STORIA DELLA GUERRA: LA POLITICA FATTA CON LE ARMI

di Renzo Paternoster -

 

 

Nella storia dell’umanità la guerra ha accompagnato le vicende di tutte le società e di tutti gli Stati: farsi la guerra è stato il comportamento culturale e politico prevalente del quale si sono nutriti, per secoli, generazioni di uomini.

 

Per spiegare cos’è la guerra, è opportuno partire dall’etimologia del termine, poiché l’evoluzione linguistica di questo lemma spiega cosa era una guerra e cosa è poi diventata.
Per gli antichi romani si chiamava béllum, che a sua volta deriva da duellum, ossia combattimento a due. Più tardi il termine, poiché si poteva confondere con bellus (bello), fu abbandonato nelle lingue romanze per accogliere un vocabolo germanico che meglio rispondeva al sistema di combattimento: wërra. La radice indoeuropea di quest’ultimo termine è u̯ers- che è poi continuata nei vocaboli wirren, che vuol dire confusione, e verwirren, che significa aggrovigliare, avviluppare. Così, in opposizione al béllum, la guerra ordinata e sofisticata propria degli antichi romani, si passa a guerra (il suono germanico w fu sostituito con gu̯-), per designare lo scontro armato selvaggio, disordinato e senza regole in cui si avviluppano i combattenti barbari germanici. La stessa radice indoeuropea si trova nel termine anglosassone war, che deriva da wërra. Dal latino béllum deriva il suffisso italiano di aggettivi quali: bellico, belligerante, bellicoso.

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Evoluzione delle armi

Nel mondo più arcaico la guerra in senso proprio non esisteva, poiché mancava un’entità politica come il sovrano o lo Stato. In questo tipo di società si praticava la guerra rituale tra vicini, con alcune regole che ne attenuavano fortemente la distruttività.
Con la nascita delle prime comunità di agricoltori e allevatori compaiono l’idea di proprietà e il concetto di potere come organizzazione istituzionale del dominio. Ambedue segnano l’avvento delle contese, spesso armate e sanguinose: scoppiano lotte feroci tra pastori e agricoltori per il controllo e l’uso delle terre. Le difficoltà ambientali, la scarsità delle risorse del territorio e la crescita della popolazione generano, poi, una compressione che spinge i gruppi sociali alla competizione e, di conseguenza, alla guerra, rendendo dinamico e irreversibile il processo socioculturale. In queste società il guerriero gode di un altissimo status, anzi l’uomo per essere considerato un vero uomo deve essere anche un guerriero.
Il passaggio dalla preistoria alla storia segna un cambiamento nella guerra, non tanto dal punto di vista tecnologico, quanto organizzativo. La guerra antica, successivamente quella medievale, è una guerra agganciata a uno spazio territoriale caratterizzato dalla scarsa mobilità degli eserciti, e a uno spazio temporale, in pratica con un inizio e una fine ben definiti. Esse consistevano, quindi, in scontri circoscritti riguardanti eserciti di mestiere che si confrontavano in campo aperto: si trattava, insomma, di una specie di duello in grande stile, in cui la popolazione civile restava completamente estranea.
Con l’arrivo in Mesopotamia dei popoli del Nord e degli Accadi la guerra esce dalla preistoria. Le armi di rame, infatti, si scontrano con quelle di bronzo, molto più resistenti delle prime. In seguito fanno la loro comparsa le armi di ferro e il cavallo, che rendono la guerra una vera e propria arte incrementandone l’ampiezza.
Con lo sviluppo delle grandi civiltà stanziali, la guerra perde il suo compito di conquistare territori per le sue risorse, per acquisire quello di esercitare il dominio. La guerra, in questo modo, si trasforma da fatto privato in un problema pubblico, collettivo, sociale, di prerogativa esclusiva del sovrano e poi dello Stato, nella cui gestione devono essere esclusi rigorosamente tutti gli interessi individuali e familiari.

