SERGEJ LAVROV, PILASTRO GEOPOLITICO DI PUTIN

di Massimo Iacopi -

Chiamato “Signor niet”, è uno dei consiglieri più vicini a Vladimir Putin e il principale artefice del successo diplomatico della Russia. Posto alla testa della diplomazia di Mosca dal marzo 2004, Lavrov è, insieme al ministro della Difesa Sergej Shuigu, un pilastro della rinascita russa.

Sergej Lavrov

Sergej Lavrov

In Piazza Smolenskaia, presso il Ministero russo degli Affari Esteri, nell’impressionate edificio neoclassico staliniano costruito dopo il 1945 con l’impiego di prigionieri di guerra tedeschi, Sergej Viktorovic Lavrov (1950) ha già raggiunto la schiera dei grandi ministri che hanno segnato la politica estera della Russia moderna. Se non ha ancora conquistato, in termini di durata, il record di Andrei Gromiko, in carica per 28 anni e 137 giorni (dal febbraio 1957 al luglio 1985), Lavrov sta per raggiungere quello di Viaceslav Molotov (ministro dal maggio 1939 al marzo 1949 e dal marzo 1953 al giugno 1956, per un totale di 13 anni e 29 giorni), e ha già superato quello di Maksim Litvinov (8 anni e 286 giorni, dal luglio 1930 al maggio 1939) e di Eduard Shevarnadze (5 anni e 197 giorni dal luglio 1985 al gennaio 1991).

L’apprendistato sovietico

Sergej Lavrov si riconosce in un modello: Alexander Gorchakov (1798-1883), il grande ministro degli Esteri dello zar Alessandro II Romanov dal 1856 al 1882. Lavrov passa tutti i giorni davanti al suo ritratto, nella galleria dei ministri posta al settimo piano del Ministero. Con i suoi ospiti, egli si ferma, a volte, davanti al busto di Gorchakov per raccontare il destino di questo grande personaggio che restaurò la posizione della Russia di fronte alle Potenze europee dopo la sconfitta subita in Crimea ad opera della coalizione franco-anglo-turco-piemontese (1853-1856).
Sotto la sua aria di mastino russo malnutrito, Lavrov è un personaggio che sorprende i suoi interlocutori per la notevole cultura così come per l’enorme capacità di lavoro. Queste sono le caratteristiche che hanno sedotto Vladimir Putin, nonostante le profonde differenze fra i due personaggi. Se Lavrov, come Putin, è un talentuoso giocatore di scacchi, egli è anche, a differenza di Putin, una grande amante del whisky di marca e dei sigari o delle sigarette che fuma ovunque, anche quando e dove è vietato (specie negli Stati Uniti, dove si prende un perverso piacere nell’infrangere le leggi anti-tabacco…).
Sergej Lavrov opera nel suo settore con la più completa fiducia accordatagli dal Presidente e dal Primo Ministro Dimitri Medvedev. Tuttavia, non fa parte della rete dei personaggi provenienti da San Pietroburgo, di cui Putin si è circondato sin dal suo arrivo nella capitale moscovita, e ha raggiunto solo più tardi (nel marzo 2004), il “cerchio ristretto dei consiglieri di fiducia” del Presidente, succedendo a Igor Ivanov.
Discepolo brillante, dotato per le lingue straniere (parla correntemente l’inglese e il francese), Lavrov ha studiato presso il prestigioso Istituto di Stato delle Relazioni Internazionali del Ministero degli Esteri della Russia (conosciuto sotto l’acronimo di MGIMO) nel 1972. Diventato diplomatico, è stato impiegato per quattro anni nello Sri Lanka. Qui apprende il cingalese ma scalpita e alla fine ottiene di rientrare a Mosca per assumere la responsabilità del settore delle organizzazioni internazionali. Dopo cinque anni di attesa (1976-1981) viene inviato in quella che sarà la sua sede preferita: la rappresentanza permanente dell’URSS presso l’ONU. È proprio in questa cornice, nella quale opererà per circa sette anni (1981-1988) che ha inizio la sua piena affermazione personale e professionale. Il diplomatico esce spesso per numerosi viaggi di lavoro, costruisce la sua rete di relazioni e osserva con circospezione l’inizio della perestroika di Mikhail Gorbacev.
Tornato a Mosca e incaricato nuovamente delle organizzazioni internazionali, Lavrov vive la caduta dell’URSS come un shock. Non certo per amore del regime sovietico, bensì per l’umiliazione patita. Il nuovo regime, presieduto da Boris Eltsin, ha bisogno di funzionari competenti. Lavrov si mette al suo servizio, prima come Vice-ministro degli esteri della Federazione della Russia, quindi come rappresentante della Russia all’ONU, dove rimarrà per 10 anni dal 1994 al 2004, imponendosi come il numero due della diplomazia russa.

