STEPINAC: LA SCELTA DI RESTARE

di Pier Luigi Guiducci -

Inviso tanto agli ustaše di Ante Pavelić quanto ai comunisti di Tito, l’arcivescovo di Zagabria  Alojzije Viktor Stepinac (1898-1960)  non ebbe né le doti di un raffinato politico né i tatticismi di uno stratega di partito. Nuovi documenti ne mettono in luce il prodigarsi, durante la guerra, nella difesa di ebrei, serbi e musulmani, e le aperte condanne alle teorie razziste e nazionaliste. Pagò con il carcere e con la vita il tentativo di contrastare l’assoggettamento della chiesa croata al comunismo titino.

Non furono solo i nazisti a cercare delle vie di fuga dopo il crollo del Terzo Reich. Anche coloro che avevano sostenuto il regime hitleriano, come alleati o collaborazionisti, si trovarono costretti a lasciare le proprie terre per non essere catturati dalle forze armate dei vincitori. Ciò avvenne pure in terra croata, malgrado un’iniziale ma debole resistenza anti-comunista [1]. In questo Paese, nel 1941, si erano verificati una serie di mutamenti politici che avevano condotto all’affermazione di un movimento nazionalista e alla proclamazione di una debole indipendenza. Per meglio comprendere lo svolgimento dei fatti è utile evidenziare alcune coordinate storiche [2].

Il contesto storico

La Croazia faceva parte, con la Serbia, il Montenegro, la Macedonia e la Slovenia, di un regno sorto nel 1919, dopo la dissoluzione dell’impero austro-ungarico da parte delle potenze europee allora dominanti [3]. Il potere interno era stato affidato alla casa reale serba dei Karađorđević [4]. Tale assetto rimaneva, però, il risultato di un accordo affrettato tra le varie nazionalità slave. Per Croati e Sloveni il nuovo Stato avrebbe dovuto essere una federazione, con ampio decentramento, ove ogni popolo doveva mantenere le proprie istituzioni e tradizioni culturali. I Serbi, invece, che avevano pagato a caro prezzo la guerra contro l’Austria-Ungheria (e che si sentivano perciò moralmente autorizzati a porsi a capo del nuovo Stato), pensavano a un’unione degli Stati del sud (con centro Belgrado) per realizzare la Grande Serbia.
Il re Alessandro I Karađorđević (1921-1934), e il suo successore, il principe Paolo (reggente [5], 1893-1976), si dimostrarono dei semplici esecutori dell’indirizzo politico che fu loro imposto dalla classe dominante serba e dalla gerarchia della Chiesa ortodossa. Ciò fece sì che la Corona, legata agli interessi serbo-ortodossi (di cui, di fatto, era espressione), assumesse un atteggiamento non favorevole alla Chiesa cattolica. Vicenda-chiave della tendenza anti-cattolica fu la questione del concordato tra il regno di Jugoslavia (dal 1929) e la Santa Sede [6]. Il testo dell’intesa, dopo anni di trattative, fu firmato dalle due parti nel 1935 e votato dal Parlamento nazionale nel 1937; non arrivò, però, alla ratifica in senato perché il santo sinodo della Chiesa ortodossa aveva scomunicato perfino coloro che lo avevano votato in Parlamento.
Subito dopo il principe Paolo Karađorđević, per assicurarsi l’appoggio della gerarchia ortodossa, ritirò il concordato con la Santa Sede. Ciò ridusse i cattolici jugoslavi a cittadini di seconda categoria, anche se questi in quegli anni si dimostrarono molto attivi nelle iniziative caritative, associative e culturali.
Dopo la sconfitta della Francia (1940), e l’adesione di Romania, Bulgaria e Ungheria al Patto tripartito (Germania, Italia e Giappone) [7], il regno jugoslavo si alleò con le potenze dell’Asse. Il 6 aprile del 1941, in seguito a un fallito colpo di Stato [8], nazisti e fascisti invasero i territori soggetti alla monarchia dei Karađorđević [9].
Al momento della spartizione, la Germania impose l’annessione al Reich della parte settentrionale (e maggiore) della Slovenia, un regime di occupazione militare in Serbia, amministrata da un governo fantoccio (generale Milan Nedić, 1878-1946), e una sua amministrazione diretta nel Banato, oltre al controllo assoluto delle risorse economiche (soprattutto minerarie) del Paese. L’Italia, da parte sua, entrò in possesso di tre zone che furono annesse direttamente al territorio italiano. Queste erano: la fascia costiera a sud-est di Fiume [10]; la metà meridionale della Slovenia con Lubiana, denominata Provincia di Lubiana; una parte rilevante del litorale della Dalmazia [11].
Tra le formazioni statali più estese, derivanti dal dissolvimento della monarchia jugoslava, vi fu il nuovo Stato Indipendente di Croazia (Nezavisna Država Hrvatska, N.D.H.). Comprendeva, infatti, anche la Bosnia-Erzegovina e la parte occidentale della Vojvodina. Questa entità politica venne divisa in due aree di influenza (tedesca ad oriente ed italiana ad occidente) separate da una linea di demarcazione che l’attraversava in senso longitudinale passando ad ovest di Zagabria e di Sarajevo. La corona di Croazia venne offerta ad Aimone di Savoia-Aosta (1900-1948) [12], che l’accettò sul piano formale. Assunse il nome di Tomislav II (Tomislavo) per ricollegarsi a un precedente monarca [13], ma – per le precarie vicende locali – non raggiunse mai il Paese. Al vertice dell’amministrazione croata i tedeschi insediarono Ante Pavelić (1889-1959) che divenne il Poglavnik (=colui che è alla testa) [14]. Il suo più stretto collaboratore fu Andrija Artuković (1899-1988)[15].

Pavelić e gli ustaše

Ante Pavelić

Ante Pavelić

Nato a Bradina, Pavelić si laureò in giurisprudenza a Zagabria. Entrato in politica, divenne membro del Hrvatska Stranka Prava (H.S.P.; Partito Croato dei Diritti). Si trattava di una formazione ostile alla monarchia e favorevole all’indipendenza della Croazia [16]. Fu eletto consigliere municipale a Zagabria e deputato al parlamento nazionale (Skupština) di Belgrado nel 1927. Durante un periodo di esilio (a Vienna e in Italia [17]) motivato dalle vicende politiche del suo Paese [18], Pavelić fondò (1929) un movimento nazionalista, gli ustaše [19] (da ustaš, “insorto”, o “ribelle”, in italiano ùstascia) [20]. Il gruppo aveva, e mantenne, una limitata base popolare. Di fatto era un’organizzazione clandestina con caratteri paramilitari. Dopo ulteriori avvenimenti, tra i quali l’omicidio di Alessandro I [21], il duce croato poté tornare in patria al seguito delle truppe nazifasciste.

Pavelić e la Santa Sede

Arrivato al potere con il sostegno di Hitler, Pavelić tentò di ottenere il riconoscimento internazionale del nuovo Stato. Non vi riuscì. Cercò anche un appoggio dalla Santa Sede, mettendo in evidenza la cattolicità dei croati. Anche in questo caso non ottenne quanto desiderava. Il Vaticano non riconobbe lo Stato Indipendente di Croazia. Pavelić fece inoltre istanza per ottenere un’udienza ufficiale da Pio XII. Il Papa accettò di riceverlo (18 maggio 1941) ma solo in qualità di persona privata. In tal modo non gli venne riconosciuto il ruolo di capo della Croazia, né gli si attribuì alcuna leadership cattolica. Ciò indispose il duce di Zagabria che se ne lamentò con gli italiani [22]. Pavelić chiese pure di avere nel suo Paese un nunzio pontificio. Mancò anche questo obiettivo. Non fu inviato nessun nunzio. Per le esigenze interne della Chiesa nazionale, fu assegnato (1941) un semplice “Visitatore Apostolico presso l’episcopato croato”. Si trattò di monsignor Giuseppe Ramiro Marcone (1882-1952)[23]. I suoi interventi riguardarono aspetti di rappresentanza e di tutela della vita ecclesiale: organizzazione diocesi, situazione degli istituti religiosi, attività dei santuari, opere caritative [24]. Questo Visitatore non venne scelto tra i diplomatici vaticani ma tra i religiosi. Era, infatti, un monaco benedettino.
Pavelić, oltre ai rapporti internazionali, si occupò della situazione interna. In tale ambito, mentre cercò di eliminare ogni oppositore, fu costretto anche a interagire con un interlocutore non aggressivo ma molto chiaro nelle scelte di fondo: l’arcivescovo di Zagabria.

