SILVIO PELLICO LIBERATO DALLO SPIELBERG

di Alessandro Lomaglio -

Graziato il 1° agosto 1830 insieme a Piero Maroncelli e ad Andrea Tonelli, Pellico impiegò quasi cinquanta giorni per fare ritorno a Torino e riabbracciare i familiari. Il lungo viaggio toccò Vienna, Milano e Novara, rivelandosi oltremodo difficile a causa dei sospetti che ancora si addensavano attorno alla sua figura.


Il castello dello Spielberg, a Brno.

Il castello dello Spielberg a Brno.

Nelle ultime pagine de Le mie prigioni Silvio Pellico racconta le fasi della sua liberazione dopo circa dieci anni di carcere duro, scontato nello Spielberg, una tetra fortezza in Moldavia, appollaiata come un brutto corvo sulla collina che domina la città di Brunn, oggi Brno nella Repubblica Ceca. Le celle erano situate negli antri sotterranei, umide e con una finestrella munita d’inferriata, da cui filtrava poca luce. Erano dotate solo di un tavolaccio per dormire e di una brocca per l’acqua. La dieta era molto scarsa e non poteva assolutamente soddisfare la fame dei detenuti. Tanto che Oroboni e Villa morirono d’inedia. In ogni cella era posto un solo detenuto, in modo che non potesse avere contatti con gli altri, perché il regolamento del carcere imponeva un ferreo isolamento. In seguito, per affollamento e mancanza di spazio furono sistemati due carcerati in ogni cella.
Col decreto di grazia, firmato alla fine del mese di luglio del 1830 e reso pubblico il 1° agosto, l’imperatore d’Austria Francesco I concesse la grazia a Silvio Pellico, a Piero Maroncelli e a un terzo recluso, che risultò Andrea Tonelli.
Pellico ricordava bene quel 1° agosto. Era domenica e, come tutti i giorni di festa, si trovava con gli altri detenuti nel recinto della fortezza, dal cui muricciolo si potevano osservare la vallata e il cimitero sottostanti, dove erano sepolti Antonio Fortunato Oroboni e Antonio Villa, condannati per cospirazione al carcere duro, il primo a 20 anni e il secondo a 15.
Dopo la celebrazione della messa, riservata alle donne recluse, spettava agli uomini entrare in chiesa per un’analoga funzione religiosa.
Al termine degli uffici divini, i detenuti furono, come sempre, inquadrati, perché rientrassero nelle rispettive celle e consumare il pasto. Quel giorno furono avvertiti che li attendeva il direttore di polizia giunto da Vienna. Ognuno andò col pensiero a nuove perquisizioni o comunque a misure peggiorative della loro condizione carceraria.
Furono condotti nella camera delle udienze, dove il direttore prese un foglio e lesse, senza fare alcuna premessa, che S.M. l’imperatore, nella sua magnanimità, aveva firmato l’atto di grazia per Maroncelli, Pellico e un terzo, Andrea Tonelli. Pellico, anche a nome degli altri, espresse gratitudine per la generosità di S. M. l’imperatore e ringraziò.
Il direttore si meravigliò, perché non registrò alcuna manifestazione di euforia da parte dei graziati, anzi gli sembrarono inspiegabilmente angosciati. Il loro pensiero infatti era rivolto ai propri familiari, dei quali, per tutto il tempo della detenzione, non avevano ricevuto alcuna notizia. Erano ancora vivi i genitori, i fratelli e le sorelle? E come stavano? Erano per questo molto preoccupati e agitati.
Prima di rientrare ciascuno nella propria in cella, furono raggiunti da Andrea Tonelli, il terzo che era stato graziato. Si abbracciarono e gioirono per l’insperato beneficio. L’appetito ormai era scomparso e così saltarono il frugale pranzo di quel giorno.
A questo punto si presentavano altri problemi, perché non sapevano innanzi tutto come e quando si sarebbero svolte le procedure per uscire dallo Spielberg, tornare liberi e raggiungere le proprie famiglie: Maroncelli a Forlì, Tonelli a Brescia e Pellico a Torino. Non avevano alcuna possibilità economica e quindi c’era il problema dei soldi con cui affrontare il viaggio, piuttosto lungo per il ritorno alle rispettive città.