Personaggio originale, seducente e arrogante: un Kissinger alla russa

Rice e Lavrov

Rice e Lavrov

Falso bulldozer ma vero gentiluomo, Lavrov pratica abilmente i registri della seduzione e della durezza. Da giovane e seducente studente in relazioni internazionali organizzava serate studentesche molto frequentate, le famose kaputsniki, durante le quali declamava per gli amici (e le donne, che ha sempre apprezzato) proprie composizioni poetiche. A nutrire la sua arroganza, invece, è stata l’umiliazione subita nell’assistere al dominio dell’iperpotenza americana. «Veniamo crocefissi senza vergogna ma nessuno si preoccupa della nostra resurrezione», affermò nel 2006 per giustificare i suoi “no” a ripetizione sulla scena internazionale.
Naturali le scintille con il segretario di Stato americano Condoleeza Rice che, da specialista del mondo sovietico, riteneva di dover parlare forte e chiaro nei confronti dei vinti. Condoleeza Rice si esprimeva in russo, che parla correntemente, e la sua incomprensione con Lavrov fu subito istintiva. Durante una cena a San Pietroburgo nel 2006 – nel cuore di una discussione sulla situazione irachena – il segretario americano rimproverò i russi di essere troppo negativi. L’affermazione della Rice indusse in Lavrov una replica a voce bassa: «Ma Voi non sapete nulla della Russia …». Un microfono rimasto aperto sul tavolo consentì alla sala di ascoltare questa conversazione “ristretta”.
Gli Occidentali cominciaronono a temere questo diplomatico dal carattere temprato. David Miliband, ministro degli esteri britannico dal giugno 2007 al maggio 2010, lo imparò a sue spese nel settembre 2008, qualche settimana dopo il conflitto russo-georgiano in Ossezia del Sud. Miliband, 43 anni, al telefono con Lavrov, volle alzare i toni ma Lavrov, sferzante, gli rispose: «Ma chi sei tu per darmi lezioni?». Anche con Nikolas Sarkozy, emissario dell’Europa per questo conflitto, le cose non andarono meglio. Un giorno, in preda all’ira, Sarkozy prese Lavrov per la giacca accusandolo di essere un “mentitore” e il russo, che lo superava in altezza di una spanna, si accontentò di rispondere con un sorriso ironico.

 A New York come a casa

Le battute e gli scherzi che lo vedono protagonista al Delegate Lounge, il bar del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, sono rimaste negli annali. Nel corso della sua carriera e per circa diciotto anni, Lavrov non ha perso i contatti con gli Stati Uniti, dove ha costruito una perfetta conoscenza della lingua inglese e della società americana. A New York Lavrov si sente a casa: arrivatovi all’età di trentuno anni come consigliere della rappresentanza sovietica presso le Nazioni Unite, vi tornò dal 1994 al 2004 come ambasciatore permanente della Russia all’ONU. La sua unica figlia, Ekaterina, è nata a New York, dove è ritornata come studentessa presso la prestigiosa Columbia University.
Proprio a Manhattan si trovava Lavrov nel momento degli attentati del 2001 contro il World Trade Center, in occasione dell’intervento internazionale in Afghanistan (2001) e dell’invasione militare americana in Iraq (2003). Sarà Lavrov a spingere Putin a chiamare George W. Bush qualche ora dopo l’attacco dell’11 settembre 2001. Il Presidente russo è stato il primo capo di stato straniero a portare sostegno all’America in quelle ore tragiche.
Meglio di ogni altro russo, Lavrov conosce le forze e le debolezze degli Stati Uniti e della società americana, i segreti dell’ONU e della diplomazia internazionale, le trappole e le vanità dei suoi pari, i difetti dell’organizzazione, l’arte del parlare per non dire nulla – ma in maniera decisa – e di produrre risoluzioni senza sostanza. Lavrov sa anche sfruttare la minima debolezza del suo avversario: di origine armena per parte di padre, è infatti un abile negoziatore. Uomo dal sangue freddo in ogni situazione, capace di fare ostruzionismo in maniera testarda e ottusa, è in grado di mostrarsi un attimo dopo più conciliante di un pacifista scandinavo. Sa recitare con i media allo stesso modo dei politici occidentali più cinici. Tant’è che i giornalisti accreditati sperano sempre di essere invitati ai suoi incontri. Apparentemente inattesi essi sono, in effetti, perfettamente calcolati.

