STORIA DELLA CHIESA: DALLA TOLLERANZA ALLE PERSECUZIONI
di Pier Luigi Guiducci -
L’iniziale atteggiamento favorevole dell’Impero romano si tramutò presto in persecuzione. Prima considerando il cristianesimo come colpa individuale e poi dando fondamento giuridico a quella che diventò una colpa collettiva estesa a tutta la Chiesa, intesa come organizzazione illecita.
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Nell’ambito dell’epoca antica assume rilevanza lo studio dei rapporti tra il Cristianesimo e l’Impero Romano durante il periodo apostolico, cioè fino all’anno 62 d.C., sia in Palestina che nella diàspora giudaica, con speciale riferimento alla condotta degli imperatori, da Tiberio a Nerone. In seguito, sarà utile cercare di analizzare il fondamento giuridico delle persecuzioni.
Atteggiamento favorevole dell’Impero fino al 62 d.C.
Fino all’anno 62 l’atteggiamento del governo romano nei riguardi del Cristianesimo primitivo in Palestina fu decisamente favorevole. Tale politica era nota agli Ebrei, fermi avversari dei cristiani, come è dimostrato da un significativo episodio riferito dallo storico Flavio Giuseppe.[1] Nell’anno 62 d.C., alla morte del governatore della Palestina Porzio Festo[2], il sommo sacerdote Anano[3] approfittò della momentanea assenza dell’autorità romana per procedere contro i cristiani di Gerusalemme e per far uccidere Giacomo, «fratello di Gesù», con l’accusa di aver violato le leggi. Ma, appena giunto in Palestina, il nuovo governatore Albino[4] scrisse ad Anano una lettera di duro rimprovero minacciando vendetta, mentre il filo-romano Agrippa II[5] per lo stesso motivo lo destituì dal ruolo di sommo sacerdote.
Le ragioni di questo atteggiamento filo-cristiano risultano dalle condizioni politiche della Palestina nel trentennio che va dalla morte di Gesù alla morte di Giacomo: il movimento degli «zeloti»[6] (fondato nel 6 d.C. da Giuda il Galileo con propositi di riscossa nazionale) alimentava quelle sommosse che avrebbero dato origine alla grande insurrezione giudaica del 66, repressa nel 70 con la distruzione di Gerusalemme da parte dell’imperatore Tito.
A quel tempo, i Romani consideravano ancora il Cristianesimo come una setta giudaica, capace di entusiasmare le masse popolari, ma senza alcuna ostilità nei confronti dell’impero; come un movimento che svuotava il messianismo d’Israele di ogni contenuto politico e, anzi, lo interpretava solo in chiave religiosa e spirituale.
Si spiega così come il procuratore Ponzio Pilato[7] si mostrasse esitante durante il processo a Gesù: non tanto per indifferenza o viltà (infatti in altra occasione si mostrò molto energico nel prevenire e punire tumulti di folle, sospettati di essere in funzione anti-romana[8]), quanto invece per la precisa convinzione che la predicazione di Cristo al popolo non era pericolosa per l’impero.
La condanna di Gesù, pur ingiusta, era legale dal punto di vista del tribunale giudicante, perché solo al governatore romano spettava in Palestina «il diritto di spada». Invece è da considerarsi illegale la condanna di Stefano, pronunziata ed eseguita qualche anno dopo dal Sinedrio, il quale estese poi la persecuzione contro i seguaci di Cristo nella diàspora.
Da Flavio Giuseppe si conosce inoltre un fatto. Pure Caifa[9] venne destituito dalla sua carica dal legato di Tiberio per la Siria, Lucio Vitellio[10], quasi contemporaneamente a Pilato (anni 36-37).[11]
La persecuzione in Palestina (At 9,31) ebbe termine con l’intervento del legato romano. Lo conferma il fatto che essa continuava nelle zone non dipendenti dal controllo di Roma, per esempio a Damasco, e il fatto che ad Antiochia (sede del legato di Siria), verso l’anno 40, «i discepoli presero il nome di cristiani» (At 11,26), cioè ebbero un nome di origine romana, termine giuridico ufficiale, ideato negli ambienti del governo romano della Provincia.