La liberazione

Al tramonto, il direttore di polizia tornò allo Spielberg e comunicò ai tre che erano liberi e potevano far ritorno alle proprie famiglie. Avendo notato che vestivano ancora da galeotti, ordinò che a ciascuno di essi fossero dati un mantello e un berretto militari per coprirsi.
I tre graziati, raccolte le poche cose che avevano in cella, furono accompagnati alla carrozza che li attendeva nel cortile. Era quasi sera quando fu aperto finalmente il cancello e la carrozza cominciò a scendere dalla collina dello Spielberg in direzione di Brunn, dove sarebbero stati associati alle carceri della polizia della città: qui dovevano attendere l’arrivo di un commissario imperiale che li avrebbe scortati fino ai confini dell’Austria col Lombardo-Veneto.
Il commissario arrivò dopo cinque giorni. Espletate le procedure di consegna, il direttore di polizia gli affidò i tre ex detenuti e il ricavato della vendita dei loro miseri beni, qualche baule e dei libri, ma, nello stesso tempo, li assicurò che le spese del viaggio sarebbero state interamente sostenute dal governo imperiale. Il commissario che li avrebbe scortati si chiamava von Noe ed era un impiegato della segreteria della direzione di polizia. Per tutta la durata del viaggio ebbe nei confronti dei tre graziati un comportamento cortese e riguardoso.
Pellico purtroppo partì da Brunn in preda a una crisi d’asma, di cui da tempo era sofferente, che era peggiorata e che faceva temere il peggio. A sera inoltrata fu assalito da un attacco di febbre alta che mise in dubbio per l’indomani la prosecuzione del viaggio verso Vienna. Come Dio volle, la mattina seguente, la situazione dell’infermo migliorò e fu ripreso il viaggio. Giunti a Vienna furono alloggiati presso la direzione generale di polizia. Pellico fu messo a letto e un medico, subito chiamato, gli praticò un salasso, gli prescrisse dei cardiotonici, una dieta leggera e riposo a letto.
In quel periodo il clima politico in Europa era molto turbolento, caratterizzato da disordini e agitazioni popolari. Alla fine di luglio, nello stesso giorno in cui l’imperatore aveva firmato il decreto di grazia, era scoppiata in Francia una violenta sommossa popolare, che aveva determinato la decadenza di re Carlo X e l’elezione, al suo posto, di Luigi Filippo d’Orleans.
Pellico era molto preoccupato, perché il suo stato di salute poteva causare un ritardo per il ritorno a casa. Si fece coraggio e, pur soffrendo, assicurò i compagni di sentirsi meglio. Fu deciso così di essere pronti per la partenza. A Vienna, durante la sosta, l’inviato del Piemonte presso la corte asburgica si diede da fare per offrire ai tre una buona accoglienza e mandò una carrozza allo scopo di far visitare ad essi la città, sempre scortati dal commissario imperiale, tenuto anche a sorvegliarli perché non avessero contatti o parlassero con altre persone. Visitarono la cattedrale gotica di Santo Stefano, il bel palazzo barocco del Liechtenstein e lo splendido castello di Schonbrunn, la residenza estiva della famiglia imperiale. Durante la visita ebbero modo di intravvedere nella carrozza l’imperatore che rientrava, ma non fu loro permesso di avvicinarsi.

Verso il Lombardo-Veneto

Silvio Pellico.

Silvio Pellico.