La guerra nel Medioevo venne condotta in nome dei regolari poteri costituiti (re, principi, signori), da guerrieri che appartenevano all’ordine dei bellatores, pugnatores, agonistae, milites, cioè a una categoria che aveva il suo ruolo riconosciuto nella società e la cui posizione sociale relativamente privilegiata poteva spiegarsi solo con la sua vocazione per le armi. La guerra nel Medioevo, quindi, diviene un fatto di professionisti.
Con la comparsa del feudo nasce la figura del cavaliere (e della cavalleria), una “macchina da guerra” che si evidenzia dalla restante parte della popolazione, che ha un proprio carattere distintivo, ed è preparata sin dall’età adolescenziale all’arte della guerra. Nella società feudale il cavaliere è il bellator per eccellenza.
Anche la Chiesa di Roma, attraverso la cristianizzazione della figura del prode cavaliere, la fondazione degli ordini religioso-cavallereschi (Templari, Teutonici, Ospitalieri, Canonici del Santo Sepolcro, Cavalieri di San Lazzaro, Ordine di San Giacomo, Cavalieri di San Tommaso) e il culto dei santi militari (san Michele Arcangelo, san Giorgio, san Sebastiano, santa Barbara, san Maurizio, san Martino, San Ladislao e così via) intervenne per plasmare dal suo punto di vista la figura di questo guerriero. La guerra da “giusta”, diventa anche “santa”.
La scenografia della guerra divenne, di conseguenza, in parte religiosa: una battaglia era di solito preceduta da riti religiosi (confessioni, comunioni, messa), negli eserciti del tempo divennero numerose le immagini religiose, le armi furono munite d’iscrizioni devote o di reliquie, divenne d’uso infine – a partire dalla prima crociata – portare croci di stoffa.
Se il cavaliere è il bellator per eccellenza, le truppe di fanteria furono una componente molto importante in tutti gli eserciti. Gli interventi della fanteria, infatti, furono sempre critici e decisivi nell’ambito dell’assedio di castelli o di città fortificate, mentre quelli del cavaliere lo erano in occasione di battaglie campali e di scontri all’ultimo sangue.
La guerra nel Medioevo la fa quindi chi la vuole fare. Non solo: molti feudatari, quelli che se lo possono permettere, anziché prestare l’auxilium militare cui sono tenuti, preferiscono pagare lo scutagium, una tassa sostitutiva al re. Con questo denaro i sovrani e i signori possono pagare e assoldare “mercenari”. Così, accanto ai cavalieri e ai militi della fanteria, compaiono i primi soldati mercenari che, “al soldo” (da qui il termine soldati) di questo o quel signore, combattono per la durata della compagnia militare.
Nella guerra medievale, almeno quella fatta dai cavalieri, più che uccidere il nemico è importante battersi correttamente, secondo le regole e con onore. Anzi, la guerra nel Medioevo ha il valore di un aristocratico esercizio di virtù. Essa, allora, è circondata da tutta una costruzione concettuale legata al diritto, alla morale e alla religione.
La guerra nel Medioevo si rivela quindi un fenomeno culturale, oltre che politico: la guerra deve essere fatta bene, con coraggio e nobiltà d’animo. Ecco così che i nobili cavalieri disprezzano l’uso della balestra, considerata un’arma da vigliacchi, poiché il solo confronto a corpo a corpo è degno di un vero guerriero.
La battaglia vera e propria nel Medioevo si svolge entro uno spazio geografico localizzato, dove è in gioco esclusivamente la vita dei combattenti che si sfidano l’un l’altro, la maggior parte delle volte rispettando precisi rituali cavallereschi. Le distruzioni sono circoscritte entro l’area di combattimento, mentre la perdita di vite umane è limitata e non include la popolazione civile.
Un’eccezione, che può avere esiti cruenti anche per la popolazione civile, riguarda la pratica dell’assedio: da un punto di vista tattico, gli strateghi medievali hanno una vera e propria fissazione per l’accerchiamento delle numerose località fortificate. Chiaramente ci sono altre eccezioni che riguardano il comportamento predatorio da parte dell’esercito formato da soldati mercenari, un’orda di giovani in cerca d’avventura e fortuna e di criminali, vagabondi ed emarginati d’ogni genere. Tuttavia, contrariamente alle credenze popolari sul loro conto, i mercenari non sono particolarmente spietati e la loro principale preoccupazione non è uccidere crudelmente il nemico, ma il guadagno. Tant’è vero che essi, anziché ammazzare il nemico, privilegiano la cattura di ostaggi che prometteva di fruttare ingenti guadagni in cambio della loro liberazione.