Altri comportamenti benevoli
Esistono poi anche altri episodi che confermano la condotta benevola dell’autorità di Roma verso il Cristianesimo nascente:
- l’interesse che il proconsole di Cipro, Sergio Paolo[12], mostrò per l’apostolo Saulo, che da questo incontro cambia il nome in quello di Paolo (At 13,9);
- il rifiuto che il proconsole di Acaia, Gallione, oppone alle accuse dei Giudei di Corinto contro Paolo nel 51 (At 18,12ss);
- l’appoggio concesso allo stesso apostolo dai magistrati di Efeso durante il tumulto degli argentieri nel 53 (At 19,40);
- l’arresto di Paolo a Gerusalemme nel 54, che diventa una misura di protezione (At 21,32ss);
- la relativa libertà da lui goduta nella prima prigionia romana, conclusasi nel 58 con un verdetto non sfavorevole da parte del tribunale imperiale.
Una sottolineatura
In definitiva, si può affermare che dall’anno 36 al 62 il governo di Roma, in ogni occasione, intese proteggere o favorire i cristiani di Palestina e della diàspora. Per questo motivo, le autorità giudaiche di Gerusalemme e i magistrati greci di Efeso evitavano di assumere provvedimenti contro di loro, proprio per il timore di rappresaglie da parte dell’impero.
«Con l’anno 62 si chiudeva un periodo che gli studiosi moderni e la più tarda tradizione antica hanno spesso oscurato nei rapporti tra il cristianesimo e l’impero, ma che la tradizione cristiana del II secolo non ignorava. Un periodo in cui i rapporti tra la nuova religione e Roma erano stati posti, non all’insegna della lotta e della persecuzione e neppure dell’indifferenza e dell’ignoranza, ma dell’intesa e del rispetto reciproco, come Melitone di Sardi affermava apertamente nella sua Apologia e come risulta dagli stessi scritti apostolici. Nei Vangeli, negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere apostoliche, lo Stato romano non è mai presentato in una luce negativa: l’autorità dei suoi imperatori e quella dei suoi magistrati viene da Dio, obbliga in coscienza ed è sempre per il bene dei sudditi. Il lealismo che gli apologisti cristiani affermeranno in seguito nei confronti dello Stato romano, non è mai stato così pieno e cordiale come negli scritti apostolici. L’Apocalisse è l’unica voce antiromana che si leva nel Nuovo Testamento. Essa riflette il clima mutato dell’età neroniana e domizianea e, del resto, più ancora che antiromana, essa è contro quell’assolutismo teocratico da cui nasceva la persecuzione, oltre che dei cristiani, anche degli uomini migliori della classe dirigente di Roma».[13]
Il fondamento giuridico delle persecuzioni
Se Roma si mostrò favorevole al Cristianesimo primitivo, come spiegare allora il sorgere delle persecuzioni?
Il 19 luglio del 64, durante gli anni di Nerone[14], divampa (per 6-7 giorni) nella zona del Circo Massimo, e poi nei quartieri vicini, un incendio di vaste dimensioni. Tacito sembra incerto nell’attribuire la responsabilità all’imperatore, e accenna a dicerie popolari.[15] Plinio il Giovane e Svetonio non hanno dubbi in proposito. L’imperatore accusò i cristiani di essere gli autori dell’incendio. Da questo momento, e fino all’editto di Gallieno[16] del 260, il Cristianesimo venne considerato nell’impero come «religio illicita», soggetta perciò a repressione.
Gli studiosi si sono domandati quale fosse la base giuridica di questa illiceità, e delle persecuzioni che ne seguirono. Le ipotesi classiche sono tre:
- Edmond-Frédéric Le Blant[17] sostiene che i cristiani sono stati perseguitati e condannati in base a leggi penali comuni, in particolare contro i crimini di sacrilegio e di lesa maestà.
- Christian Matthias Theodor Mommsen[18] afferma che le persecuzioni romane furono decise in base allo ius coercitionis, cioè al solo potere di polizia per difendere l’ordine pubblico; è un intervento giuridico dell’autorità.