Il confronto con l’arcivescovo Stepinac

Pavelić e Stepinac

Pavelić e Stepinac

Le più recenti ricerche storiche sulle vicende balcaniche del periodo qui considerato [25], le testimonianze di alcuni ambasciatori europei allora accreditati presso quegli Stati e i documenti utilizzati per il processo di beatificazione di Stepinac [26], forniscono molti dati per comprendere la figura dell’arcivescovo di Zagabria. Nato a Krašić, Alojzije Viktor (Luigi Vittorio) Stepinac (1898-1960) proveniva da una famiglia contadina benestante. Risale al 1924 la scelta di diventare sacerdote. Trasferitosi a Roma, studiò presso l’università Gregoriana. Risiedeva nel pontificio collegio germanico-ungarico. La sua ordinazione presbiterale avvenne nell’Urbe (1930). Tornato in patria, ricevette il compito di responsabile della Caritas di Zagabria, istituita nel 1931. Nell’inverno del 1933 promosse le cucine popolari per i poveri e per gli studenti. Nel 1934 iniziò la pubblicazione e curò la redazione della rivista Karitas con il primo articolo di apertura: «Vo­gliamo con l’amore attivo elevare la gloria di Dio. Essendo le nostre intenzioni pulite e lo scopo elevato non ci faremo disorientare da obiezioni né di destra né di sinistra. Sappiamo molto bene e sentiamo che i tempi sono molto difficili. Ma l’amore attivo è tanto più necessario quanto più la situazione e difficile» [27].
Il 29 maggio del 1934 il Papa Pio XI (1922-1939) [28] nominò il giovane Alojzije (36 anni) arcivescovo coadiutore con diritto di suc­cessione. Il rito di consacrazione fu celebrato il 24 giugno dello stesso anno dall’arcivescovo Anton Bauer (morto nel 1937) [29]. Deceduto quest’ultimo[30], Stepinac gli subentrò nel ruolo [31]. Le sue origini croate spiegano la viva partecipazione con la quale seguì i mutamenti avvenuti in patria. Valutò in positivo il processo di indipendenza. Sostenne la valorizzazione dell’identità, della cultura e della storia croata. Condivise l’affermazione che il cattolicesimo era un elemento-chiave dell’identità croata.
La Chiesa cattolica, durante il regno jugoslavo, aveva infatti sofferto molte discriminazioni: furono edificate chiese ortodosse in centri storicamente e di fatto interamente cattolici, vennero favoriti in ogni modo i matrimoni misti a danno della Chiesa cattolica, si ostacolò l’apertura di nuove scuole cattoliche e si cercò di far scomparire quelle già esistenti, fu quasi impossibile per i cattolici accedere ai gradi più elevati dell’amministrazione, dello Stato e dell’esercito [32]. Le regioni notoriamente cattoliche vennero in modo sistematico ‘occupate’ da ortodossi [33].
Stepinac non dimostrò mai, però, un fanatismo nazionalista; anzi, riprovò questo atteggiamento, ad esempio, in un’omelia agli universitari di Zagabria (27 marzo 1938): «Se pertanto l’amore verso la nazionalità supera il confine del buonsenso, allora non è amore ma passione, non è utile e neppure di lunga durata (…). L’amore per la propria nazione non deve fare l’uomo una bestia feroce, ma nobilitarlo (…)» [34].
Mons. Stepinac non ebbe né le doti di un raffinato politico, né le astuzie di un faccendiere, né i tatticismi di uno stratega di partito, né la passionalità del fazioso. Dimostrò di essere solo un pastore chiamato a confermare nella fede il proprio popolo. Per tale motivo, e per la resistenza a dottrine e prassi non evangeliche, fu avversato sia dagli ustaše (non esiste un solo filmato o una foto che lo ritrae con la mano alzata nel saluto ustaša) che dai comunisti (ai quali negò una propria separazione dalla Chiesa cattolica). In tale contesto, Pavelić, pur non stimando l’arcivescovo, lo ritenne comunque utile per la propaganda di regime [35].
Da una parte, non lo considerò mai un interlocutore reale, diffidò di lui, lo fece controllare e seguire negli spostamenti, dette ordine di non divulgare le sue omelie o altri interventi. Dall’altra, lo vide – in gran parte dei casi – in occasione di ricorrenze (specie quelle nazionali) alle quali erano soliti intervenire gli esponenti del mondo croato. Sul piano formale gli volle attribuire alcuni ‘titoli’ per far conoscere in pubblico la sua ‘premura’ verso l’arcivescovo. In realtà fu tutta apparenza. Stepinac, ‘membro del parlamento’, non partecipò alle ordinarie sedute di quest’organismo, e lo stesso incarico nel movimento degli ustaše fu superfluo perché Stepinac, in quanto presidente dei vescovi croati, aveva già il titolo per seguire ogni realtà sociale del Paese.

1941. Le prime ore della speranza

La proclamazione ufficiale dell'indipendenza dello Stato croato

La proclamazione ufficiale dell’indipendenza dello Stato croato

La proclamazione ufficiale dell’indipendenza dello Stato croato avvenne il 10 aprile del 1941. Ci furono festeggiamenti in tutto il Paese. L’arcivescovo non volle essere estraneo all’evento. Lo comunicò in cattedrale. Utilizzò quell’ora per tentare di slargare lo spazio alla speranza. Scrisse ai sacerdoti: «Poiché conosco gli uomini che oggi hanno in mano i destini del popolo croato, sono profondamente convinto che il nostro lavoro troverà in essi comprensione e sostegno. Credo e confido che la Chiesa potrà annunciare con piena libertà gli immutabili principi dell’eterna giustizia e della verità» [36].
Dietro a questa affermazione non c’era comunque ingenuità. Stepinac si rendeva conto che la libertà e l’indipendenza appena proclamata erano dei fatti apparenti. I veri padroni della Croazia (nazisti e fascisti) già controllavano la vita del Paese. Uscendo dalla cattedrale, e avendo sentito l’esultanza dei giovani, nonostante ci fossero già in piazza i carri armati tedeschi, disse a mons. Hren Dragutin (1895-1972): «Proprio questa ragazzaglia conosce cosa sia lo zoccolo prussiano! Chi più desideroso di me che ci sia una Croazia libera? Ma non me la posso aspettare dalla paganeggiante Germania. Non credo che Hitler voglia aiutarci a conquistare l’indipendenza» [37].

I drammi. La difesa dei serbi

Subito dopo la proclamazione dell’indipendenza ebbero inizio le violenze contro i serbi che dimoravano nello Stato croato. Deportazioni, uccisioni di massa, conversioni forzate al cattolicesimo. Di questa campagna persecutoria, senza dubbio, la propaganda serba prima e quella comunista poi hanno esagerato ampiamente le dimensioni, anche per nascondere le stesse violenze compiute dai cetnici [38] e dai partigiani contro la popolazione croata cattolica e musulmana [39]. Le persecuzioni comunque avvennero. E furono sanguinose. Dalle fonti che oggi si possono consultare risulta che Stepinac, informato sui drammi in corso, non esitò a intervenire presso il Poglavnik [40]. Una delle prime iniziative riguardò il vescovo ortodosso Dositej Vasich (1887-1945) [41], arrestato nella primavera del 1941 dagli ustaše. Nel mese di aprile Stepinac trattò per il suo rilascio. Alla fine fu liberato [42].
Le denunce dell’arcivescovo furono così frequenti [43] che Pavelić, nell’aprile del 1941, irritato per le sue continue pressioni a favore dei perseguitati, nel decreto con il quale ordinò ai non croati di lasciare il Paese entro otto giorni pena l’espulsione forzata, concluse proibendo ogni iniziativa, «di tutti e di ciascuno», a favore dei deportati e degli ostaggi politici. Il provvedimento stabilì inoltre che: «Ogni intervento sarà considerato sabotaggio e punito severamente» [44].
Ma mons. Stepinac non si fermò. Intervenne poco dopo presso il dittatore per denunciare l’uccisione (una rappresaglia) di ostaggi innocenti: «L’arcivescovo è venuto a sapere che questa notte si è deciso di fucilare i serbi che sono in ostaggio, imprigionati a Zagabria [...]. Secondo la morale cattolica non è lecito uccidere l’ostaggio per un delitto commesso da altri. Questo sarebbe paganesimo e non potrebbe portare la benedizione di Dio» [45].

Deportazioni

Stepinac

L’arcivescovo Stepinac

Il 16 maggio 1941 l’arcivescovo protestò contro la deportazione della popolazione serba di Kordun e si interessò della sorte dei deportati del distretto di Sisak. All’indomani del massacro di duecentosessanta serbi ortodossi a Glina da parte degli ustaše (maggio 1941), inviò una lettera di protesta a Pavelić: «Poglavnik! In questo momento ho ricevuto la notizia che a Glina gli ustaše hanno fucilato senza processo e inchiesta 260 serbi. Io so bene che i serbi hanno commesso gravi misfatti in questi venti anni di governo. Credo però mio dovere di Vescovo di alzare la mia voce e dichiarare che questo non é lecito secondo la morale cattolica; quindi, Vi prego di prendere le misure più urgenti in tutto il territorio dello Stato croato indipendente, affinché non venga ucciso nemmeno un serbo se non è dimostrato il delitto per il quale merita la morte. Altrimenti non possiamo attendere la benedizione del Cielo, senza la quale dobbiamo soccombere» [46].
Il 21 luglio 1941 protestò contro il trattamento disumano riservato a chi era internato nei campi di concentramento. Nello stesso mese, con l’aiuto del laicato e di religiose, riuscì a salvare da morte sicura moltissime donne serbe catturate dagli ustaše. Tra il 1942 e il l944, grazie a una rete di collaboratori, l’arcivescovo arrivò a proteggere (facendoli ospitare in istituti religiosi o presso famiglie di Zagabria) un alto numero di bambini. Una gran parte di loro, che proveniva da famiglie ortodosse e partigiane[47], era rimasta senza assistenza dopo la battaglia di Kozara del 1942 [48]. I piccoli aumentarono di numero quando ne arrivarono altri dai campi di concentramento posti in Dalmazia.

