una recente manifestazione delle Madri di Plaza de Mayo a Buenos Aires – Roblespepe

Le arrestate erano spesso violentate, non solo in quanto oppositrici, ma anche perché donne che si erano ribellate al loro ruolo tradizionale e familiare, perché in qualche modo si erano occupate di politica, anche solo dando appoggio ai propri uomini o perché esse stesse si erano rese protagoniste di battaglie sociali e politiche.
La violenza usata dagli agenti dello Stato e dai gruppi paramilitari era, in realtà, la prosecuzione di quella già praticata all’interno delle mura domestiche, nell’ottica di una società in cui il genere femminile doveva restare relegato ai margini, venendogli negata autonomia, autodeterminazione, soggettività e individualità.
Di conseguenza, il loro corpo, ormai “spersonalizzato”, finiva con l’essere “terra di conquista e di usurpazione”, quasi un “luogo pubblico” su cui esercitare dominio e predazione.
Una concezione, questa, profondamente maschilista in cui la donna, non considerata nei suoi aspetti spirituali e intellettuali, viene identificata con il suo corpo. La donna diventa “il corpo della donna”, non soggetto ma oggetto, merce, preda, da usare, violare, deturpare, distruggere da parte dell’uomo, unico soggetto della storia.

“Estensioni del maschile e del suo potere, nel privato e nel pubblico”, questi corpi femminili possono essere sottoposti ad ogni forma di violazione, di penetrazione, con oggetti, armi e quant’altro: «L’“occupazione” del corpo femminile e del suo utero è una metafora realistica e potente, in cui il corpo “cavo” delle donne è riempito. Il vuoto produce fobia, angoscia, smarrimento, e deve essere colmato da una prevaricazione globale e incorporante. Il corpo maschile “incorporante” e non più “incorporato”. I presagi dell’esercizio del dominio maschile sono sì rivolti contro gli altri maschi “nemici”, ma sono le donne a incarnare la “nemicità” per eccellenza. […] in sostanza, non è tanto l’agire degli uomini contro altri uomini per mezzo del corpo delle donne, ma degli uomini che insopportabilmente decidono del destino delle donne».
Conseguenza del completo dominio maschile sulle donne e il loro corpo è il silenzio imposto loro dopo la violenza. In Argentina, ma anche in Uruguay, il riappropriarsi della propria memoria e della forza di raccontarla avvenne attraverso i “laboratori per las memoriosas” in cui esse, in apposite strutture o semplicemente in riunioni domestiche, rielaborarono e ricostruirono “i ricordi di una violenza subita nella propria carne e nel proprio spirito”.

Pinochet e i membri della giunta militare cilena nel 1975 - Biblioteca del Congreso Nacional

Pinochet e i membri della giunta militare cilena nel 1975 – Biblioteca del Congreso Nacional

Anche nel Cile di Pinochet fu praticata violenza sessuale sulle donne arrestate nonché su quelle rapite dai gruppi paramilitari e poi uccise. Pure qui, come in gran parte dell’America Latina, essa rifletteva una società maschilista in cui la violenza era praticata già all’interno delle mura domestiche, estendendosi alla “sfera pubblica” dopo la svolta autoritaria del 1973. Una particolarità del Cile, rispetto agli altri Paesi del Sudamerica, consiste nel fatto che qui si registrò anche la presenza di donne tra gli addetti alle torture. La violenza sessuale sulle donne cilene (ma anche su quelle argentine) e, soprattutto la sua correlazione con la detenzione, ci inducono anche ad un’altra riflessione. Lo stupro e le altre sevizie non erano soltanto espressione di violenza di genere ma diventavano forme estreme di tortura, condividendone modalità e motivazioni.

La tortura usata in Cile non era finalizzata semplicemente ad estorcere informazioni, a fare parlare gli arrestati, quanto l’esatto contrario. La violenza era utilizzata per fare tacere gli oppositori, per ridurli in pieno potere dei loro aguzzini: «Esponendole a un dolore estremo si oblitera il linguaggio e, quindi, si elimina qualsiasi cosa queste persone possiedano in termini di convinzioni, di esperienza e di legami con l’ambiente. Il dolore estremo è un mezzo di tortura per disintegrare la sostanza della consapevolezza e la capacità di percezione, e per distruggere la capacità della vittima di esprimersi. […] Un’altra caratteristica della tortura è il fatto che la sofferenza della vittima è trasformata in una dimostrazione convincente di potere – per il torturatore e il regime che personifica. Quando la vittima è ridotta ad un corpo dolente e inerme e perde la sua autodeterminazione, il torturatore sente che sta estendendo il suo territorio e il suo potere. Il regime politico che tortura dimostra che ha il potere di tormentare questo corpo malgrado la resistenza che la vittima oppone al regime, alla forma di governo, all’ideologia. Così facendo, dimostra che il suo potere è più reale della resistenza della vittima. La realtà indiscutibile del corpo tormentato serve al regime come segno di potere. Il regime imprime la sua realtà nella realtà dei corpi tormentati».
In quest’ottica di accostamento tra tortura e stupro ciò che avveniva durante quest’ultimo, “cioè la penetrazione forzata all’interno di un corpo umano”, non era altro che una caratteristica della tortura in forme estreme e, come rilevato da Amnesty International, la diminuzione di quest’ultima era associata alla crescita del consolidamento del potere di Pinochet: “il potere quindi non doveva essere più documentato indiscutibilmente nel corpo delle persone torturate”.

 

Per saperne di più
Calandra B., “Las palabras para decirlo. Le rappresentazioni della violenza sessuale nel Cile di Pinochet”, in Stabili M.R. (a cura di), Violenze di genere. Storie e memorie nell’America Latina di fine Novecento – Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2009.
Lotto A., Nelle carceri argentine: la storia di Estela Robledo, in “DEP. Deportate, esuli, profughe”, n. 12.
Martellini F., “Las memoriosas. Violenza politica, violenza di genere, memoria di genere”, in Stabili M.R. (a cura di), Violenze di genere. Storie e memorie nell’America Latina di fine Novecento – Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2009.
Seifert R., Il corpo femminile come corpo politico: lo stupro, la guerra e la nazione, in “Difesa Sociale”, n. 2, 2007.
Zabonati A., Recensione a Stabili M.R. (a cura di), “Violenze di genere. Storie e memorie nell’America Latina di fine Novecento”, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2009, in “DEP. Deportate, esuli, profughe”, n. 13-14, 2010.