- Kamiel Callewaert[19] ritiene che i cristiani siano stati perseguitati in base a leggi speciali (editto imperiale o senatoconsulto) da identificare con l’institutum Neronianum, di cui fa riferimento Tertulliano[20], o con altre leggi, per cui era vietato anche il solo nome di cristiano: Christianos esse non licet.
Ipotesi successive
Esistono anche ulteriori ipotesi che qui di seguito si riportano.
- Per Henri Grégoire[21] non esistono leggi contro i cristiani. Infatti, i magistrati romani sono spesso esitanti, mentre sono le passioni popolari, i pregiudizi locali, gli atteggiamenti estremisti degli intransigenti a costringerli a intervenire contro i cristiani.
- Èlie Griffe[22] pensa all’esistenza di una legge antica che proibiva l’introduzione di nuovi culti e divinità senza il consenso del Senato. Quest’ultima divenne norma tradizionale, disciplina rimasta in vigore anche contro i cristiani. È documentato il fatto che Tiberio, informato da Pilato, tentò nel 35 d.C. di far riconoscere la religione cristiana per sottrarla al controllo del giudaismo ufficiale e per pacificare la Palestina[23], ma il Senato romano respinse la proposta (non per ostilità verso il Cristianesimo, ma per affermare la propria indipendenza dall’imperatore). Tale divieto rimase in vigore fino alla metà del III secolo come prassi giuridica, anche se temperata dalla politica tollerante di Roma.
- Marta Sordi[24] ribadisce come la politica religiosa dell’impero fosse di larga tolleranza, ma trovò dei limiti nella tradizione e nel costume romano. Ne sono prova la legge contro i Baccanali nel 186 a.C. e il senatoconsulto del 35 d.C. Quest’ultimo fu e rimase lo strumento legale usato contro i cristiani: in sostanza, la nuova religione era proibita, ma tollerata.
Altri autori sottolineano aspetti diversi che possono spiegare le contraddizioni e le oscillazioni delle autorità romane. Si riportano qui di seguito le diverse posizioni.
- Il Cristianesimo era tollerato come religione, ma era perseguitato come fatto politico, perché non autorizzato (Simeon L. Guterman[25]);
- gli imperatori non furono uomini sanguinari, ma i restauratori della «pietas» romana verso gli dèi (Joseph Vogt[26]);
- Roma non avvertì affatto la necessità di leggi contro il Cristianesimo: perché cercarle a tutti i costi? (Benedetto Prete[27]);
- il problema delle persecuzioni non è astratto, ma concreto: bisogna studiare caso per caso l’azione dei singoli imperatori. Ciò spiega perché a periodi di persecuzione si alternano periodi di pace (Alberto Pincherle[28]).
Qualche considerazione
È certamente presente un’ ostilità verso i cristiani, specie tra i ceti popolari. Tra i pagani è alimentata dal fanatismo religioso. Presso i Giudei deriva da un’invidiosa avversione. Tale ostilità nacque all’indomani dell’incendio di Roma. Esiste pure un contrasto di fondo tra la religione dello Stato romano e il Cristianesimo. Nacque perciò una specie di prassi giuridica che permetteva ai magistrati di intervenire e di processare i cristiani come tali. Indubbiamente il motivo religioso fu sempre alla base delle persecuzioni. Il cristiano che persisteva nel confessare la fede, veniva senz’altro punito. Chi, invece, la rinnegava, era rilasciato senza ulteriore indagine in merito a suoi presunti delitti.
Politica e religione. Da “religio illicita” a “religio licita”
I motivi di conflitto tra Cristianesimo e impero, e soprattutto le ragioni dell’intolleranza romana sfociata nelle persecuzioni, hanno un fondamento di natura religiosa, non politica.
L’impatto tra il Cristianesimo e l’impero romano, nei primi tre secoli di storia, subisce una profonda evoluzione: dallo scontro duro delle persecuzioni all’accettazione completa.