Contro le conversioni forzate

L’arcivescovo si attivò anche contro i processi di conversione forzata imposti dal regime con una serie di decreti. Tali atti servirono al governo per regolare le “conversioni” e per impedire il passaggio al cattolicesimo di ortodossi provenienti dai ceti più colti e ricchi. Si temeva, infatti, una loro influenza nel nuovo regime. Questa campagna governativa rappresentò un’ingerenza dello Stato in un ambito ecclesiale. Stepinac intervenne protestando presso le autorità centrali. Inviò anche lettere circolari al clero per ricordare che: «la fede è questione della libera coscienza e perciò nel decidersi ad abbracciarla devono essere esclusi tutti i motivi disonesti» [49].
La posizione della Chiesa croata sulle conversioni forzate fu definita dalla Conferenza episcopale, riunita a Zagabria nel novembre del 1941 [50]. Al termine dei lavori, Stepinac inviò una lunga lettera a Pavelić contenente le risoluzioni adottate dall’episcopato. In esse si ribadiva che: «tutte le questioni riguardanti la conversione degli ortodossi alla religione cattolica sono esclusivamente di competenza della gerarchia della Chiesa», e che possono essere ricevuti nella Chiesa solo coloro che si convertono: «senza alcuna costrizione, nella più completa libertà».
Nella lettera si chiedeva che ai serbi «venissero garantiti ed effettivamente concessi tutti i diritti civili e particolarmente la libertà personale, il diritto di proprietà e si pronunciassero condanne soltanto dopo un processo regolare, uguale a quello degli altri cittadini. In primo luogo fosse punita con estremo rigore ogni iniziativa privata intesa a distruggere le loro chiese o cappelle o ad asportarne i loro beni» [51].
Il clima di sopraffazione e di violenza in cui si viveva, costrinse Stepinac a fare un’eccezione alle leggi canoniche, quando in un’istruzione ai sacerdoti scrisse: «Quando vengono da voi persone di religione ebraica o ortodossa, che si trovano in pericolo di morte e desiderano convertirsi al cattolicesimo, accoglietele per salvare la loro vita. Non richiedete a loro nessuna particolare istruzione religiosa, perché gli ortodossi sono cristiani come noi e la religione ebraica è quella nella quale il cristianesimo ha le sue radici. L’impegno e il dovere del cristiano è in primo luogo quello di salvare la vita degli uomini. Quando sarà passato questo tempo di pazzia, resteranno nella nostra Chiesa coloro che si saranno convertiti per convinzione, mentre gli altri, passato il pericolo, ritorneranno alla loro fede» [52].
La campagna di conversioni non ebbe il successo che il governo sperava. Varie furono le cause. Tra queste anche l’opposizione della Chiesa. Al riguardo, è interessante leggere quanto riporta un’informativa[53] di agenti segreti inglesi, presenti allora in Croazia, del dipartimento informativo della marina militare britannica: «In Croazia il regime di Pavelić cercava in ogni modo di ottenere l’appoggio della Chiesa cattolica, ma il clero romano cattolico, seguendo le direttive dell’arcivescovo di Zagabria, protestava fortemente per le persecuzioni contro gli ebrei e i serbi, come anche per il tentativo del Governo di costringere tali popoli ad abbracciare la fede cattolica» [54].

Le fughe degli ebrei dalla Germania

JudeStarofDavid_thumbNumerosi furono gli interventi di Stepinac a favore degli Ebrei [55]. Già prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale era stata promossa l’Opera di San Paolo[56]. Dalla Germania, infatti, molti ebrei, erano stati costretti ad abbandonare le proprie terre per tentare di sfuggire alle persecuzioni hitleriane. Questo flusso di profughi si diresse anche in direzione della Croazia (e a Zagabria in particolare) perché esisteva da tempo una comunità di correligionari con la propria sinagoga. In tempi successivi, venne anche istituita un’Organizzazione di Soccorso e di Assistenza ai Rifugiati seguita di persona dall’arcivescovo. Tale attività procurò a Stepinac la collera dei nazisti [57] e la dura riprovazione dei fascisti italiani.
Gli odi verso la sua persona aumentarono quando Stepinac trasmise una lettera a circa trecento “rispettabili cittadini” cattolici. Si riporta il testo: «Distinto Signore! Di fronte a persecuzioni disumane e violente, molte persone hanno dovuto lasciare la loro terra. Non sono solo povera gente senza una terra, ma sono anche senza i fondi necessari per sopravvivere. Essi vagano per il pianeta cercando un Paese che li metta in grado di creare per sé e per le loro famiglie una nuova organizzazione di vita. Molte di queste persone sono temporaneamente in Jugoslavia. Molte sono mogli con bambini. La loro tragedia è difficile, la loro povertà indescrivibile. Ogni giorno, molti di questi emigranti vengono da noi per consiglio, intervento, raccomandazioni, per un’assistenza in forma di denaro o di altri beni.
Tra loro ci sono anche degli intellettuali e coloro che una volta avevano un buon tenore di vita. È nostro dovere cristiano aiutarli. Di modo che considero necessario rivolgermi alle persone che abbiano buon cuore e nobili sentimenti per l’assistenza ai predetti afflitti. Mi prendo la libertà di rivolgermi a Lei, Distinto Signore, come membro della nostra Chiesa. So che comprenderà la tragedia di queste persone senza casa, senza fondi, senza scopi e che contribuirà al Fondo di Assistenza che sarà usato per aiutare questi emigranti. La prego di riempire l’allegato modulo per il Suo volontario contributo mensile che aiuterà in quest’azione necessaria» [58].

Le migrazioni verso l’Italia e la Turchia

Unitamente a ciò, Stepinac nascose gli ebrei anziani e malati nella tenuta arcivescovile di Brezovica. Ad altri, attraverso vari collaboratori, procurò cibo, indumenti e passaporti. Quando si arrivò alla demolizione della sinagoga di Zagabria (1941), egli protestò in cattedrale contro tale fatto e si adoperò per salvare la vita del dott. Miroslav Šalom Freiberger (1903-1943) [59], rabbino capo di quella comunità. Contro le leggi e le disposizioni anti-ebraiche varate dal governo trasmise, tra la primavera e l’estate del 1941, diverse lettere di protesta al ministro degli Interni Andrija Artuković (1899-1988) e a Pavelić[60]. Si adoperò, inoltre per favorire un movimento migratorio in Italia[61], e in direzione di Budapest e di Istanbul [62] che si interruppe forzatamente nel 1942. Tale interessamento era noto alla Gestapo. In un’informativa del Ministero degli Interni al capo della polizia tedesca in Zagabria si legge: «L’arcivescovo Stepinac è conosciuto come un grande amico degli ebrei e proteggerà gli ebrei con tutto il suo potere» [63].
Di fronte a ulteriori rastrellamenti (1943), e sapendo che erano soprattutto le autorità tedesche a spingere in questa direzione, scrisse nuovamente al capo del governo croato: «Se c’è di mezzo qualche autorità estera che si immischia nei nostri affari interni, io non ho paura che questa parola di protesta sia portata a sua conoscenza. La Chiesa cattolica non teme davanti a nessun potere terreno, quando si tratta di difendere i più elementari diritti dell’uomo…» [64].
Le stesse autorità ebraiche attestarono gli aiuti concreti che Stepinac prestò alle persone appartenenti alla Comunità ebraica. Il delegato in Turchia della commissione per l’aiuto agli ebrei europei, dott. Meir Tuval-Weltman (1905-1981), scrisse nel giugno del 1943 al delegato apostolico a Istanbul Angelo Roncalli: «Noi sappiamo che mons. Stepinac ha fatto tutto il possibile per alleviare la sorte infelice degli ebrei in Croazia» [65]. Anche Miroslav Šalom Freiberger (1903-1943), trasmise una missiva a Pio XII per esprimere «come grande rabbino di Zagabria e capo spirituale degli ebrei in Croazia la mia gratitudine più profonda e quella della mia congregazione per le genti che hanno mostrato i rappresentanti della Santa Sede e i capi della Chiesa verso i nostri poveri fratelli» [66].

Contro i crimini commessi nel campo di Jasenovac

Il 24 febbraio del 1942 l’arcivescovo inviò una lettera a Pavelić per protestare energicamente contro i misfatti che stavano avvenendo nel campo di sterminio di Jasenovac [67]. In questa zona, sulla sponda sinistra del fiume Sava, dove esisteva da tempo una fornace di mattoni, era stato organizzato nel luglio del 1941 un campo formato da cinque complessi che servivano per le operazioni di smistamento, lavoro e sterminio[68]. Scrisse Stepinac: «Tutto il campo di Jasenovac è una macchia vergognosa e un delitto che grida vendetta al cielo, è una vergogna per la Croazia… Tutta l’opinione pubblica, e specialmente i parenti delle vittime, chiedono riparazione e che si conducano davanti al tribunale gli assassini, i quali sono la maggiore sventura della Croazia» [69].