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Evoluzione della guerra

La scoperta della polvere da sparo modificò profondamente l’arte della guerra. L’avvento delle armi da fuoco portò a riconsiderare tutta l’ar­te della guerra: nacque la scienza balistica; si sviluppò una particolare tecnologia legata allo studio di nuove armi; cambiò l’arte architettonica delle fortezze, che ora dovevano essere a prova di cannone); comparve la cartografia in campo militare.
Il cambiamento introdotto dalla polvere da sparo non fu solo tattico, ma anche psicologico: dallo scontro “a corpo a corpo” si passò “all’uccisione a distanza”, che finì per togliere ogni impedimento ai guerreggianti. La guerra, così, si spersonalizzò definitivamente, facendo perdere tutti i valori epici del valoroso cavaliere.
Perfezionate le armi da fuoco, un altro elemento di novità che cambiò il modo di combattere fu l’introduzione della baionetta. Con questa invenzione i moschettieri ereditarono la funzione del picchiere: la fanteria armata di moschetto doveva ora proteggersi da sola dalla cavalleria e, giunta a diretto contatto col nemico, combattere corpo a corpo come prima aveva fatto il picchiere.
Anche la forma “Stato moderno” influenzò la guerra, incrementandone l’ampiezza: la guerra, abbandonati i criteri di giustizia o l’affermazione della fede, divenne una forma di legittima difesa dell’interesse nazionale attraverso il mantenimento dell’ordine fra gli Stati.

Con la Rivoluzione francese e il crollo dell’ancien régime, la politica scopre la Nazione: la guerra non fa più capo al monarca, preoccupato di difendere o accrescere il proprio patrimonio, ma entra in gioco l’affermazione e la sopravvivenza del popolo costituitosi in Nazione. E con la Nazione, la guerra si democratizza: tutti i cittadini sono tenuti a difendere la Patria con le armi, e quindi a prestare il servizio militare obbligatorio.
Ora, in assenza di un’autorità superiore più o meno universalmente riconosciuta (il pontefice romano o l’imperatore) ogni Stato è in grado di sostenere la legittimità giuridica ed etica della propria guerra.
Dal punto di vista strettamente militare, a tutto l’Ottocento, la guerra – seppur con una dilatazione geografica maggiore – è un evento ben definito geograficamente, con un inizio e una fine determinati. Così, come nel passato, la guerra è formalmente dichiarata e la sua conclusione è altrettanto formalmente sottoscritta attraverso trattati di pace giuridicamente controllabili. Solo le tecniche di combattimento cambiano, poiché lo sviluppo tecnologico “partorisce” nuove armi che rivoluzioneranno per sempre il modo di fare la guerra.
Infatti, la scoperta d’esplosivi più potenti ed efficaci della polvere nera fino allora utilizzata, il passaggio dal fucile ad avancarica a quello a retrocarica con caricatore multiplo, l’inven­zio­ne dell’arma a tiro rapidissimo (la mitragliatrice), la precisione dei cannoni (acquisita con la rotazione del proiettile mediante rigatura della canna), il passaggio dalla marina a vela a quella a motore e quello dalle navi in legno a quelle in ferro (con il potenziamento delle corazze navali con l’acciaio al nichel), la progettazione della corazzata armata di artiglierie d’unico calibro tipo Dreadnought (varata per prima dagli inglesi nel 1906), l’invenzione del siluro autopropellente, la messa a punto del sottomarino, l’apparizione del motore a combustione interna, preparò l’esplosione del grande conflitto di massa, plasmando un tipo di guerra che diverrà “totale”.
L’irruzione del petrolio, con le sue enormi applicazioni in campo bellico, completa e innova radicalmente le tecniche di movimento degli eserciti, sino ad arrivare in casa, attraverso l’ar­ma aerea con i suoi bombardamenti strategici e di annientamento. Infatti, se inizialmente gli obiettivi di questi bombardamenti aerei furono strettamente collegati alla guerra stessa (centri di comunicazione e fabbriche belliche), si passò poi a colpire più in generale le aree industriali fino a giungere al cosiddetto area-bombing, il bombardamento a tappeto dei centri urbani nemici.