Quando Nerone, nel luglio del 64, mutò il suo atteggiamento verso i cristiani, si servì dello strumento giuridico del senatoconsulto del 35 d.C. La persecuzione del Cristianesimo come «religio illicita» è già in atto: lo testimoniano Svetonio, la Seconda Lettera di Paolo a Timoteo, scritta da Roma durante la seconda prigionia, alla vigilia del martirio; la Prima Lettera di Pietro, scritta negli stessi anni, che parla di «incendio della persecuzione che si è acceso in mezzo a voi…» (4,12).
Si ricorda inoltre che la fine del 62 segna una svolta decisiva nella politica neroniana e un mutamento radicale nei confronti del Cristianesimo. Da quel momento, fino al 257, anno in cui Valeriano[29] modificò la legislazione anticristiana, l’accusa ufficiale rimase sempre la stessa: religio illicita, non licet esse vos! Il solo nome di cristiano bastava per essere condannati dai tribunali romani.
Sono pure note agli studiosi le definizioni «religiose» del Cristianesimo da parte degli scrittori pagani:
- per Publio Cornelio Tacito è una «superstitio exitiabilis»[30];
- per Gaio Svetonio Tranquillo, è una «superstitio nova et malefica»[31];
- per Plinio il Giovane (Gaio Plinio Cecilio Secondo) è una «superstitio prava et immodica»[32].
L’atteggiamento dei vari imperatori segue una traiettoria lineare: nel rescritto di Traiano[33] a Plinio (del 112, primo documento ufficiale che si possiede) l’unica prova richiesta ai cristiani a propria discolpa è il sacrificio agli dèi, segno che la sola colpa rimproverata è di natura religiosa e individuale.
Nel rescritto di Adriano[34] a Minucio Fundano[35] (128), viene confermata la giurisprudenza corrente, ma si esigono accuse fondate e regolari processi.
Gli imperatori successivi tornano alla lettera e allo spirito del rescritto traianeo. Perfino nel rescritto di Decio[36], nel 251, sembra che tutti i cittadini dell’impero romano siano accusati di Cristianesimo, perché richiede a ogni persona di sacrificare agli dèi.
Solo dopo il fallimento di questa persecuzione indiscriminata, dalla quale lo Stato uscì ridicolizzato perché migliaia di cristiani si fornirono di certificati (libelli) che li scagionavano, Valeriano rinnovò profondamente la legislazione con gli editti del 257-258. Vietò infatti le riunioni dei cristiani e gli atti di culto, minacciando l’esilio e la morte ai capi della gerarchia ecclesiastica e ai laici più eminenti.
In definitiva era avvenuto questo cambiamento: mentre negli anni di Traiano si colpiva il Cristianesimo come colpa individuale, nel periodo di Valeriano lo si perseguitava come Chiesa, gerarchia, organizzazione illecita, colpa collettiva.
Questo riconoscimento di Valeriano, sia pure in negativo, fu la premessa del riconoscimento positivo di Gallieno il quale, con l’editto del 260, revocò gli editti paterni, fece cessare la persecuzione e riconobbe la Chiesa come gerarchia e comunità di culto, soggetto di diritti e capace di proprietà.[37]
Seguirono circa quarant’ anni di pace finché Diocleziano[38], con gli editti del 303-304, non ordinò di nuovo la persecuzione. Ma in questo periodo il Cristianesimo venne considerato «religio licita». Ne sono prova:
- le dispense dagli atti di culto pagano concesse ai magistrati cristiani;
- il processo a Massimiliano, noto come cristiano, che nel 295 viene condannato non come tale, ma perché obiettore di coscienza;
- l’editto di tolleranza dell’imperatore Galerio[39] nel 311, che permetteva «ut denuo sint christiani», cioè come dopo l’editto di Gallieno del 260.
Alcune sottolineature
Nei circa 250 anni che separano le prime misure anticristiane di Nerone dall’editto di Galerio le persecuzioni nell’impero romano furono sporadiche e assai limitate nei loro effetti (eccetto quelle di Decio, Valeriano e l’ultima di Diocleziano). Il divieto di Traiano di una ricerca d’ufficio dei cristiani («conquirendi non sunt», scrive a Plinio) rimase la regola generale seguita dagli imperatori (tranne Marco Aurelio[40], Valeriano e Diocleziano).