Contro la dottrina e la prassi del razzismo

Uccisione di prigionieri a Jasenovac

Uccisione di prigionieri a Jasenovac

Contro soprusi e violenze Stepinac protestò con i pochi strumenti che gli erano permessi: prima con lettere (a Pavelić e ai ministri), poi con pubbliche catechesi e omelie davanti a un gran numero di fedeli. Esse costituiscono delle linee-guida sulla dignità e sui diritti inviolabili della persona umana. Nella predica del 1941, dopo aver condannate le «teorie e ideologie atee» che «sono riuscite ad infettare il mondo», ammonì: «Vi è il pericolo che perfino coloro che si gloriano del nome cattolico, per non dire addirittura della vocazione spirituale, divengano vittime della passione, dell’odio e della dimenticanza della legge che è il tratto caratteristico e più bello del cristianesimo: la legge dell’amore» [70].
In questo passo citato è chiaro il riferimento agli ustaše e a quei sacerdoti (pochi in verità) che collaborarono con loro ponendosi automaticamente fuori della comunione ecclesiale (scomunica latae sententiae, cioè immediata).
Il 25 novembre del 1942 Stepinac pronunciò un intervento nel quale condannò il razzismo, dottrina-chiave del regime degli ustaše. «Ma che cosa sono davanti a Dio le razze e i popoli sulla terra? È cosa buona domandarci questo, in un tempo in cui le teorie di classe, di razza e di popolo sono diventate il primo argomento di discussione tra gli uomini. La prima cosa che affermiamo è che tutti i popoli, senza eccezione, sono nulla davanti a Dio. Dice il profeta: “Tutti i popoli sono un nulla davanti a Lui, ed egli li considera un nulla” (Is 40,17). Nella storia dell’umanità, queste parole hanno avuto conferma molte volte, quando la mano di Dio, per varie ragioni, ha cancellato la presenza di interi popoli dalla faccia della Terra. La mano di Dio è in grado di fare questo anche oggi con ogni popolo, perché il Signore crea il piccolo e il grande (Sap 6,8), se quel popolo non agisce secondo la legge da Lui posta.
La seconda cosa che affermiamo è che tutti i popoli e le razze vengono da Dio. In realtà, esiste una sola razza, e questa è la razza di Dio. Il suo certificato di nascita si trova nel Libro della Genesi, quando la mano di Dio dal fango della terra ha creato il primo uomo e gli ha infuso lo spirito di vita (Gen 2,7). Allo stesso modo ha creato per lui una compagna, e poi li ha benedetti dicendo “Crescete e moltiplicatevi e popolate la terra” (Gen 1,28). Ogni appartenente a questa razza è uguale e tale rimarrà fino alla fine dei tempi, nella venuta su questa Terra e nella dipartita da essa, perché per tutti, senza eccezione, vale ciò che è stato scritto con il dito di Dio: “Polvere sei e polvere diventerai” (Gen 3,19).
I membri di questa razza possono essere di maggiore o di minore cultura, possono essere di colore bianco o nero, possono essere separati dagli oceani, possono vivere al Polo Nord o al Polo Sud, ma rimangono una razza che viene da Dio e che deve servire Dio secondo le norme della legge di Dio naturale e positiva, iscritta nei cuori e nelle anime degli uomini e rivelata attraverso il Figlio di Dio Gesù Cristo, Re di tutti i popoli.
Perché quindi esistono diversi popoli, e qual è la loro funzione? Tutti sono qui senza differenze per servire e per glorificare Dio. […] Quanto meraviglioso deve essere Dio sapendo creare un regno vegetale tanto variegato! Quanto è vario il regno minerale! Quanto è vario il regno animale! Quale numero enorme di stelle vi è nel cielo! Quanto vasti sono gli oceani! Come balza all’occhio la straordinarietà della Sua grandezza, della Sua saggezza e della Sua forza, vedendo che Egli ha creato una tale quantità di popoli sulla Terra con un numero così grande di lingue! Da questa diversità di lingue e di popoli possono venire numerose nobili competizioni tra i popoli stessi, in grado di produrre l’avanzamento della loro cultura proprio come la vita nelle famiglie è molto più viva quando vi sono i figli.
Inoltre, l’appartenenza a un certo popolo può costituire un argine forte contro il degrado morale che proviene da un altro popolo. Dio ha avuto quindi grandi e sagge ragioni quando ha creato la varietà dei popoli, comandando agli uomini di nutrire nel cuore e nell’anima un amore sincero per il popolo a cui si appartiene. Tuttavia, questa varietà non deve essere fonte di sterminio vicendevole [71]. Giacché, ed è questa la terza cosa che affermiamo, ogni popolo e ogni razza, quale oggi si sviluppa sulla Terra, ha il diritto a condurre una vita umana dignitosa che è necessario onorare. Non esiste differenza fra gli uomini, appartengano essi alla razza zingara o a un’altra, siano neri o europei affamati, siano ebrei dalla pelle olivastra o superbi ariani, tutti hanno il diritto a dire: “Padre Nostro che sei nei cieli”. E dal momento che Dio ha dato a tutti gli uomini tale diritto, quale potenza umana può negarla loro? Non esistono differenze tra i popoli: qualunque sia il loro nome, hanno il medesimo dovere di battersi il petto e dire: “Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”.
Per questo motivo la Chiesa cattolica ha condannato, e condanna anche oggi [72], ogni ingiustizia e violenza che si compie in nome della classe, della razza o della nazione poiché questa è cosa simile alla lotta di classe che compie il bolscevismo. Non si possono cancellare dalla faccia della Terra ebrei e zingari perché li si considera una razza inferiore. Se si accettano con tale facilità i princìpi di varie teorie senza fondamento, per quale popolo vi sarà sicurezza di vita sulla Terra? (…)». [73]
L’omelia non venne pubblicata, ma circolò in modo clandestino. I sermoni anti-razzisti di Stepinac furono letti da sacerdoti in tutta la Croazia e diffusi anche dai partigiani e da Radio Londra [74]. Successivamente, trentuno sacerdoti furono colpiti da provvedimenti restrittivi.

