STALIN: L’EREDE NATURALE DI LENIN?

di Emanuele Podda -

I due dittatori erano profondamente diversi per cultura, carattere e obiettivi politici. Ma se il successo finale di Stalin era ampiamente pronosticabile, ciò non significa che allora non esistessero alternative o che il baffuto georgiano fosse destinato a imporsi inevitabilmente.

Stalin e Lenin nel 1919

Stalin e Lenin nel 1919

Poche tematiche storiografiche hanno generato dibattiti più accesi di questa: Iosif Vissarionovič Džugašvili, meglio conosciuto come Stalin, era o meno l’erede designato di Lenin? Volendo sfiorare solo da lontano l’evoluzione delle scuole di pensiero in proposito, si possono distinguere due principali filoni: da un lato gli esponenti della Scuola Totalitaria, e dall’altro gli anti-deterministi. Per quanto concerne la prima corrente interpretativa, essa fu anche la prima ad essere elaborata sistematicamente in ordine cronologico. Quando infatti gli studi sullo Stalinismo cominciarono ad emergere nel mondo anglofono tra anni ’50 e ’60, la maggior parte degli storici (tranne alcune significative eccezioni come Carr) propendettero per un’interpretazione deterministica dell’evoluzione dell’Unione Sovietica. Ai suoi sensi, essa si sarebbe presentata sin da subito come un progetto di costruzione di uno Stato Totalitario, e Stalin, in quanto massimo realizzatore di tale disegno, non poteva che essere considerato il perfetto continuatore dell’operato di Lenin. Di conseguenza, questo permetteva retrospettivamente una condanna anche nei confronti di quest’ultimo, un mostro al pari del suo successore.
Gli argomenti addotti dai sostenitori di questa esegesi erano diversi: la burocratizzazione precoce dello Stato sovietico, le purghe che Lenin mise in atto sin dal marzo 1919 nei confronti degli oppositori, e l’emergere rapido di organi di controllo come la Ceka, primo nome con cui venne conosciuta la polizia segreta sovietica. Il fatto che gli storici angloamericani prediligessero un orientamento di questo tipo non deve stupirci: esso venne sviluppato all’interno del Blocco Occidentale nel pieno di quella che viene definita come prima guerra fredda (1945-1963). A partire dagli anni ’80, tuttavia, si fece avanti un nuovo indirizzo, stimolato sicuramente dalle aperture sovietiche che si cominciarono a manifestare a partire dalla metà di quella decade, le quali vennero decantate dai sovietici stessi come un ritorno agli antichi progetti di Lenin. Grazie ad uno storico come Stephen Cohen fu possibile per la prima volta liberarsi del vetrino storiografico che inquadrava l’Unione Sovietica all’interno di un percorso obbligato, riscoprendo la categoria della possibilità anche all’interno dell’Impero del Male. Difatti, non solo Lenin e Stalin cominciarono ad essere considerati come estremamente differenti l’uno dall’altro, ma soprattutto le misure di Lenin vennero contestualizzate all’interno del cosiddetto comunismo di guerra, e contrastate con i successivi sviluppi della Nuova Politica Economica (New Economic Policy o NEP in inglese).
Le misure implementate da Lenin subito dopo aver preso il potere sarebbero state determinate dalla necessità di affrontare la guerra civile (1918-1921) che seguì a questi sviluppi. Egli avrebbe successivamente deciso di passare oltre in seguito alle forti opposizioni interne e al termine dello stato di emergenza, aderendo a un processo di graduale passaggio dal capitalismo puro al socialismo, attraverso la NEP. Ai sensi di questa visione l’operato di Lenin, come vedremo, non poteva che esser visto in opposizione rispetto a quanto in seguito realizzato da Stalin, il quale peraltro non poteva essere dipinto come il suo erede necessario da un punto di vista ideologico. Eppure, sebbene non si rintracci necessità ideologica nella successione tra i due più famosi leader sovietici, non di meno possono essere evidenziate delle condizioni tali per cui questo avvicendamento, materialmente parlando, era molto probabile.

Stalin, l’anti-Lenin?