Questa spontanea autolimitazione da parte dello Stato, il fatto che il Cristianesimo fosse perseguitato solo come colpa religiosa individuale almeno fino a Valeriano, la condanna della Chiesa gerarchica organizzata, seguita poi dal suo riconoscimento positivo, dimostrano che la religione di Cristo non fu considerata dagli imperatori romani un pericolo politico, ma solo un’ entità religiosa.
Motivazioni non politiche ma religiose
Il Cristianesimo non venne avvertito come un pericolo politico, né per la sua organizzazione ecclesiastica, che non venne colpita, né per la sua opposizione al culto imperiale, perché Traiano e Decio chiesero sempre e solo ai cristiani un atto di culto agli dèi, non all’imperatore, nonostante le accuse degli avversari. Tanto meno fu ritenuto un pericolo politico per il suo atteggiamento verso la schiavitù, che voleva abolire proclamando l’uguaglianza e la fratellanza di tutti, senza però squilibrare la struttura schiavi-padroni.
Gallieno, revocati gli editti paterni, restituì subito ai cristiani i beni di proprietà della Chiesa, che erano stati confiscati da Valeriano e da Diocleziano.
Solo un aspetto dell’atteggiamento dei cristiani preoccupò l’impero dal punto di vista politico, e fu la loro astensione dalle cariche pubbliche, che alla fine del II secolo assunse proporzioni notevoli e provocò la reazione dell’imperatore Marco Aurelio.
Ma per la massa dei cristiani tale astensione fu una misura di prudenza, non un atteggiamento di principio, e venne superata facilmente quando la Chiesa uscì dalla clandestinità. Anzi nel 257, al tempo del primo editto di Valeriano, la partecipazione dei cristiani alla vita dello Stato allarmò gli avversari. Questi temettero una «cristianizzazione» dell’impero ed eliminarono i laici cristiani delle classi dirigenti. Lo stesso avvenne nel 297, con l’epurazione militare voluta da Diocleziano e con gli editti persecutori del 303-304.
Le persecuzioni nacquero da motivi religiosi: nei primi due secoli, eccetto gli anni di Nerone e Domiziano, le pressioni delle masse segnate da fanatismo, specie in Oriente, sollecitavano l’intervento dello Stato contro i cristiani che, rifiutando il culto agli dèi, erano colpevoli di attirare le maledizioni divine.
Si estesero poi nella crisi del III secolo, quando l’angoscia apocalittica delle masse arrivò fino al potere centrale, che volle assicurarsi la protezione divina.
In quell’epoca, religione e politica tornarono a fondersi nello Stato come nell’età arcaica, e i motivi della persecuzione furono insieme religiosi e politici.
Motivi pratici e dottrinali
Il Cristianesimo inoltre appariva ai pagani una «superstitio nova» e i suoi seguaci vivevano in modo assolutamente diverso da loro: rifuggivano dalle cariche pubbliche e dagli spettacoli del circo, vivevano appartati, formavano quasi un «tertium genus». Tutto ciò era sufficiente perché fossero sospettati, odiati e giudicati sovversivi dell’ordine pubblico. Perciò sono dichiarati «nemici del genere umano», cioè di Roma e del suo patrimonio religioso, culturale e sociale.
Il loro modo di vivere qualificava i cristiani come atei ed empi agli occhi dei pagani: infatti rifiutavano di venerare gli dèi che avevano fatto grande l’impero; di conseguenza dovevano considerarsi nemici anche della patria, e perciò da eliminare. La loro religione non solo era nuova, straniera, non legale, ma anche sovversiva e rivoluzionaria: insegnava l’uguaglianza e l’amore tra tutti gli uomini, cosa inaudita e assurda per un romano. Paolo e Sila erano stati denunziati ai magistrati di Filippi perché sobillavano la città, insegnando una dottrina che non poteva essere accettata e praticata dai Romani (At 16,20).