1943. Le condanne. La legge di Dio vale senza differenze

Il 31 ottobre del 1943 (festa di Cristo Re), al termine di una processione penitenziale molto partecipata, l’arcivescovo Stepinac volle accentuare in modo ancor più deciso la propria distanza dal regime. Pochi giorni prima (il 27) suo fratello Mijo (1905-1943)[75], apertamente ostile alle forze di occupazione, era stato ucciso dalla Gestapo a Krašica[76]. Il corpo fu ritrovato dai genitori solo alcuni giorni dopo la sua eliminazione e solo allora fu possibile annunciare a Zagabria l’avvenuto omicidio. In tale contesto, il cardinale, nell’intervento del 31, condannò le uccisioni di innocenti. Affermò tra l’altro: «Noi non desideriamo essere la tromba politica che con la propria voce favorisce i desideri del momento e i bisogni di singoli partiti o singoli. Abbiamo sempre sottolineato anche nella vita pubblica i principi dell’eterna legge di Dio, che vale senza differenze per croati, serbi, ebrei, zingari, cattolici, musulmani, ortodossi o per qualsiasi altro. Ma non possiamo chiamare alla ribellione né obbligare fisicamente qualcuno ad attuare queste leggi di Dio, perché ogni uomo risponderà delle proprie azioni secondo le parole dell’Apostolo, il quale dice, ciascuno porterà il proprio fardello (…)» [77].
Quindi criticò il razzismo: «Risponderemo anche a coloro che ci accusano di essere stati d’accordo con il razzismo, perché, come vedete, nelle teste di qualcuno la Chiesa cattolica è colpevole di tutto. Abbiamo preso posizione sul razzismo fin da quando il razzismo esiste, e non certo solo oggi. E questa posizione è semplicissima e chiara. La Chiesa cattolica non conosce razze che dominano, e razze che servono come schiavi. La Chiesa cattolica conosce solamente razze come creazione di Dio. (…) per essa l’uomo è uguale, che sia un nero dell’Africa o europeo. Per essa il re nel palazzo reale è uomo nella stessa misura in cui lo è l’ultimo povero o zingaro sotto la tenda. Essa, tra questi uomini, non conosce differenze essenziali, se sono uomini: l’uno e l’altro hanno un’anima immortale. Uno e l’altro sono della medesima origine regale. (…) La Chiesa cattolica non può accettare che una qualsiasi razza o un qualsiasi popolo, solo perché è più numeroso e più forte con le armi, possa commettere violenza su un altro popolo meno numeroso e peggio armato. Non possiamo accettare che si uccidano innocenti [78], perché ad esempio in un imboscata è stato ucciso un soldato, neppure se fosse della razza più nobile. Il sistema di massacrare centinaia di ostaggi per un crimine per il quale non si può scoprire il colpevole, è un sistema pagano che non ha mai portato buoni frutti…».
E soggiunse: «Quale sistema appoggia la Chiesa Cattolica oggi mentre tutto il mondo sta combattendo per un nuovo ordine mondiale? Noi, nel condannare tutte le ingiustizie, tutte le uccisioni di innocenti, tutte le distruzioni di tranquilli villaggi [79], ogni distruzione delle fatiche dei poveri … soffrendo le sofferenze e le disgrazie di tutti, che oggi soffrono ingiustamente, rispondiamo in questo modo: la Chiesa è per quell’ordine che è tanto antico quanto i dieci Comandamenti di Dio. Noi siamo per l’ordine che non è sulla carta che può decomporsi, ma che è stato iscritto con il dito del Dio vivente nelle coscienze degli uomini. Fondamento di quest’ordine è il Signore Dio, che non si perde nei paragrafi, come i legislatori terreni, ma che ha riassunto tutto l’ordine in dieci Comandamenti. Siamo tenuti a dare a Dio onore e gloria, perché è il nostro Creatore. Ai genitori, alle personalità che reggono lo Stato e alla Patria siamo tenuti a dare amore, obbedienza e sacrificio, se è necessario. Il nostro prossimo, qualsiasi sia il suo nome, non è solo una vite nella macchina dello Stato, sia esso di colore rosso o nero, giallo o verde, ma è un libero figlio di Dio, nostro fratello in Dio. Quindi al prossimo dobbiamo dare il diritto alla vita, al possesso di beni, all’onore, perché sta scritto: “Non uccidere, non rubare, non dire falsa testimonianza contro il tuo prossimo”. Dobbiamo rispettare la sua famiglia, perché sta scritto con il dito di Dio: “Non desiderare la donna d’altri”. Dobbiamo rispettare noi stessi, perché sta scritto “Non commettere atti impuri”».
Fino a minacciare il castigo divino: «E si ingannerebbe gravemente chi pensasse che non vi sono sanzioni per i trasgressori. Tutto questo terribile caos che il mondo sta vivendo, non è altro che una punizione di Dio per l’infrazione dei comandamenti di Dio, per il disprezzo del Vangelo di Cristo. E se l’umanità non vorrà riconoscere l’autorità di Dio su di essa, è del tutto certo che la destra di Dio colpirà ancora più pesantemente».
Volle anche aggiungere: «Risponderemo oggi anche a quelli che ci accusano di filocomunismo e del cosiddetto disimpegno [...]. E forse coloro che ci rimproverano questo farebbero meglio a bussare alle porte della loro coscienza e chiedere: non sono forse molti coloro che si nascondono nei boschi, non perché abbiano una qualche convinzione sulla verità del comunismo, ma spesso per disperazione contro metodi inumani di individui incoscienti, che hanno pensato di poter fare quello che volevano e che per loro non esiste legge né umana né divina?» [80].
Ci fu una reazione delle autorità ustaše. La pubblicazione dell’omelia fu vietata. Poi, il ministro dell’Istruzione, Julije Makanec (1904-1945), scrisse un articolo [81] ove replicò pesantemente all’omelia dell’ottobre 1943 nella quale l’arcivescovo aveva condannato come inumani certi modi di fare degli ustaše, e dove aveva ribadito che la dottrina della Chiesa cattolica si opponeva alla teoria razziale. Secondo Makanec la predica dell’arcivescovo era stata un coltello che aveva colpito alla schiena gli eroici combattenti ustaše. Egli aveva oltrepassato i limiti della sua vocazione per immischiarsi in affari nei quali era incompetente.

La situazione nelle Chiese locali

La Chiesa croata, oltre a Stepinac, ebbe un gran numero di membri che si distinsero per la loro fedeltà all’insegnamento evangelico, e per una resistenza alla dottrina e alla politica persecutoria di Pavelić. Si pensi, ad esempio, a coloro che sono stati riconosciuti Giusti tra le nazioni [82].
Nell’elenco figura anche il prete francescano Dragutin Jesih (morto nel 1944). Era nato a Šćitarjevo (vicino Zagabria). Studiò negli Stati Uniti d’America. In questo Paese ricevette anche l’ordinazione presbiterale (1918). Nel 1930 fece ritorno in Croazia dove aveva due fratelli sacerdoti. Salvò alcuni ebrei mandati da Stepinac. Alla fine fu ucciso per le attività caritative attuate disobbedendo al regime [83].
In tale contesto, altre figure dettero apporti significativi. Il vescovo francescano di Mostar-Duvno [84], Alojzije Mišić (1859-1942), denunciò, ad esempio, al cardinale di Zagabria le violenze degli ustaše, e protestò energicamente contro le persecuzioni in atto nella sua diocesi contro gli ortodossi. Il prof. mons. Josip Lončar (1891-1973) [85], docente a Zagabria presso l’università e nel seminario arcivescovile, fu condannato a morte (20 aprile 1941) da un tribunale militare per le accuse rivolte agli ustaše e allo stesso Pavelić. Grazie all’azione di Stepinac, attraverso Marcone, la sentenza fu tramutata in venti anni di prigione a Lepoglava (Kaznionica u Lepoglavi) [86].

Terezija Škringer
Nata a Zagabria (1895-?), insegnante di lingue, divenne la segretaria del Comitato di Soccorso e di Assistenza ai Rifugiati. L’attività di tale organismo era documentata in un archivio che si decise, però, di distruggere per non fornire informazioni su ebrei ai nazisti. A questo punto, i soldati del Terzo Reich arrestarono la Škringer (15 marzo 1941). Nella sua scheda segnaletica, oltre a tre foto e alle impronte digitali ho trovato indicata l’accusa: tradimento [87]. Dopo un interrogatorio, la professoressa fu trasferita a Graz (Austria) e condannata a morte. Dopo vari tentativi Stepinac riuscì alla fine a salvarla[88]. La Škringer fu rilasciata il 1° settembre del 1941 [89]. Quando, in tempi successivi, l’arcivescovo dovette subìre il processo organizzato dal regime comunista, la Škringer era tra i testi a favore, ma il tribunale si rifiutò di ascoltare la deposizione.

Diana Budisavljevic [90]
Nata in Austria e di fede cattolica, Diana Obexer (1891-1978) – dopo essersi sposata con un chirurgo serbo (il dottor Budisavljevic) – visse dal 1919 a Zagabria. Con l’avvento al potere di Pavelić, Diana cominciò a ricevere notizie sui massacri di ebrei, rom e serbi. Volle reagire. Utilizzò allora le sue origini austriache (gradite ai governanti del tempo) e i contatti con ambienti cattolici vicini agli ustaše per organizzare azioni umanitarie nei campi di Loborgrad e Gornja Reka. Accanto a lei operò un gruppo di collaboratori, anche croati. Nel febbraio del 1942 riuscì a ottenere da generali nazisti un lasciapassare che le permise di accedere pure al campo di Jasenovac. Prese con sé un alto numero di bimbi, salvandoli da una morte sicura. In tre anni, questa donna realizzò una rete di solidarietà con istituzioni e ospedali pronti ad accogliere i piccoli. Qui, le famiglie croate adottavano a termine i bambini, con la promessa di riconsegnarli a guerra finita alla Budisavljevic. Quest’ultima conservava un registro con le foto dei bambini in affido, in modo da restituirli in seguito alle famiglie d’origine. Dopo il conflitto, il regime di Tito non tributò alcun onore alla Budisavljevic. Non era membro del partito, ma una borghese straniera. Per i titini più rigidi era una collaborazionista. I registri le furono confiscati e centinaia di bambini persero la loro identità. Diana fu costretta al silenzio e morì dimenticata a Innsbruck. La Chiesa ortodossa serba, per i suoi meriti, le ha voluto conferire post-mortem l’onorificenza dell’Ordine dell’imperatrice Milica.

I drammi legati all’estremo nazionalismo

Accanto a queste luci, l’arcivescovo di Zagabria dovette affrontare anche delle situazioni dirompenti legate a un nazionalismo estremo, manifestato da taluni consacrati [91]. Tale tendenza, in determinati casi, superò ogni limite. Divenne un diretto sostegno ad azioni criminose degli ustaše a danno di chi non era croato e di quanti professavano un credo diverso da quello cattolico. Davanti a tale realtà, la posizione dell’arcivescovo Stepinac fu immediata. Da una parte furono confermate le condanne già inserite in documenti vari del cardinale e nelle omelie. Dall’altra, si adottarono i provvedimenti previsti dal canone 653 del codice di diritto canonico. Chi si macchiò di gravi delitti fu sospeso a divinis e ridotto allo stato laicale. Inoltre, se appartenente a un istituto religioso, venne espulso dalla propria congregazione. Tale orientamento è documentato in atti diocesani e negli archivi di Ordini religiosi.
A titolo esemplificativo si può ricordare il procedimento canonico attivato nei confronti di Miroslav Filipović Majstorović (1915-1946). Frate minore del convento di Petrićevac, entrò nell’Ordine nel 1938 (assumendo il nome di Tomislav). Attirato dal movimento degli ustaše, di cui era cappellano, finì per abbandonare il proprio istituto religioso. Da semplice civile prese parte a crimini di guerra. Per quattro mesi (autunno-inverno 1942-1943) diresse anche il già ricordato lager di Jasenovac. Fu giudicato da un tribunale tedesco (su probabile segnalazione italiana), e – in seguito – da una corte penale comunista (1946) che lo condannò a morte. Dai documenti di archivio risulta che tale soggetto, oltre ad essere stato destinatario di provvedimenti disciplinari del suo Ordine, fu espulso dai Frati Minori (1943). Inoltre, fu anche sospeso a divinis e ridotto allo stato secolare.
Si può anche ricordare il provvedimento di Stepinac nei confronti del francescano Ivo Guberina (1897-1945). Nel documento conservato nell’archivio della curia di Zagabria si può leggere: “Il vostro comportamento e le azioni compiute negli ultimi due anni e mezzo, avvenute nel territorio dell’arcidiocesi di Zagabria e altrove, sono in contrasto con la vocazione sacerdotale e costituiscono motivo di scandalo tra i fedeli. Pertanto, essendo incorso ipso facto nella sospensione a divinis, vi è negato l’esercizio di ogni ministero sacerdotale” [92]. Il 29 maggio del 1945 Guberina fu condannato a morte da un tribunale comunista.