Lenin nel suo ufficio al Kremlino nel 1918

Lenin nel suo ufficio al Cremlino nel 1918

Un punto è storicamente chiaro: Lenin non aveva scelto nessun successore prima della sua morte. Nei suoi scritti, infatti, egli menzionò la questione una sola volta, in una lettera indirizzata al XII Congresso del Pcus (poi non letta, e che sarà resa pubblica solo nel 1956 da Nikita Kruscev nell’ambito del XX Congresso), volgarmente nota come Testamento di Lenin, e composta tra la fine del 1922 e l’inizio del 1923. Il leader della Rivoluzione d’Ottobre, sentendosi prossimo alla fine, legata a numerosi attacchi ischemici che ne avevano già compromesso gran parte dell’autonomia motoria, decise di dare istruzioni di carattere generale in merito alla strategia da adottare in seguito alla sua dipartita. Ora, riguardo la sua successione, Lenin dava due indicazioni: una nel merito e una di carattere indiretto. Per quanto riguarda la prima, egli si augurava che, comunque fossero andate le cose, non avvenissero scontri all’interno del Partito, men che meno per succedergli. Questo ne avrebbe infatti diminuito la stabilità, esponendolo a pericoli interni ed esterni.
Dopodiché, Lenin passava ad elencare i principali membri del Pcus all’epoca, dando dei giudizi di carattere generale su ognuno di essi. La cosa interessante è che egli non risparmiò critiche a nessuno di loro. E, fatto ancor più significativo, il più biasimato di tutti era proprio Stalin, l’unica persona citata per cui Lenin non trovò neanche un pregio. Ma chi erano questi personaggi? Innanzitutto deve essere ricordato Lev Trockij, la nemesi di Stalin, che oltre ad essere membro del Comitato Centrale del Partito Comunista Russo (da adesso in poi CC), era all’epoca anche presidente del Soviet di Pietrogrado (da dove la Rivoluzione era partita) e, soprattutto, il Commissario del Popolo per la Guerra. Verso la fine del 1922 Trockij godeva di grande popolarità, soprattutto per la vittoria conseguita sui reazionari nella Guerra Civile, e per le sue grandi abilità come oratore (per cui era temuto dagli avversari). Lenin, tuttavia, benché ne riconoscesse le doti, lo considerava suo malgrado un presuntuoso ed un maniaco perfezionista troppo attaccato al lato puramente amministrativo della gestione dello Stato.
Un altro dei suoi nominati, e cioè Georgij Pjatakov, filo-trotzkista, pare avesse lo stesso problema. Lenin passava poi a citare Nikolaj Bucharin, anch’egli membro del CC, in quel periodo più che altro impegnato in compiti locali relativi alla gestione di Mosca e della sua regione. Era inoltre capo-redattore dell’organo di stampa bolscevico, ovvero Pravda (Verità) e un membro candidato al Politburo, organo esecutivo dell’Urss. Il suo problema, stando a Lenin, risiedeva nella sua presunta ignoranza in materia di filosofia marxiana (!), un difetto non secondario per un futuro leader di uno Stato che si dichiarava socialista. Venivano poi presi in considerazione Grigorij Zinoviev e Lev Kamenev, il primo membro del Politburo, presidente del comitato esecutivo dell’Internazionale Comunista e di quello dei Soviet della provincia di Pietrogrado, il secondo presidente del Soviet di Mosca e membro del Politburo e del CC. Il problema dei due risiedeva nel loro opportunismo politico: durante le prime fasi della Rivoluzione Bolscevica, infatti, essi non avevano esitato a cercare un compromesso con le altre forze politiche in previsione di un fallimento. Sebbene in seguito si fossero redenti e fossero stati perdonati da Lenin, il loro comportamento aveva detto molto sulla loro inclinazione.