Il giorno seguente lasciarono Vienna, ma Pellico, durante il percorso, fu assalito nuovamente da un forte attacco d’asma e per questo dovettero fermarsi a Buck, un villaggio della Stiria. Fu chiamato un medico, che subito accorse e praticò all’infermo un salasso, come in precedenza aveva fatto il collega, confermando la stessa terapia con cardiotonici e consigliando riposo assoluto a letto.
Dopo due giorni, essendo migliorate le condizioni di salute di Pellico, fu ripreso il viaggio e giunsero a Feldkirchen, un villaggio della Carinzia poco distante da Klagenfurt, dove ricevettero l’ordine di fermarsi in attesa di ulteriori disposizioni. Durante la sosta, che durò cinque giorni, il commissario imperiale si adoperò per rendere l’attesa più sopportabile. Li accompagnò così a un teatrino di commedianti e, un altro giorno, li portò ad assistere a una battuta di caccia.
Finalmente, arrivò il corriere da Vienna e portò il permesso che il viaggio poteva proseguire. Appena possibile, la carrozza partì in direzione del Lombardo-Veneto. Superata Udine sulla sinistra, si diressero a Pordenone, da qui a Conegliano e poi a Ospedaletto. Attraversarono altre città, tra cui Vicenza e Verona e arrivarono a Mantova, dove salutarono Maroncelli, che scese per raggiungere Forlì, dove avrebbe incontrato la famiglia. Ognuna di quelle città suscitava piacevoli ricordi nella mente di Pellico.
La mattina seguente Pellico e Tonelli proseguirono per Brescia, dove appena giunti, Tonelli salutò affettuosamente l’amico e corse incontro ai suoi, dai quali apprese che la madre purtroppo era morta. Proruppe in un pianto dirotto e sconsolato, che commosse profondamente Pellico, il quale, come l’amico, per tutto il tempo della prigionia era stato privo di notizie dei suoi. Infatti, era regola dello Spielberg che i reclusi non dovessero avere alcun contatto, nemmeno epistolare, con le rispettive famiglie.
Pregò in cuor suo Dio, perché gli fosse risparmiata un’identica notizia quando sarebbe giunto a Torino. Restato solo, la carrozza fece sosta in una locanda, dove su un tavolo scorse un manifesto teatrale, che annunciava la rappresentazione della Francesca da Rimini, la sua tragedia. Scambiò poche parole sull’opera con un cameriere, senza però dire che ne era l’autore.
Due giorni dopo, il 9 settembre, giunse a Milano col commissario imperiale. In quella città aveva trascorso un periodo felice della sua vita, pieno di speranze e illusioni. Prese alloggio all’albergo Bella Venezia, dove, diversi anni prima, spesso si era fermato.
Successivamente, il suo angelo custode lo accompagnò alla direzione di polizia per fare rapporto sul viaggio e per ricevere nuovi ordini.
Appena entrato nell’ufficio, Pellico ebbe un tuffo al cuore, che gli fermò il respiro. Riconobbe l’ufficio dove circa dieci anni prima era stato interrogato e arrestato. Il direttore lo accolse gentilmente e si congratulò per la grazia accordatagli. Su espressa richiesta di Pellico gli permise di continuare il soggiorno alla Bella Venezia, col divieto comunque di parlare con chicchessia e di permettere sempre la presenza del suo accompagnatore, che era comunque una squisita persona, gentile e premurosa, di nome Stundberger. A sua volta, in vena di confidenze, gli aveva detto che, pur essendo sergente di polizia a Vienna, prestava servizio soprattutto come cameriere del commissario. Forse volle fargli intendere che fare lo sbirro non gli piaceva.
Pellico, ritenendo inutile continuare la sosta, manifestò il desiderio di partire l’indomani, 10 settembre, per Novara. E così, di buon mattino, dopo aver salutato e ringraziato il direttore di polizia, partì finalmente alla volta del Piemonte. Era intanto trascorso più di un mese dalla liberazione dallo Spielberg.
Prima di salire sulla vettura, scortato da un brigadiere di gendarmeria, Pellico salutò cordialmente Stundberger, che, per deferenza, volle accompagnarlo fino alla carrozza, non mancando di raccomandargli di coprirsi bene col mantello, di mangiare e di curarsi, perché era molto debilitato. Gli disse anche che gli dispiaceva lasciarlo, perché avrebbe desiderato accompagnarlo fino a Torino. Poi in tedesco gli fece tanti auguri di buona salute e di buon viaggio. E queste furono le ultime parole che Pellico udì in quell’idioma.
Montò sulla carrozza accanto al brigadiere, che lo avrebbe scortato fino al posto doganale del Regno di Sardegna sulla riva destra del Ticino. Appena iniziato il viaggio, il brigadiere non mancò di fargli sapere, forse per vanteria o per intimorirlo, di essere stato lui l’agente che aveva bloccato Federico Confalonieri, mentre tentava di fuggire dopo l’arresto. Pellico non gli rispose e non aprì bocca per tutto il viaggio. Rivolse il suo pensiero al povero Federico, che languiva ancora nello Spielberg, anzi fu l’ultimo a venirne fuori.
Arrivati a Boffalora, si fermarono per fare colazione, ma Pellico se ne astenne. Era tanta l’ansia di proseguire, che non vedeva l’ora di riprendere il viaggio. Conosceva bene quella zona attraversata dal Ticino, perché, quando era ancora libero, l’aveva frequentata, quale ospite del conte Porro Lambertenghi, come precettore dei figli Domenico e Giulio.