I cristiani costituivano quasi «una società nella società» e, per seguire il loro ideale, non esitavano a disapplicare le leggi, quando le giudicavano contrarie alle loro opinioni. Tale era la mentalità corrente nel mondo romano. A questi motivi di indole pratica e dottrinale, si aggiungono le accuse e le calunnie divulgate con faciloneria e dalle masse credute ciecamente: per esempio, gli atti di incesto e di immoralità compiuti nelle adunanze liturgiche. È spiegabile, quindi, che le autorità e il popolo si sforzassero di eliminare una così nefasta razza di uomini. I cristiani dei primi secoli vissero perciò in una atmosfera ostile, che si concretizzò spesso in misure di particolare violenza: le persecuzioni.
Il messaggio “politico” del Cristianesimo
Non si deve però ritenere che tra Cristianesimo e impero ci fossero sempre scontri violenti e totale opposizione reciproca. Infatti, per lunghi periodi si determinarono possibilità di coesistenza.
Non è neanche necessario immaginare i diversi imperatori come despoti sanguinari, intenti a dare la caccia ai cristiani per sfogare la loro crudeltà.
Per amore di simbolismo, fin dall’antichità (il presbitero Paolo Orosio[41], il vescovo Agostino di Ippona[42]) si parlò di dieci persecuzioni romane. In realtà, esse furono molte di più e molte di meno, secondo i punti di vista. 1] Di più, se si contano gli episodi di contrasto, i casi di processo, il numero dei martiri; 2] di meno, se intendiamo per persecuzioni le repressioni sistematiche e generali, perché queste si verificarono solo molto tardi, e in tre o quattro occasioni.
Infine, è utile ricordare che le persecuzioni ebbero inizio fin dal tempo di Gesù e degli apostoli per la dialettica insita nel loro messaggio «politico»: «Date a Cesare quello che è di Cesare» e «Il mio regno non è di questo mondo»; «Ogni autorità viene da Dio» e «Non possiamo ubbidire agli uomini»…
Una pagina di Tertulliano, nella sua descrizione realistica, riassume la situazione: «Le sofferenze degli apostoli ci mostrano quale sia la loro dottrina su questo punto; per comprenderla basta scorrere il libro degli Atti. Vi trovo ovunque percosse, ferri, sferze, spade, giudei che insultano, popoli in furore, tribuni che diffamano, proconsoli che giudicano. Pietro viene ucciso, Stefano lapidato, Giacomo immolato, Paolo decapitato: ecco i fatti scritti col sangue. Gli annali dell’impero parlano come le pietre di Gerusalemme: apro la vita dei Cesari e leggo che Nerone insanguina Roma, culla della fede. Ovunque leggo, imparo a soffrire per Cristo».[43]
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[1] Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche, XX, 200-203.
[2] Porzio Festo fu nominato dall’imperatore Nerone governatore della Giudea. Sostituì in tal modo Marco Antonio Felice che era stato accusato di corruzione. La data di inizio della sua magistratura non è certa (forse tra il 58 ed il 60 d.C., come indicato anche dalla moneta da lui coniata). E’ sicura al contrario la data della fine del mandato che coincide con la sua morte nel 62 d.C.
[3] Anano: si tratta del sommo sacerdote Anna che tenne il sommo sacerdozio dal 6 al 15 d.C.. Lui e Giuseppe, soprannominato Caifa, suo genero e sommo sacerdote dal 18 al 36 ca si attivarono per far condannare Gesù.
[4] Clodio Albino: governò la Giudea dal 62 al 64 d.C.
[5] Agrippa II, figlio di Agrippa I, tetrarca di Calcide dal 50 al 53 d.C.
[6] Con il termine “zeloti” si indicavano gli adepti a un’associazione politico-religiosa di «zelanti» della legge ebraica. I loro ideali erano l’osservanza molto rigorosa della legge e l’indipendenza politica ottenuta in modo violento. La prima manifestazione di questa associazione si ebbe all’inizio della dominazione romana e fu capeggiata da Giuda il Galileo. Quest’ultimo fu sconfitto e ucciso. In seguito ci furono nuove insurrezioni antiromane nel periodo del procuratore Tiberio Alessandro, e soprattutto negli ultimi mesi antecedenti la guerra con Roma che portò alla distruzione di Gerusalemme.