Venendo al pezzo forte della breve relazione di Lenin, vale a dire le parole spese sul conto di Stalin (sui cui compiti torneremo nel prossimo paragrafo), quest’ultimo veniva da subito rappresentato come accecato dalla brama di potere. Era inoltre considerato di temperamento scontroso e violento. In virtù di questo veniva suggerito di rimuoverlo da ogni posizione di comando, sebbene non si mettesse in dubbio l’opportunità che rimanesse parte del Pcus. Come abbiamo visto, tuttavia, Lenin non considerava gli altri membri di spicco del Partito atti a succedergli (non secondariamente per una certa altezzosità che lo contraddistingueva). E dunque cosa suggeriva il morente leader? Significativamente, per evitare contrasti, Lenin proponeva un direttorio collettivo rappresentato dal CC aperto ad accogliere nuovi membri ‘dal basso.’ In tal modo ogni figura di potere già importante sarebbe stata controllata dalle altre e, al contempo, dalle nuove reclute alle quali il Pcus doveva essere aperto. Di conseguenza Stalin non poteva essere l’erede di Lenin se non altro per il fatto che questi non ne voleva alcuno.
A tutto ciò si devono aggiungere i motivi di conflitto ideologico tra i due. Uno dei primi problemi era proprio rappresentato dal contrasto tra una democrazia direttoriale aperta all’ingresso di novizi voluta da Lenin (secondo un processo di progressiva educazione della popolazione al potere) e il centralismo democratico fondato sullo strapotere dei burocrati sostenuto da Stalin. Un ulteriore problema investiva la cosiddetta ‘questione delle nazionalità’: in breve, nella primavera del 1922 Stalin aveva proposto di creare un’unica federazione di diverse repubbliche piuttosto che un’unione federale in cui ogni repubblica rimaneva in teoria autonoma. Tale nuova unione sarebbe stata implicitamente guidata dai russi, a spese delle altre nazionalità. Questa volontà di centralizzazione era stata ispirata in Stalin dalle mire indipendentiste mostrate dalla sua Georgia (in cui non fu mai troppo popolare, per usare un eufemismo) proprio nel 1922. Ciò anticipava la tensione dell’uomo di acciaio verso un certo sciovinismo russo, base della famosa teoria del Socialismo in un solo paese. Ai sensi di quest’ultima il carattere eccezionale della Russia le avrebbe permesso di realizzare in toto un sistema socialista senza bisogno di alcun aiuto da chicchessia. Lenin, in quanto oppositore di ogni forma di nazionalismo e sostenitore della diffusione mondiale della Rivoluzione, si era fortemente scontrato con Stalin su questo punto, anche molto duramente. Se infine a questo aggiungiamo il contrasto tra collettivizzazione forzata ed immediata (Stalin) e NEP (ultimo Lenin), con quest’ultima che conservava alcune forme del Capitalismo per realizzare quell’industrializzazione premessa al Socialismo attraverso un passaggio graduale e senza strappi traumatici, vediamo come Stalin non possa essere considerato neanche l’erede politico di Lenin.
Cosa dire invece a proposito di altri possibili eredi di Lenin? Tra le persone nominate all’interno del suo testamento, vi era nessuno in grado di continuarne l’opera? Proviamo a rispondere prendendo in considerazione due casi esemplari, quello di Trockij e quello di Bucharin.