Nel Regno di Sardegna

Da Boffalora proseguirono per San Martino di Trecate, sulla riva destra del Ticino, in territorio sabaudo, dove si trovava l’edificio della dogana. Pellico notò che il ponte progettato sul fiume era stato completato ed erano stati rimossi dalla riva tutti i materiali, a suo tempo ammucchiati per la costruzione. Arrivati alla dogana, il brigadiere lombardo scese e andò a fare rapporto ai colleghi piemontesi. Terminato il rapporto, fece ritorno alla carrozza. Salutò frettolosamente Pellico e riattraversò il ponte sul Ticino per fare rientro a Milano.
Pellico, sicuro che tutte le formalità fossero state assolte, disse al vetturino di partire per Novara. Intervenne però un carabiniere che invece gli ordinò di attendere. Pellico si mostrò infastidito e rammaricato per il contrattempo, scese dalla carrozza e si rifugiò in un oratorio, su cui svettava un piccolo campanile, che sorgeva nei pressi del posto di dogana, come riporta Giovanni Garzoli, uno storico locale.
Dopo circa una mezzora comparve un signore molto distinto, che si avvicinò a Pellico mentre usciva dalla chiesetta, e gli chiese gentilmente se gli consentisse di fruire della sua carrozza per tornare a Novara, perché a causa dell’ora tarda non c’erano altre vetture per raggiungere la città. Quella rappresentava per lui l’ultima possibilità. Pellico acconsentì, ma ben presto scoprì che era un carabiniere travestito, che, sotto mentite spoglie, aveva il compito di vigilare sull’ex detenuto. Si chiamava Giuseppe di Capriglio, addetto al comando di polizia di Novara, nipote del conte Tornielli Brusati di Vergano. Passando per Novara prima di recarsi in una sua tenuta che possedeva in zona parlò col nipote perché lo tenesse costantemente informato sul comportamento del prigioniero.
Finalmente giunsero in città e quel signore finse di cercare un albergo, mentre invece fece dirigere difilato la carrozza, sicuramente previ accordi presi col vetturino, alla caserma dei Reali Carabinieri, il cui ingresso si trovava nell’omonimo vicolo, nella contrada Sant’Agata, oggi via dei Cattaneo.
Nella caserma, alle insistenti richieste di Pellico su quella sosta non prevista, fu risposto che si era in attesa di ordini superiori, per cui non c’era altra soluzione che aspettare. A tal fine, era stata approntata la camera del brigadiere con un letto, al piano superiore, dove poteva sistemarsi e pernottare.
Il mattino seguente, di buon’ora, Pellico, che in verità aveva dormito molto bene, considerato che da tanto tempo non aveva avuto un vero letto, ma solo un tavolaccio in una fetida cella con i muri impregnati di umidità. Fece una frugale colazione e poi uscì sul terrazzo a sgranchirsi le gambe. L’aria fresca lo ritemprò e prese a respirare a pieni polmoni quell’aria pura, proveniente dalla catena del Monte Rosa, che si stagliava di fronte. Provò un vero beneficio.