Agli inizi del Novecento, la guerra ha ormai modificato la sua natura: essa è diventata guerra di massa e industriale, come le società che le combattono.
Le nuove guerre sono finalizzate non solo alla definizione di un diverso ordine internazionale, ma alla distruzione totale del­l’avversario e le sue conseguenze umane e sociali si prolungano ben oltre il con­flitto armato, in termini di mutilazioni permanenti, miseria, odio, disastri materiali e inquinamento ambientale.
Le guerre del Novecento segneranno un definitivo passaggio dalla crudeltà come fatto istintuale, a quella della crudeltà come frutto di una pianificazione. Inaugureranno, così, un nuovo tipo di guerra, quella “totale” e ideologica, che si tradurrà in una mo­bilitazione di forze, che tenderanno a trascinare le parti in lot­ta in un processo cumulativo di reciproca distruzione.
Con la Prima grande guerra mondiale tutta la vita civile fu resa funzionale alla guerra. Questo ha significato che ogni ambito della vita attiva doveva essere reso utilizzabile per la guerra: ecco che, per la prima volta, intere Nazioni furono coinvolte nell’evento bellico in termini di risorse umane e di risorse economiche, tecnologiche e ideologiche. La militarizzazione della società costrinse i cittadini a subire la censura e il controllo dell’opinione pubblica attraverso la pro­paganda ideologica, a patire restrizioni alle libertà individuali.
Oltre al gran numero di Stati partecipanti al conflitto, un’altra drammatica novità della guerra mondiale fu la macabra contabilità delle vittime civili che si aggiunse a quelle dei militari. La guerra, abbandonando i campi di battaglia entra nelle città, facendo venir meno ogni jus in bello, assieme all’immuni­tà dei civili, diventando così una catastrofe antropologica.
Ecco la “Guerra totale”: in pratica la progressiva cancellazione d’ogni linea di demarcazione tra sfera militare e sfera civile e la revoca della distinzione tra combattenti e civili; ma anche la mobilitazione monopolizzante di tutte le energie economiche, strategiche e ideologiche della società, oltre all’impegno totalizzante di nuove tecnologie belliche distruttive. Tutto questo ha reso la guerra un gioco ancor più perverso, di cui si possono prevedere tutt’al più le mosse iniziali, ma molto difficilmente le linee evolutive.
Una caratteristica tipica e unica del primo conflitto mondiale fu la “guerra di trincea”. Anche se era già stata adottata sporadicamente in precedenza, come ad esempio nel Medioevo nelle ope­razioni d’assedio, nella Guerra di secessione americana (1861­-1865) e nella Guerra russo-giapponese (1904-1905), la trincea caratterizzò tutta la Grande Guerra.
Le trincee costituirono una vera grande novità, poiché impedivano di fatto ogni possibilità di condurre una guerra di movimento.