Alla ricerca di alternative

Trockij in un ritratto del 1922

Trockij in un ritratto del 1922

Consideriamo innanzitutto il caso di Trockij: Lenin stravedeva per lui e in generale, come abbiamo visto, godeva di grande popolarità in connessione con il suo ruolo di generale vittorioso dell’armata rossa. Inoltre rivestiva cariche che lo rendevano secondo solo a Stalin in quanto a poteri esercitati. Prendendo tuttavia in esame le sue posizioni politiche, notiamo sia contrasti che similitudini rispetto al fondatore del partito bolscevico. Il nome di Trockij è infatti legato alla sua teoria della rivoluzione permanente, ai sensi della quale la diffusione nel breve periodo del moto rivoluzionario dall’Urss agli altri paesi contigui (e in primis alla Germania) risultava fondamentale per assicurare il successo della rivoluzione anche nella stessa Unione Sovietica. Infatti un paese così arretrato come quello sorto dalle ceneri dell’Impero Zarista, non poteva fare a meno di un aiuto immediato dall’esterno per avere qualche chance di sopravvivenza. Sebbene Lenin avesse aderito in un primo momento a questa visione, successivamente, in special modo in seguito agli sviluppi legati alla NEP, aveva cambiato idea. Egli credeva infatti che la Nuova Politica Economica sarebbe stata sufficiente per l’industrializzazione dello stato sovietico, sebbene questo avrebbe significato ritardare di molto il passaggio dal Capitalismo al Socialismo ed infine al Comunismo.
Trockij non era disposto a compromessi stile NEP. Il suo progetto prevedeva infatti l’estrazione immediata di grandi quantità di risorse dalle campagne al fine di accumulare il capitale necessario per investimenti produttivi nel settore dell’industria, fosco disegno che in seguito sarà ripreso e realizzato da Stalin. Nonostante ciò Trockij osteggiava l’idea di centralismo democratico (o burocratizzazione) avanzata da Stalin, e appoggiava il progetto di Lenin di coinvolgere progressivamente la classe operaia al potere attraverso un’istruzione progressiva.
Unendo ciò al fatto che Trockij sembra avesse una disposizione d’animo assai più apprezzata da Lenin rispetto a quella di Stalin, non stupisce che il leader sovietico avesse addirittura cercato di servirsene per mettere fuori dai giochi politici Stalin per tutta la prima parte del 1923, durante gli ultimi mesi della sua vita. Ma Trockij pensava di non aver bisogno di alcun appoggio ‘esterno’ per succedere a Lenin, e men che meno di mettere in difficoltà il ‘bullo’ Stalin, come questi lo aveva definito. Morto Lenin, pensava Trockij, la sua successione sarebbe stata automatica. Questo derivava da un’eccessiva fiducia in sé stesso che egli aveva, e che Lenin non aveva mancato di sottolineare quale suo difetto all’interno dei suoi scritti. Ciò lo condannò ad esser vittima delle trame di potere che Stalin aveva ordito ben prima che Trockij se ne accorgesse. Quando si rese conto di dover lottare per ottenere ciò che voleva, era ormai troppo tardi.
Esaminata la posizione di Trockij, veniamo a Bucharin. In lui molti storici hanno voluto vedere, soprattutto di recente, l’unica alternativa credibile a Stalin ed un possibile ‘erede naturale’ di Lenin. Di certo Bucharin non partiva svantaggiato nella lotta per la successione rispetto ai suoi concorrenti, in virtù delle importanti posizioni che già rivestiva nel Pcus. A ciò si deve aggiungere la sua comprensione immediata della situazione seguita alla morte di Lenin, e la sua scelta strategica di affiancarsi inizialmente a Stalin per accrescere i suoi poteri (divenne presidente del Comintern entro il 1926) lo dimostra a pieni titoli. Ideologicamente parlando, inoltre, le sue posizioni erano particolarmente vicine a quelle di Lenin. Infatti, anche Bucharin credeva nella NEP come unico mezzo per una efficace industrializzazione dell’Unione Sovietica, sebbene sposasse questa convinzione con la teoria del ‘Socialismo in un solo paese’, poi ripresa da Stalin. La versione di Bucharin era tuttavia diversa: egli pensava che la rivoluzione sarebbe potuta essere vincente anche confinandola alla sola Urss, qualora si fosse continuati sulla strada della Nuova Politica Economica. Una posizione molto simile a quella dell’ultimo Lenin. Il problema con Bucharin fu che quando decise di arrivare alla resa dei conti con Stalin, provò a delimitare lo scontro all’interno dei vertici del Pcus, laddove egli godeva dell’appoggio maggiore all’esterno del quadro dirigenziale del partito, specie tra i contadini, delle cui istanze era considerato un difensore in virtù del suo appoggio alla NEP. Come stiamo per vedere nel successivo paragrafo, questo fu un errore imperdonabile.