Più tardi si presentò in caserma un ufficiale, che si mostrò molto gentile nei suoi confronti, e lo avvertì che c’era per lui una lettera del padre. Era il comandante dei carabinieri, di nome Giuseppe Maria Martin di Montù, che a suo tempo aveva combattuto nelle armate napoleoniche. Caduto l’imperatore a Waterloo, si era schierato dalla parte delle forze della restaurazione, distinguendosi per il  comportamento tenuto nella repressione dei moti del 1821. Per questo era stato insignito del Cavalierato dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro e, promosso generale, gli fu affidato il Comando della città e della provincia di Torino dal 1847 al 1849. La lettera fu consegnata a Pellico alcune ore dopo e da essa apprese che i familiari stavano tutti bene in salute. Solo Mariuccia, l’ultima sorella, divenuta suora della Visitazione, era morta nove mesi prima della sua liberazione. Chi sa quanto aveva pregato per lui, ne era sicuro.
Intanto i giorni passavano senza alcuna novità, né si sapeva qualcosa dell’autorizzazione per raggiungere i suoi a Torino. Era un supplizio per lui.
Il ritardo, come si seppe successivamente, fu provocato dal Governatore militare della Divisione di Novara, tenente generale Giuseppe Maria Galleani d’Agliano, bene introdotto a corte e già viceré della Sardegna, in predicato di ricevere il Collare dell’Annunziata. Dagli atti in suo possesso e per personale supposizione, aveva tratto il convincimento che Pellico potesse ancora essere un soggetto politicamente pericoloso, nonostante gli anni di carcere duro. Perciò chiese precise istruzioni al Ministro dell’Interno, il quale rispose in modo secco che non c’erano motivi validi per trattenere ancora l’ex prigioniero.
La mattina del 16 settembre finalmente arrivò il permesso di poter partire per Torino e ogni tutela dei carabinieri cessò. Il 17, verso le tre del pomeriggio, la carrozza si mosse in direzione di Vercelli, dove arrivò dopo il tramonto e dove pernottò. L’indomani partì per Torino, ove giunse che era ormai sera. Pellico riabbracciò, dopo circa dieci anni, tra le lacrime di commozione, i familiari, che lo attendevano trepidanti. Mancava la sorella Giuseppina, trattenuta a Chieri nel convento per impegni precedenti, che però si presentò a Torino alcuni giorni dopo e si trattenne per qualche tempo.
Così si concluse la triste e drammatica vicenda di Pellico, che languì per circa dieci anni nel carcere dello Spielberg, il peggiore e il più lugubre dell’Impero Austro-Ungarico, definito, dopo la pubblicazione de Le mie prigioni, la “Vergogna d’Europa”. L’unico conforto che ne trasse fu forse il riavvicinamento alla religione e alla fede in Dio, pur tra tante miserie e aberrazioni. In seguito divenne terziario francescano.
Per quanto riguarda i rapporti di Pellico con Novara e il Novarese va citato l’episodio che visse in Valsesia, dove si trovava al seguito di Giulia Colbert Falletti, marchesa di Barolo, di cui era segretario e bibliotecario. Venuto a conoscenza della tragica e compassionevole storia di una giovanetta di Quarona, di nome Panacea, uccisa dalla matrigna ad appena 15 anni, restò talmente colpito, che decise di scriverne un profilo biografico, intitolato Notizie intorno alla B. Panacea, pastorella valsesiana, nativa di Quarona, firmandolo “un devoto”. Quando l’opuscolo fu pubblicato a Torino nel 1837 per i tipi del tipografo Giacinto Marietti, fu attribuito giustamente a Silvio Pellico.