Gli orrori della Prima guerra mondiale non furono sufficienti a orientare il XX secolo: nuove carneficine, ancor più aberranti, con il definitivo annullamento del confine tra civile e militare, assieme alla deliberata e sistematica distruzione fisica di interi gruppi etnici, entreranno prepotentemente nelle pagine della storia.
La vera specificità che si ha, specie durante il Secondo conflitto mondiale, non è tanto il crescente coinvolgimento, con la conseguente alta mortalità della popolazione civile, quanto il fatto che questo coinvolgimento è il frutto di una nuova strategia. Infatti, assillati dallo stallo della guerra di trincea, che aveva segnato profondamente la Prima Guerra Mondiale, gli stati maggiori delle parti in lotta predisposero nuove strategie impostate sull’utilizzo di armi mobili, specie l’aviazione (ma anche le forze corazzate), capaci di colpire il nemico a distanza. In sostanza non si trattava più di distruggere le forze avversarie in una grande battaglia decisiva, ma di paralizzare il nemico con forze mobili, anche se numericamente inferiori, con il compito di spezzare le energie avversarie e di colpire i suoi centri nevralgici.
Così, se fino agli inizi del XX secolo la mortalità dei civili fu il risultato degli effetti collaterali della guerra, da questo momento la popolazione civile è assimilata a un obiettivo militare, anzi in molti casi diventa un luogo prediletto da colpire per l’accelerazione della fine del conflitto o il raggiungimento della vittoria.
Il bombardamento aereo degli agglomerati urbani e dei centri industriali diviene la massima espressione della Guerra totale, un’efficace arma per realizzare l’attacco al cuore del nemico. Con la guerra aerea si frantuma definitivamente non solo l’equilibrio tra terra e mare, alienando gli spazi e accelerando il tempo, ma soprattutto l’obbligo di protezione che lo Stato è tenuto ad assicurare alla popolazione civile.
Le atomiche che scoppiarono a Hiroshima e Nagasaki segnarono un passaggio d’epoca, non già per il rapporto quantità di vittime-tempo impiegato, ma perché rappresentano l’attuazione di una specie di celebrazione dell’onnipotenza di una scienza che, disumanizzando il nemico, si è presa la sua rivincita sul disegno della creazione divina. Questo concetto è ulteriormente ribadito dallo sviluppo di altre nuove e potenti armi “non convenzionali”. Infatti la ricerca è progredita maggiormente portando allo sviluppo di vari tipi di aggressivi chimici e poi di quelli biologici.
Le moderne guerre, inoltre, hanno assunto via via nuovi nomi: sono diventate “chirurgiche”, “umanitarie”, “operazioni di peace-keeping”, “azioni di polizia internazionale”.
Oggi, la potenza distruttiva delle armi deve far seriamente convergere gli Stati a soluzioni diplomatiche delle contese. Quindi sostituire il “diritto alla forza” alla “forza del diritto”, con la trasparenza, l’equità e l’universa­lità (nel senso che deve valere per tutti in egual modo) delle leggi.
Abolire la guerra e costruire la pace sono due traguardi concettualmente vicini, ma non identici, giacché la pace non può essere definita solo come assenza di guerra, ma deve essere considerata come un “valore” e non solo come un “obiettivo”.

Per saperne di più
R. Paternoster, Guerrocrazia. Storia e cultura della politica armata, Aracne, Roma 2014.
AA. VV. (a cura di G. Manganaro Favaretto), La guerra. Una riflessione interdisciplinare, ., Edizioni Università di Trieste, Trieste 2003.
G. Bouthoul, Les guerres. Eléments de polémologie, Payot, Parigi 1951 (trad. it. Le guerre. Elementi di polemologia, Longanesi, Milano 1982).
J. Keegan, A History of Warfare, Knopf, New York 1983 (trad. it. La grande storia della guerra, Mondadori, Milano 1996).