L’arresto e la condanna

Tito nel 1942

Tito nel 1942

Alla fine del secondo conflitto mondiale, mentre Pavelić e i ministri erano in fuga, Stepinac rimase al suo posto e affrontò il nuovo regime. I comunisti, occupata pure la Croazia, cominciarono a perseguitare la Chiesa. Nel marzo del 1945 venne pubblicata una prima lista di sacerdoti uccisi. L’elenco includeva 149 nomi [93].
Stepinac venne arrestato dai comunisti il 17 maggio 1945, ma subito dopo fu rilasciato (3 giugno) anche per la pressione dell’opinione pubblica internazionale. Durante la detenzione dell’arcivescovo, il maresciallo Tito ebbe un incontro con alcuni esponenti della Chiesa di Zagabria per invitarli a collaborare con il nuovo regime. Propose loro di fondare una Chiesa cattolica croata indipendente da Roma. I rappresentanti del clero e i due vescovi ausiliari di Zagabria dichiararono di non essere autorizzati a trattare questioni di questo tipo senza l’autorizzazione dell’arcivescovo; e ne chiesero la liberazione. Stepinac fu rilasciato. Il maresciallo Tito lo incontrò, promettendo di rispettare i diritti della Chiesa cattolica croata se questa si separava da Roma. Il primate croato rifiutò: «Nessun cattolico, anche a costo della vita, può eludere il suo foro supremo, la Santa Sede, altrimenti cessa di essere cattolico» [94] ; egli propose invece di stipulare accordi con il Vaticano.
Dopo questi fatti la persecuzione contro il clero cattolico si accentuò. Quando il nuovo regime prese atto che non era possibile piegare la volontà dell’arcivescovo, e che quest’ultimo non avrebbe mai collaborato alla fondazione di una Chiesa cattolica croata separata dal Papa, Stepinac fu di nuovo arrestato (18 settembre 1946). A questo punto, venne inscenato un processo con testimonianze false e parziali contro l’arcivescovo [95].
L’11 ottobre il primate della Croazia subì la condanna a sedici anni di lavori forzati e alla perdita dei diritti civili, anche per cinque anni dopo la fine della condanna. In sua difesa pronunciò queste parole: «Io dico questo: quando la situazione si normalizzerà e quando potranno essere pubblicati tutti i documenti, quando gli stessi potranno essere studiati in pace, quando tutti potranno esprimere liberamente la loro parola, senza paura, pienamente liberi, alla luce della pura verità, dal punto di vista sia politico sia morale, allora non si troverà nessuno che punterà il dito contro l’arcivescovo di Zagabria» [96].
Il 19 ottobre 1946 fu rinchiuso nel carcere di Lepoglava in completo isolamento, fino al 5 dicembre 1951. Poteva solo celebrare la messa e leggere libri religiosi. Alla fine del 1951 subì il confino nel villaggio natio di Krašić, sorvegliato dalla polizia, ospitato nella parrocchia, con il divieto di esercitare il ministero episcopale.

La fuga di Pavelic

Il movimento partigiano comunista, con un’estesa guerriglia, e con il sostegno degli Alleati (sovietici e britannici in particolare), riuscì (1945) a respingere le forze dell’Asse dai territori dell’ex Regno di Jugoslavia e a sconfiggere l’Esercito jugoslavo in patria (J.V.U.O.), formato dai cetnici del generale Dragoljub Mihailović (1893-1946), di carattere filo-monarchico e anti-comunista. Pure le milizie partigiane si resero responsabili di massacri e deportazioni durante e dopo il periodo bellico. Vennero eliminati oppositori politici, sostenitori dell’Asse e popolazioni di diversa etnìa. È nell’ambito di tale contesto che furono eseguiti anche i massacri delle foibe [97] mentre dovette attuarsi l’esodo istriano [98]. A seguito di ciò, Pavelić e gli ustaše fuggirono dalla Croazia.

Tito al potere

Josip Broz (1892-1980) [99], conosciuto con il nome di battaglia di Tito, fu co-fondatore nel 1920 del partito comunista jugoslavo (K.P.J.). Divenne anche membro del partito comunista dell’Unione Sovietica e della polizia segreta sovietica (N.K.V.D.) dal 1935. Dal 4 luglio del 1941 comandò l’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia, movimento comunista della resistenza iugoslava contro i nazisti, i croati ustaše e i fascisti italiani. Partecipò in posizione influente dal 26 novembre 1942 al comitato antifascista di liberazione nazionale della Jugoslavia (A.V.N.O.J.). Dopo la vittoria sulle truppe dell’Asse, e a seguito delle elezioni dell’11 novembre 1945 [100], Tito dichiarò decaduto il re Pietro II e costituì la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, una dittatura monopartitica che egli governò come primo ministro tra il 29 novembre 1945 e il 29 giugno 1963, e poi come presidente della Repubblica dal 14 gennaio 1953 fino alla morte.

La morte di Stepinac per avvelenamento

La salma di Stepinac esposta nella cattedrale di Zagabria

La salma di Stepinac esposta nella cattedrale di Zagabria

Il 5 dicembre del 1951 l’arcivescovo di Zagabria, mons. Stepinac, fu trasferito dalle carceri di Lepoglava al domicilio coatto presso la parrocchia di origine a Krašic. Il 12 gennaio 1953 Pio XII lo creò cardinale [101]. Non gli venne permesso di recarsi a Roma, pertanto non ricevette mai un titolo cardinalizio. Non poté prendere parte nemmeno al conclave del 1958 in cui fu eletto Papa Giovanni XXIII (1958-1963)[102]. Morì il 10 febbraio 1960 [103]. È stato accertato (analisi effettuate da biologi del policlinico “Agostino Gemelli” di Roma) che il cardinale fu ucciso dai suoi carcerieri con un veleno che gli venne somministrato lentamente. Ciò risulta anche dalla testimonianza di un carceriere: «Io ho ricevuto il compito di avvelenare il criminale di guerra Stepinac. Dai nostri medici specialisti (…) ricevetti un veleno speciale che mettevo nei cibi; questo veleno lento negli effetti, non li produsse mentre Stepinac dimorava tra noi. Gli effetti letali cominciarono a mostrarsi quando egli fu a Krašic. Nessun medico al mondo poteva constatare che il criminale Stepinac era stato avvelenato»[104].

Note


[1] A. Rosselli, I movimenti di resistenza anticomunisti sloveni e croati del dopoguerra 1945-1948. Cfr. http://www.riscossacristiana.it/index.php?option=com_content&view=article&id=287:i-movimenti-di-resistenza-anticomunisti-sloveni-e-croati&catid=53:storia&Itemid=123

[2] L. Steindorff, Croazia. Storia nazionale e vocazione europea, traduz. di P. Budinich e di S. Reina, Beit, Trieste 2008.

[3] Prima guerra mondiale (1914-1918).

[4] I Karađorđević furono la dinastia regnante di Serbia, discendente da Karađorđe. Essi divennero grandi feudatari della dinastia Obrenović. I Karađorđević persero il trono nel novembre del 1945 quando in Jugoslavia fu proclamata la repubblica.

[5] Poiché il figlio di Alessandro I, Pietro II (1923-1970), aveva solo undici anni, le funzioni di reggente vennero esercitate dal principe Paolo.

[6] Il Concordato era un atto bilaterale molto atteso dai cattolici perché, riconoscendo ufficialmente i loro diritti, garantiva una migliore tutela giuridica.

[7] Il patto tripartito (detto anche “Asse Roma-Berlino-Tokyo”) fu un accordo sottoscritto a Berlino il 27 settembre 1940 da esponenti del III° Reich, del Regno d’Italia e dell’impero giapponese al fine di riconoscere le aree di influenza in Europa ed Asia.

[8] Nella notte tra il 26 ed il 27 marzo 1941 un gruppo di ufficiali serbi, contrari all’intesa con la Germania nazista, rovesciarono il governo del primo ministro Dragiša Cvetković (1893-1969) e del reggente principe Paolo Karađorđević. Sul trono salì il giovane Pietro II (1923-1970) che affidò l’incarico di formare un nuovo governo al generale Dušan Simović (1882-1962).

[9] L’invasione della Jugoslavia, chiamata anche Guerra d’aprile o Operazione 25 si realizzò alle ore 5,15 del 6 aprile 1941, in base alla direttiva n. 25, che Hitler emanò il 27 marzo 1941.