La caserma dove sostò a Novara

Vicolo Carabinieri a Novara

Vicolo Carabinieri a Novara.

L’edificio, dove Pellico fu costretto per una settimana a sostare a Novara, dall’11 al 16 settembre 1830, fu, come accennato, la Caserma dei Reali Carabinieri con ingresso nel vicolo, che ancora oggi è identificato con una targa Vicolo Carabinieri. Si trovava nella contrada Sant’Agata, quasi di fronte alla parrocchia San Clemente, mentre a nord-est si eleva l’attuale Basilica di San Gaudenzio, riedificata entro le mura, dopo la demolizione di quella che sorgeva nell’omonimo sobborgo. I lavori della nuova costruzione, iniziati nel 1577, terminarono nel 1659.
La parrocchia di San Clemente era una chiesa antichissima, titolata basilica, che nel XIII secolo, per l’avanzato stato di degrado, fu abbattuta e sulla sua area fu edificata una nuova chiesa, dedicata prima allo stesso Santo e successivamente a San Filippo Neri. Oggi è denominata chiesa del Carmine. Nel 1553 alla chiesa di San Clemente furono trasferiti, per ordine del vescovo Giovanni Arcimboldi, i Padri Carmelitani, che costruirono, attiguo ad essa, un convento, dopo che era stato demolito quello fuori le mura nel borgo San Gaudenzio. Su parte dell’area dopo l’abbattimento, furono costruite alcune fortificazioni della città, come la mezzaluna, detta del Castello. Il nuovo convento fu soppresso, alla pari di tutti gli altri, nel 1805 per decreto napoleonico. Ai Padri Carmelitani successero nella sede i preti della congregazione di San Filippo Neri.
In breve, un edificio, che la nobile famiglia Caccia possedeva nella contrada di Sant’Agata, fu ceduto nel luglio del 1773 alla città, che lo destinò a caserma dei Reali Carabinieri e ad alloggio del comandante. In precedenza, già nella seduta del 15 giugno in Consiglio Comunale era stata data lettura della risposta in tal senso del conte Giuseppe Antonio Caccia, sollecitato dall’amministrazione civica, perché le fosse ceduto lo stabile. Il complesso era composto da diversi locali, parte a piano terra e parte ai due piani superiori.
In realtà, tra il Comune e la famiglia Caccia c’era stata una lunga trattativa, durante la quale era stata esaminata anche la possibilità di fare ricorso a un contratto di locazione.
Secondo la relazione, redatta il 20 giugno 1733 dall’ingegner Gaudenzio Portigliotti della Regia Camera di Milano, l’edificio aveva due cortili intercomunicanti. Mediante un’ampia porta d’ingresso, con gli stipiti e l’arco in cotto, si accedeva a un andito, che sul lato destro immetteva in un locale destinato a cucina, mentre sul lato a settentrione attraverso una porta si accedeva in un piccolo salotto, da cui si poteva passare in una grande sala col pavimento in mattoni e il soffitto in tavole di legno, sostenute da travi. Nella sala faceva bella mostra un grande camino. Sul lato sinistro c’era un salottino, che a ponente era collegato con altri locali.
Attraverso il vestibolo si accedeva al cortile ad occidente, pavimentato in parte con pietre vive e in parte con pietre cotte, mentre intono si snodava la cornice di lastre di serizzo.
Questo cortile era limitato da un muro di cinta, sorretto, a intervalli regolari, da pilastri ed aveva l’uscita sul baluardo mediante una rampa.
Nella zona di nord-est era stata costruita una scala, piuttosto ampia, per accedere ai piani superiori e ai suoi piedi era stato scavato il pozzo, sul cui muro di protezione era stato disegnato lo stemma della famiglia Caccia, fasciato rosso e argento. Inoltre, parte dei locali era riservata ai servizi, cucine, locali accessori, dispense, magazzini, una stalla, un portico usato come rimessa e un altro portico coperto da un terrazzo, sostenuto da due colonne in mattoni. Su questo terrazzo, durante la sosta a Novara, Pellico ogni mattina era solito passeggiare e respirare l’aria salubre che proveniva dalle montagne.
A Nordest, c’era un altro giardino, più ampio, con uscita sulla Contrada Sant’Agata, mediante una porta non molto grande.
In breve, l’ingegner Portigliotti rilevò che l’edificio era composto da 17 locali e vani per 64 letti. Si trovava nel quartiere del Carmine o quartiere Caccia, successivamente denominato della Gendarmeria o del Corpo dei Gendarmi, che all’inizio poteva ospitare soltanto 12 letti e 9 cavalli.
Quando il governo stabilì di destinare a Novara un corpo di Gendarmeria, la civica amministrazione, a termini di apposito regolamento, si impegnò a reperire l’alloggio da assegnare ai militari e al comandante di corpo e ad assicurare la regolare manutenzione dell’edificio. Fu scelto il quartiere del Carmine, nella zona occidentale di Novara, facilmente accessibile dalla città e dai bastioni, che venne interamente occupato e utilizzato dalla stazione dei Reali Carabinieri. Come già detto, proprio in alcuni di questi locali fu condotto Silvio Pellico il 10 settembre, provenendo da San Martino, e vi sostò per una settimana, fino alla mattina del 17 settembre, quando gli fu permesso di raggiungere Torino e riabbracciare i familiari.
L’architettura del primo piano era coerente al pianterreno sottostante e su di esso si trovava la camera del brigadiere, dove era stato alloggiato Pellico, che usufruiva del terrazzo. C’erano poi i cameroni dei carabinieri, l’alloggio del comandante della stazione e quello del sottotenente, gli uffici della caserma e l’archivio.
Al secondo piano si poteva accedere attraverso un unico vano scala, di cui, per necessità dell’ufficio, fu chiesta la ristrutturazione e furono creati camere e cameroni per i carabinieri e un locale da destinare a camera di disciplina.
In seguito, la caserma fu trasferita prima in un edificio che aveva la facciata sul baluardo Quintino Sella e poi in un edificio, appositamente costruito, sul baluardo Lamarmora, dove si trova tuttora.