Stalin, il successore favorito

Kruscev e Stalin nel 1936

Kruscev e Stalin nel 1936

Venendo alle condizioni materiali, nessuno era più favorito di Stalin nella successione a Lenin. Spesso, difatti, la sua ascesa viene messa in collegamento diretto con la sua posizione di Segretario Generale del partito. Tuttavia questa è una mezza verità: non solo questo particolare ufficio mancò di effettivi poteri prima del 1923, ma bisogna anche aggiungere che Stalin aveva in pugno i principali organi di coercizione della macchina statale sovietica. E difatti, entro il 1922, egli risultava membro dell’Orgburo (sotto organo del Politburo che sorvegliava i vari comitati locali del Pcus e avente un elevato potere in merito all’assegnazione di posizioni di comando), del Rabkrin (organo di controllo dell’imponente apparato burocratico-amministrativo dell’Urss), del Politburo (il comitato esecutivo del Pcus), oltre che naturalmente del Comitato Centrale del partito. Inoltre, egli rivestiva il ruolo di Commissario per le Nazionalità, incaricato di occuparsi delle scottanti questioni etniche all’interno della multirazziale Unione Sovietica.
Lenin aveva favorito la sua ascesa in queste posizioni, specie perché ne apprezzava l’intelletto pratico e la sua forte lealtà. Come abbiamo visto ebbe modo di pentirsene sul letto di morte. Ma ormai Stalin aveva ottenuto quei poteri. E fece in modo, specie dopo la sua ri-elezione quale Segretario Generale del partito nel 1923, di utilizzare quelle sue posizioni al fine potenziare quel particolare ruolo che precedentemente aveva avuto un valore poco più che onorifico.
La legittimazione a fare ciò venne a Stalin dall’XI congresso del Pcus, nel contesto del quale venne rieletto a grande maggioranza come Segretario Generale del partito all’inizio del 1923. Si impone a questo punto una domanda chiave: perché Džugašvili godeva di questo ampio appoggio da parte delle gerarchie sovietiche? Per rispondere a questa domanda potremmo rifarci al principio di auto-conservazione. Con l’instaurarsi della dittatura sovietica, si era venuta progressivamente a stabilire una corrispondenza precisa tra le strutture del partito comunista russo e quelle dello stato sovietico. Tale processo venne completato da Stalin facendo del vertice del partito (il segretario, vale a dire lui stesso) anche il vertice dell’intera macchina governativa.
Ma perché auto-conservazione? Ai sensi della teoria leninista, soprattutto nelle sue più tarde elaborazioni, una volta che l’avanguardia rivoluzionaria si fosse impadronita dello Stato, essa se ne sarebbe dovuta servire temporaneamente come mezzo per instaurare il Socialismo, in cui lo Stato tutto controlla. Tuttavia questo non era l’obiettivo finale. L’obiettivo finale era il Comunismo, in cui dello Stato si sarebbe dovuto fare a meno. Bisognava quindi cercare di ridurne progressivamente l’influenza, in particolare quella trovante espressione nei suoi vertici dirigenziali e nelle sue strutture burocratiche. Per fare ciò era tuttavia necessario coinvolgere progressivamente i cittadini nella gestione del potere a spese delle ‘élites’. Questo, come abbiamo visto, voleva fare Lenin, ed era anche il progetto di Trockij. Ma queste élites non erano tutte d’accordo. Ad esempio non lo erano i numerosi arrivisti che avevano incominciato a ricoprire posizioni di potere all’interno dell’Unione Sovietica dopo la Guerra Civile, la quale aveva decimato gran parte delle avanguardie originarie. Quando Stalin si fece avanti con le sue idee di ‘centralismo democratico’, la sua ricetta parve il rimedio perfetto alle preoccupazioni di quanti vedevano la loro posizione minata dalla possibile ascesa al potere di nuovi personaggi. Questo appoggio da solo non sarebbe tuttavia bastato. Stalin fu anche in grado di sfruttare le sue posizioni per mettere gli uni contro gli altri i suoi concorrenti, prendendo di volta in volta le parti di una fazione o di un’altra ed estromettendo dal partito gli esponenti della fazione avversa. La chiave della sua strategia risiedette nel confinare tutte le lotte all’interno del Pcus, dove il suo potere, come abbiamo visto, era grande.

Conclusioni

È certamente vero, dunque, che le condizioni materiali erano tali per cui il successo finale di Stalin era ampiamente pronosticabile, e nessuno ne fosse particolarmente sorpreso (salvo Trockij, forse).
Tutto ciò non significa che allora non esistessero alternative a Stalin o che Stalin fosse destinato a imporsi inevitabilmente, come è stato illustrato. Questo argomento è ancor meno sostenibile alla luce della teoria totalitaria. Lenin, come evidenziato, non aveva in mente di porre in essere misure eccessivamente autoritarie nei confronti della popolazione (specie dei contadini), né di creare un apparato statale onnipotente ed inattaccabile, e se dovessimo individuare un successore sulla base della corrispondenza alle sue idee dovremmo piuttosto protendere per una via di mezzo tra Bucharin e Trockij. Ciò aiuta a ricordare ancora una volta che non esistono percorsi obbligati ed evoluzioni necessarie. Se così fosse stato, probabilmente, Stalin sarebbe stato l’erede meno adatto a continuare l’operato di Lenin. Come dimostra questo nodo storiografico dunque, compito degli storici, non deve essere quello di cercare di dimostrare l’inevitabilità dei processi della Storia. Compito degli storici, piuttosto, deve essere tentare di spiegare perché gli eventi non abbiano seguito un’altra strada. Laddove c’è possibilità, d’altronde, riscopriamo anche la misura della nostra libertà.

Per saperne di più

Cohen, S. Rethinking the Soviet Experience: History and Politics since 1917New York, Oxford University Press, 1985.
Graziosi, A. L’Urss di Lenin e Stalin – Bologna, Il Mulino, 2010.
Medvedev, R. Let History Judge: the origins and consequences of Stalinism - Columbia University Press, 1989.
Read, C. The Making and Breaking of the Soviet System - Palgrave, 2001.
Sandle, M. A Short History of Soviet SocialismLondra, UCL, 1999.
Stalin, J. Problems of Leninism Mosca, Foreign Languages Pub. House, 1953.
Trotsky, L. The Revolution Betrayed - New York, Pioneer Publishers, 1957.
Pipes, R. Comunismo, una storia – Milano, Rizzoli, 2003.