[7] Ponzio Pilato (12 a.C.-38 d.C.). Quinto prefetto romano della Giudea. In carica tra il 26 d.C. e il 36 d.C.
[8] H. K. Bond, Ponzio Pilato. Storia e interpretazione, edizione italiana a cura di G. Firpo, Paideia, Brescia 2008.
[9] Caifa fu sommo sacerdote. Capo del Sinedrio dal 18 d.C. al 36 d.C.
[10] Lucio Vitellio il Vecchio (5 a.C.-51 d.C.). Nel periodo dell’imperatore Tiberio, fu console nel 34 e governatore della Siria nel 35.
[11] Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche, 18, 4, 3.
[12] Nel 1887 venne scoperta a Roma una pietra segnaconfine dell’imperatore Claudio in cui è citato Sergio Paolo. Detta pietra registra l’incarico (47 d.C.) assegnato ai sovrintendenti agli argini e all’alveo del fiume Tevere, uno dei quali era Sergio.
[13] M. Sordi, Il cristianesimo e Roma, Cappelli, Bologna 1965, p. 76. Della stessa A. cf anche: I cristiani e l’impero romano, Jaca Book, Milano 2011.
[14] Nerone Claudio Cesare Augusto Germanico (37-68). Quinto imperatore. L’ultimo appartenente alla dinastia giulio-claudia. Regnò per quattordici anni, dal 54 al 68.
[15] Tacito, Annali, 15, 38ss.
[16] Gallieno (nato nel 218): imperatore dal 253 al 268.
[17] Edmond-Frédéric Le Blant (1818-1897). Archeologo e storico.
[18] Christian Matthias Theodor Mommsen (1817-1903). Storico, numismatico, giurista, epigrafista, filologo.
[19] Kamiel Callewaert (1866-1943). Sacerdote e storico.
[20] Tertulliano, Ad nationes, I, 7, 13-14.
[21] Henri Jean-Baptiste Grégoire (1750-1831).
[22] Èlie Griffe (1899-1978). Cf: Les persécutions dans l’empire romain de Néron à Dèce. A propos d’un Mémoire de M. Henri Grégoire, Institut catholique de Toulouse, Toulouse 1952.
[23] Tertulliano, Apologeticum, 5, 2.
[24] Marta Sordi (1925-2009). Storica.
[25] Simeon L. Guterman (1907-1997). Cf. Religious toleration and persecution in ancient Rome, Aiglon Press, London 1951.
[26] Joseph Vogt (1895-1986). Storico.
[27] Benedetto Prete (1916-2003). Domenicano. Sacerdote. Insegna Esegesi dell’Antico e del Nuovo Testamento. Autore di molteplici opere specialistiche.
[28] Alberto Pincherle (1894-1979).
[29] Valeriano (nato nel 200ca): imperatore dal 253 al 260.
[30] Tacito, Annali, 15, 44.
[31] Svetonio, Vita di Nerone, 16, 2.
[32] Plinio, Lettere, 10, 96.
[33] Traiano (nato nel 53 d.C.): imperatore dal 98 al 117.
[34] Adriano (nato nel 76 d.C.): imperatore dal 117 al 138.
[35] Gaio Minucio Fundano, proconsole d’Asia nel 122-123 d.C.
[36] Decio (nato nel 201): imperatore dal 249 al 251.
[37] Eusebio, Historia Ecclesiastica, VII, 13.
[38] Diocleziano (nato nel 244): imperatore dal 284 al 305.
[39] Galerio (nato nel 250ca): imperatore (durante la tetrarchia) dal 293 fino al 311.
[40] Marco Aurelio (nato nel 121). Imperatore dal 161 fino al 180.
[41] Paolo Orosio (375ca-420ca; di origine portoghese). Presbitero. Storico. Apologeta. Redasse gli Historiarum adversos paganos libri VII.
[42] Aurelio Agostino di Ippona (santo; 354-430). Filosofo, teologo. Vescovo di Ippona (395-430). Padre e Dottore della Chiesa. Cf anche: A. Trapè, Introduzione generale a sant’Agostino, Città Nuova, Roma 2006.
[43] Tertulliano, Scorpiace, 15.