La caserma divenne abitazione privata

Col tempo il vecchio edificio fu demilitarizzato e destinato a civile abitazione. Vi abitarono per molti anni il maestro Folco Perrino e la moglie Elena Bollatto, due celebri artisti che avevano formato per oltre mezzo secolo un affermato duo pianistico di fama internazionale.
I due artisti avevano esordito giovanissimi al Teatro Carignano di Torino, da dove spiccarono il volo verso una fantastica e intensa attività concertistica, collaborando con orchestre sinfoniche tra le più famose, sia italiane che europee, sotto la direzione di celebri direttori.
Il duo Bollatto-Perrino ha eseguito, a completamento della rilevante attività concertistica, numerose registrazioni radiofoniche per emittenti europee e per le televisioni italiana e polacca. Entrambi gli artisti hanno realizzato numerose incisioni, sempre a quattro mani, per grandi case discografiche, quali la Rusty-Record e la Fonit-Cetra.
Il maestro Folco, con l’apporto e l’incoraggiamento della signora Elena, ha fondato a Novara il Centro Studi Martucciani, del quale ha pubblicato una monumentale biografia in quattro volumi, arricchita da spartiti del maestro napoletano e da rare fotografie d’epoca e ha istituito un premio annuale a favore di due giovani pianisti, giunto ormai al quinto anno.
Di Martucci ha curato diverse revisioni di opere pianistiche per la casa Curci di Milano. E’ stato presidente della Fondazione “Guido Cantelli”, il celebre direttore d’orchestra novarese, discepolo prediletto del grande Toscanini, morto giovanissimo nel 1956 in un incidente aereo in Francia, di cui ha scritto una biografia, impreziosita da un DVD con brani di opere dirette dal maestro novarese.
Inoltre, è stato insegnante e direttore del Conservatorio Musicale di Novara, che su sua iniziativa è stato dedicato a “Guido Cantelli”. Per circa 50 anni è stato Presidente e Direttore Artistico dell’associazione Amici della Musica “Vittorio Cocito”, la prestigiosa e la più importate associazione culturale della citta, che ogni anno dà vita al Festival Cantelli, durante il quale si esibiscono orchestre sinfoniche e camerali tra le più affermate in Italia e in Europa.
La signora Elena, dal suo canto, non ha limitato l’interesse artistico solo al pianoforte, ma si è dilettata a dipingere e a scrivere bellissime fiabe per bambini. Di questa attività collaterale, il maestro Perrino era molto orgoglioso. A chi talvolta saliva in casa a salutarli non mancava di mostrare un quadro, che raffigura due mani su una tastiera. Il maestro, riconoscente ed emozionato, precisava subito che il quadro lo aveva dipinto, per amore, la moglie e quelle mani erano le sue.
La signora Elena è stata inoltre ideatrice e direttore artistico del Festival Cusiano di musica sacra, che ogni anno si svolge sul lago d’Orta, sull’isola di San Giulio, nella splendida cornice di Villa Tallone. Dopo la morte dei due artisti, la casa è stata ereditata dalla nipote, dottoressa Marilinda Mineccia, procuratore capo della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Novara. In ricordo e in segno di devozione la dottoressa Mineccia ha ceduto parte dell’edificio all’associazione “Amici della Musica Cocito”, per dare ad essa una sede ove continuare le iniziative artistiche degli zii.