[10] Comprendente, tra l’altro, Susak/Borgonovo, Bakar/Buccari, nonché le isole di Veglia/Krk e di Arbe/Rab, territori appartenenti alla Croazia che furono assorbiti dalla provincia del Carnaro che aveva come centro la città di Fiume.

[11] Comprendente la provincia di Zara, la provincia di Split/Spalato, con le isole e la provincia di Kotor/Cattaro.

[12] Aimone Roberto Margherita Maria Giuseppe Torino di Savoia-Aosta fu un membro di Casa Savoia, appartenente al ramo Savoia-Aosta, e un ammiraglio italiano.

[13] Tomislav I o Tomislavo (morì nel 928), fu un sovrano di Croazia durante il medioevo. Regnò dal 910 al 928, prima come duca (dux Croatorum) dei Croati, e poi divenne il primo re (rex Croatorum) del regno di Croazia nel 925.

[14] Dipendente di fatto dalla Germania e dall’Italia fascista, da cui riprese le istituzioni.

[15] Nacque a Klobuk, nelle vicinanze di Ljubuški (Erzegovina). Studiò nel convento francescano di Siroki Brijeg. Si laureò poi in giurisprudenza presso l’università di Zagabria. Dal 1924 lavorò presso il tribunale di Zagabria. Nel 1926 divenne libero professionista a Gospic. Entrato tra gli ustaše, iniziò la sua collaborazione con Pavelić.

[16] Questo partito venne fondato (1861) dall’avvocato Ante Starčević (1823-1896). I suoi militanti si impegnarono per l’indipendenza della Croazia dall’impero austro-ungarico. Dopo la prima guerra mondiale, H.S.P. si oppose alla nascita del regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Nel 1929 il re Alessandro I sciolse tutti i partiti. Molti militanti H.S.P. passarono, così, a sostenere in modo clandestino il movimento degli ustaše.

[17] P. Iuso, Il fascismo e gli ustascia, Gangemi, Roma 1998.

[18] Il 20 giugno del 1928 la tensione tra il regime di Belgrado (controllato dai serbi) e i croati raggiunse il culmine. Il deputato nazionalista serbo Puniša Račić (1886-1944), dopo un alterco in parlamento con un deputato croato, si mise a sparare all’impazzata e uccise due deputati croati, ferendone altri tre. Tra questi c’era il leader del Partito Contadino Croato, Stjepan Radić (1871-1928), che morì pochi giorni dopo. L’episodio scatenò conflitti tra etnìe. A questo punto, Alessandro I, giudicando la situazione insostenibile, sciolse il parlamento (6 gennaio 1929), revocò la Costituzione, e  instaurò una dittatura personale. Diede poi una nuova struttura amministrativa al regno. Cercò in particolare di fomentare un patriottismo jugoslavo per favorire l’unità della nazione. Questo tentativo, che nascondeva un consolidamento del potere nelle mani dei serbi, provocò la reazione delle comunità minacciate e la radicalizzazione dei movimenti nazionalisti.

[19] A. Bolzoni, Ustascia. Gli uomini di Ante Pavelić che sognarono una Croazia libera, Settimo Sigillo, Roma 2000.

[20] In croato: ustaša (singolare), ustaše (plurale).

[21] Nel 1934 Alessandro I fu ucciso a Marsiglia da Vlado Černozemski (1897-1934), membro dell’Organizzazione Rivoluzionaria Interna Macedone. Tale formazione politica mirava all’indipendenza della Macedonia dalla Jugoslavia ed era in stretto contatto con gli ustaše. Pavelić (insieme ad alcuni suoi collaboratori) fu condannato in contumacia dal tribunale francese come mandante dell’assassinio.

[22] Actes et documents du Saint-Siège relatifs à la Seconde Guerre Mondiale, volume IV. Documenti nn. 351, 352, 356, 358, 359, 361 e 400. Sulle proteste della legazione di Jugoslavia per l’udienza concessa a Pavelić, presentate tuttavia quando il Vaticano aveva già spiegato i limiti della visita di Pavelić, cfr. documento 398.

[23] Abate benedettino della Congregazione dei monaci bianchi di Montevergine dal 1918 al 1952. Cfr. al riguardo: G. Mongelli, I monasteri italiani della Congregazione Sublacense (1843-1972). Saggi storici nel primo centenario della Congregazione, Scuola Tipografica Benedettina, Parma 1972. Cfr. “Ramiro Marcone, 1882-1952”, pp. 511-519.

[25] Particolarmente interessanti quelle condotte dagli storici di lingua inglese.

[26] H. Barbour-J. Batelja, Luce lungo il sentiero della vita. Una biografia spirituale del Beato Luigi cardinale Stepinac, Postulazione del Beato Alojzije Stepinac, Zagabria 1998.

[27] A.V. Stepinac, articolo di apertura, in Karitas, n. 1, 1934.

[28] Pio XI (Ambrogio Damiano Achille Ratti) nacque nel 1857.

[29] Mons. Bauer fu arcivescovo di Zagabria dal 1914 al 1937.

[30] Il decesso avvenne il 7 dicembre del 1937.

[31] I suoi primi progetti riguardarono: la pastorale delle famiglie, la lotta alla bestemmia, la valorizzazione del santuario mariano di Maria Bistrica, la costruzione di nuove chiese parrocchiali. Si organizzò pure un pellegrinaggio in Terra Santa.

[32] Alcuni esempi: di 127 funzionari del Ministero degli Interni, 113 erano ortodossi serbi; di 117 generali dell’esercito, 115 erano ortodossi serbi e uno solo cattolico.

[33] Delle terre comprese nella riforma agraria della Slavonia, il 96% venne attribuito a ortodossi e il 4% a cattolici.

[34] In La guardia croata, 29 marzo 1938, p. 2.

[35] Su questo aspetto cfr. anche la testimonianza di S.K. Pavlowitch nel libro Unconventional perceptions of Yugoslavia 1940-1945, East European Monographs, New York 1985.

[36] N. Istranin, Stepinac. Un innocente condannato, LIEF, Vicenza 1982, p. 169.

[37] N. Istranin, op. cit., p. 170.

[38] Nazionalisti serbi legati al precedente regno jugoslavo.

[39] Alcuni studi, serbi e croati, hanno cercato di definire con più obiettività l’entità delle perdite umane avvenute nel territorio jugoslavo durante il secondo conflitto mondiale. Si possono, al riguardo, citare i lavori di V. Žerjavich, Population losses in Yugoslavia 1941-1945, Zagreb 1997, e di B. Kočovich, Žrtve drugog svetskog rata u Jugoslaviji (Le vittime della seconda guerra mondiale in Jugoslavia), London 1985.

[40] Al riguardo cfr. anche: Annexe III, Notes de la Secretairerie d’Etat (A.E.S. 3773/43, orig.), Vatican, 31 mai 1943, Tableau récapitulatif des documents concernant l’attitude de l’Eglise catholique envers les orthodoxes et non-aryens persécutés et remis par l’archevéque de Zagreb Mgr Stepinac au cardinal Maglione. In “Actes et documents du Saint Siège relatifs à la seconde guerre mondiale”, volume IX, Le Sant Siège et les victimes de la guerre, janvier-decembre 1943, pp. 224-228.

[41] Nato a Belgrado.

[42] Ž. Tanjić, Kardinal Stepinac: svjedok istine : zbornik radova s međunarodnoga simpozija, Zagreb, 19. rujna 2008, p. 61.

[43] In una lettera inviata da mons. Stepinac a un destinatario sconosciuto, si legge tra l’altro: «Impossibile presentare tutto perché se riassumiamo tutti gli interventi personali presso il Poglavnik, presso i singoli ministri o altri funzionari dello Stato, che abbiamo fatto per le singole persone o per intere comunità, non basterebbe un libro, ma ci vorrebbero parecchi libri. Possiamo tranquillamente dire che non c’era giorno in cui non abbiamo fatto un intervento sia per i serbi, sia per gli ebrei, sia per le persone che ci stanno vicino o del nostro popolo» (Archivio del Pontificio Collegio Croato di San Girolamo, Roma).

[44] Decreto legge, Per la tutela del sangue ariano e della dignità del popolo croato, f.to A. Pavelić, Zagabria, 30 aprile 1941. Cfr. anche: A. Becherelli, Italia e Stato Indipendente Croato (1941-1943), Nuova cultura, Roma 2012, p. 67.

[45] Positio (Beatificationis et canonizationis …), volume I, p. 238.

[46] Positio (Beatificationis et canonizationis Servi Dei Aloysii Stepinac), volume III, p. 556.

[47] A. Benigar, Stepinac, un innocente condannato, a cura di N. Istranin, LIEF, Vicenza 1982, pp. 178-180.

[48] Sul monte Kozara (e dintorni), vicino a Prijedor (Bosnia Erzegovina), si svolse nel 1942 una battaglia che vide schierati un alto numero di partigiani in difesa della popolazione civile contro le forze ustaše e naziste. Lo scontro si concluse con la sconfitta partigiana e la deportazione della popolazione, in gran parte serbo-ortodossa, nel lager di Jasenovac, dove la maggior parte trovò la morte.

[49] Questa ed altre citazioni si trovano in: E. Miscia, Il card. Stepinac eroe della Croazia, in “Studi Cattolici”, n. 531, maggio 2005, pp. 364-369.

[50] L’arcivescovo Stepinac ne era il presidente.

[51] Archivio della Postulazione per la canonizzazione del cardinale Luigi Stepinac, arcivescovo di Zagabria, Zagabria, volume LXV, p. 864.

[52] Positio (Beatificationis et canonizationis …), volume I, p. 239.

[53] Contemporanea ai fatti che qui interessano.

[54] R. Pattee, The case of cardinal Aloysius Stepinac, The Bruce Publishing Company, Milwaukee 1953, p. 43.

[55] http://www.croatianhistory.net/etf/jews.html. Cfr. in particolare lo studio di Darko Zubrinic dal titolo: Cardinal Alojzije Stepinac and saving the Jews in Croatia during the WW2, Zagreb (1997).

[56] Archivio della Postulazione per la canonizzazione…, volume CVIII, p. 3137.

[57] Interessanti al riguardo sono i rapporti trasmessi a Berlino da Hans Helm, attaché politico tedesco. Cfr. anche: E. Gitman, Archbishop Alojzije Stepinac, 1941-1945 under the lens of historians and diplomats, in AA.VV., “Stepinac. A witness to the truth”, Glas Koncila, Zagreb 2009, pp. 43-45.

[58] A. Stepinac, Lettera ai rispettabili cittadini di fede cattolica, 11 gennaio 1939, in Archivio della Postulazione per la canonizzazione…, volume C, p. 708.

[59] Nato a Zagabria, morì ad Auschwitz. Amiel Shomrony, ex segretario di Freiberger, presentò in seguito due istanze in Israele per far dichiarare Stepinac “Giusto tra le nazioni”.

[60] Archivio della Postulazione per la canonizzazione… , volume XCIII, p. 4639.

[61] Archivio della Postulazione per la canonizzazione…, volume LXVI, p. 1187. Per i passi successivi compiuti dal rabbino capo di Zagabria cfr. Actes et documents du Saint Siege relatifs à la seconde guerre mondiale, volume VIII, documento n. 566.

[62] Archivio della Postulazione per la canonizzazione…, volume LXVI, p. 1188. Cfr. anche: Dokumenti nedavne proslosti in: “Sluzbeni vjesnik Nadbiskupije zagrebacke”, a. 32 (1945), no. 8, p. 51.

[63] Informatio (Beatificationis et canonizationis Servi Dei Aloysii Stepinac), volume I, p. 236.

[64] Positio (Beatificationis et canonizationis …), volume III, p. 616.

[65] Cfr. Actes et documents du Saint Siege relatifs…, volume IX, n. 226, p. 337.

[66] Ivi, volume VIII, n. 441, p. 611.

[67] Quello di Jasenovac fu il più grande campo di concentramento costruito nei Balcani durante la seconda guerra mondiale. Si trovava nei pressi dell’omonimo paese sulle rive del fiume Sava, ad un centinaio di chilometri a sud-est di Zagabria, vicino all’attuale confine croato-bosniaco.Venne edificato tra l’agosto ’41 e il febbraio ’42. I primi due campi, Krapje e Bročica, furono chiusi nel novembre del 1941, mentre i tre campi più nuovi continuarono a funzionare fino alla fine delle ostilità, nell’aprile 1945: Ciglana (Jasenovac III), Kozara (Jasenovac IV), e Stara Gradiška (Jasenovac V).

[68] Le stime delle vittime degli ustaše nel campo di Jasenovac differiscono in modo rilevante, essendo oggetto di polemiche etnico-politiche tra le diverse etnìe.

[69] Positio (Beatificationis et canonizationis …), volume III, 1, p. 546. Archivio della Postulazione per la canonizzazione…, volume CIX, p. 3494. Sono state evidenziate in corsivo delle frasi per la loro significatività.

[70] E. Miscia, op. cit., p. 367.

[71] Frase evidenziata in corsivo per la sua significatività.

[72] Frase evidenziata in corsivo per la sua significatività.

[73] Positio (Beatificationis et canonizationis …), volume III. 1, p. 608s.

[74] Nel suo libro sulla guerra di resistenza jugoslava (Disputed Barricade. The life and times of Josip Broz-Tito, Marshal of Yugoslavia, Jonathan Cape, London 1957), Fitzroy MacLean (1911-1985), l’emissario di Churchill presso Tito, racconta che le lettere pastorali e le omelie dell’arcivescovo di Zagabria erano divenute così critiche nei confronti del regime da meritare frequenti citazioni nei notiziari di Radio Londra.

[75] Sposato con Marija Jakić. Avevano tre figli (due maschi e una femmina).

[76] V. Nikolić, Stepinac mu je ime, due volumi, Kršćanska sadašnjost, Zagabria 1991, volume II, pp. 14 e 31.

[77] Questa e le successive citazioni sono tratte da: A. Stepinac, Omelie, Discorsi, Messaggi, Postulazione del Beato Alojzije Stepinac, Zagabria 1996.

[78] Frase evidenziata in corsivo per la sua significatività.

[79] Frase evidenziata in corsivo per la sua significatività.

[80] Cfr. anche: Positio (Beatificationis et canonizationis …), volume III, 1, p. 632.

[81] J. Makanec, Chiamati e non chiamati, in “Hrvatski Narod” (“Il popolo croato”), 7 novembre 1943.

[82] Si trova presso lo Yad Vashem di Gerusalemme.

[83] M. Paldiel, Churches and the Holocaust: unholy teaching, good samaritans and reconciliation, Ktav Publishing House Inc., Jersey City 2006, p. 303.

[84] Dal 1912 al 1942. E amministratore apostolico di Trebinje-Mrkan.

[85] Membro dell’Azione Cattolica croata. Profondamente ostile al nazismo.

[86] R.J. Rychlak, Cardinal Stepinac and the Roman Catholic Church in Croatia during the second world war, in AA.VV., “Stepinac. A witness to the truth”, op. cit., p. 76. Il canonico Josip Lončar, dopo la guerra, fu responsabile dell’editrice cattolica “San Girolamo” (divenuta poi “Associazione dei Santissimi Cirillo e Metodio”), e direttore del settimanale cattolico “Gore srca” (Sursum corda) tra il 1948 e il 1952.

[87] ausstellung.en.doew.at/index.php?action=gestapo_db&id=9214&showmore=true&geb_datd=&geb_datm=&geb_daty=1895&t=147

[88] Akcija za pripomoc izbjeglica. Testimonianza di Terezija Skringer (il documento è senza data). Archivio della Postulazione per la canonizzazione…, volume CVIII, pp. 3173-3174.

[89] V. Horvat, Kako je nadbiskup Stepinac spašavao Židove, Glas Koncila, 29. sijecnja 2012., str. 19.

[90] La Serbia riabilita la sua “Schindler”. Salvò 12mila bimbi, in “Il Piccolo”, 10 aprile 2011, p. 11.

[91] V. Nosilia – M. Scarpa, I francescani nella storia dei popoli balcanici nell’VIII centenario della fondazione dell’Ordine, Archetipolibri, Bologna 2011. Cfr. in particolare il capitolo: R. Burigana, “Testimoni dell’evangelo nel mondo di oggi. Nota sulla presenza dei francescani in Croazia (secoli XIII-XX)”.

[92] http://www.glas-koncila.hr/index.php?option=com_php&Itemid=41&news_ID=17745

[93] Cfr. anche: J. Mikrut, Le memorie senza volto del comunismo, in “L’Osservatore Romano”, 29-30 novembre 2010.

[94] Positio (Beatificationis et canonizationis …), volume I, p. 286.

[95] F. Cavalli, Il processo dell’Arcivescovo di Zagabria, Editrice La Civiltà Cattolica, Roma 1947, terza edizione.

[96] Archivio della Postulazione per la canonizzazione…, volume LXX, p. 2153; Informatio (Beatificationis et canonizationis), volume I, p. 345.

[97] J. Pirjevec, Foibe. Una storia d’Italia, Einaudi, Torino 2009.

[98] A. Petacco, L’esodo. La tragedia negata degli italiani d’Istria, Dalmazia e Venezia Giulia, Mursia, Milano 2002.

[99] Nato a Kumrovec (Croazia).

[100] Con denunce di brogli elettorali.

[101] G. Mattei, Il cardinale Alojzije Stepinac, Quaderni de “L’Osservatore Romano”, Editrice L’Osservatore Romano, Città del Vaticano 1999.

[102] Nacque nel 1881.

[103] Dopo la morte dell’arcivescovo, la polizia ordinò di distruggere i suoi organi. Si voleva evitare il nascere di forme di culto. Malgrado ciò, alcuni fedeli riuscirono a mettere in salvo alcuni resti. Il 13 febbraio del 1960 si celebrarono (con permesso speciale) i funerali. Il processo per la sua beatificazione, iniziato a Roma il 9 ottobre 1981, si conclude positivamente con la proclamazione a beato di Stepinac. La solenne cerimonia di beatificazione fu presieduta dal Papa Giovanni Paolo II (1978-2005) il 3 ottobre del 1998, nel santuario di Marija Bistrica (Zagabria).

[104] Positio, volume III, p. 1550.