In simbiosi con Putin

Da dodici anni la politica estera russa è rappresentata da Lavrov e Putin. Nel Caucaso o alle Nazioni Unite, sui problemi siriani o iracheni, Lavrov svolge un ruolo essenziale nella difesa degli interessi della Russia. Come ministro, egli ha conosciuto quattro segretari di Stato americani – Colin Powell, Condoleeza Rice, Hillary Clinton e John Kerry – e almeno otto capi della diplomazia francese. La sua azione e la sua cultura si iscrivono nella durata e nella continuità strategica, laddove gli altri ministri degli esteri sono soggetti a un turnover più marcato.
Durante la crisi del Kosovo (1999), gestita da Europa e America, Lavrov lamentò l’impotenza del suo paese. Il raid dei paracadutisti russi sull’aeroporto di Pristina fu un’inutile parata d’onore. Mosca non aveva più una sua opinione in politica estera.
Lavrov spiegò in seguito il sostegno quasi plebiscitario dei russi a Putin con l’adesione alla politica di potenza praticata dal nuovo inquilino del Cremlino: la guerra in Cecenia (2000-2004), quindi in Georgia (2008) e l’attivismo su tutti gli altri problemi scottanti sul tappeto, come Iran e Siria. Il precedente del Kosovo servirà, in seguito, per giustificare l’annessione della Crimea, strappata all’Ucraina. Quando Putin chiama Lavrov agli Affari Esteri, nel 2004, sa che con lui ci sarà perfetta sintonia.
Lavrov mette la difesa e la grandezza dello Stato russo al centro della sua azione. Nel 2011 esprime la sua sfiducia nei confronti delle “primavere arabe” che entusiasmano le capitali occidentali. Ben presto Putin e Lavrov mettono in guardia l’Occidente sulle sue illusioni: ai loro occhi il fenomeno “islamista moderato” è una trappola pericolosa. La ribellione siriana, la spinta dei Fratelli Musulmani in Egitto, le minacce fondamentaliste in Iraq, in Libia, in Giordania e in Tunisia danno loro ragione. A proposito dell’atteggiamento delle potenze occidentali spiega: «In Oriente agiscono come delle scimmie con le bombe a mano». L’algerino Lakhdar Brahini, mediatore dell’ONU in Siria gliene darà atto: «I russi e soprattutto Lavrov sono, fra tutti i non Siriani che ho incontrato, quelli che conoscono meglio le complessità locali».
Lavrov tuttavia si sbaglia profondamente in Libia, nella primavera del 2011, quando in Russia Dimitri Medvedev è presidente e Putin Primo ministro. Medvedev crede alle parole dell’ONU e rinuncia al veto russo sulla risoluzione 1973, che prevede il ricorso alla forza in Libia per proteggere – così si afferma – le popolazioni locali. In occasione del voto di questo testo, il 17 marzo 2011, Lavrov si astiene per ordine di Medvedev. L’interpretazione estensiva della risoluzione – «assumere tutte le misure necessarie [...] per proteggere le popolazioni e le zone civili minacciate di attacco nella Jamahiriya araba libica» – consentirà l’operazione franco-anglo-americana, con la partecipazione (obtorto collo) italiana. Il tutto con le conseguenze funeste che si conoscono, per il paese e per la stessa Europa.
Presa alle spalle, la diplomazia russa fu in quell’occasione messa sotto scacco e umiliata. Tre anni più tardi, Mosca esibirà una reazione apparentemente sproporzionata con l’Ucraina e la Crimea. Essa potrebbe spiegarsi con lo schiaffo ricevuto in Libia, come anche con il precedente del Kosovo. «Voi ci avete bidonati in Libia e non ci bidonerete più in Siria»”, dirà Lavrov a Laurent Fabius. Dopo l’indipendenza del Kosovo nel 2008, Putin si era già rivolto negli stessi termini agli occidentali: «Il Kosovo vi andrà di traverso nella gola».

Successo in Siria

Assad ricevuto da Putin nel 2015

Assad ricevuto da Putin nel 2015

Con l’Iran, riportato nel gioco internazionale con il minimo delle concessioni da parte di Teheran, la Siria rimane il grande successo internazionale della squadra Putin-Lavrov: il comportamento tenuto nel settembre 2013 costituisce un colpo da maestro. Dopo l’impiego di armi chimiche da parte dell’esercito di Bashar el Assad contro i ribelli, la situazione era diventata molto complicata per il regime siriano, appoggiato dalla Russia insieme all’Iran.
Il Cremlino voleva evitare a ogni costo attacchi occidentali che avrebbero potuto abbattere il suo alleato storico. Lavrov trovò la soluzione. La messa sotto tutela internazionale dell’arsenale chimico siriano in cambio dell’interruzione dei bombardamenti e di un alleggerimento della pressione occidentale. Tutto il mondo tirò un sospiro di sollievo: gli occidentali non desideravano un nuovo intervento militare, come l’atteggiamento del Congresso americano e quello della Camera dei Comuni britannica dimostrarono. Barack Obama, impigliato nel suo ultimatum sulle “linee rosse”, imprudentemente fissate a Bashar, fu indubbiamente il più soddisfatto. Il regime siriano riuscì a sfuggire al peggio.
Mosca ne ha quindi approfittato per preparare la seconda fase del piano di salvataggio di Assad: un intervento militare diretto, effettivo nel settembre del 2015, al termine di una spettacolare crescita di potenza militare. Si parlò di una “rottura strategica”, condotta non sulla base dell’amicizia per Bashar – «Non siamo mica sposati con lui», avrebbe detto Lavrov a John Kerry – ma in nome degli interessi russi: conservare per la Russia una profondità strategica in Mediterraneo e nel Medio Oriente, allontanare e neutralizzare, per quanto possibile, la minaccia jihadista sul territorio russo.
A parole Lavrov non si professa fautore di un abbassamento della potenza statunitense («La Russia non si batte contro nessuno»). La sua priorità sembra risiedere altrove: «Lo ripeto, noi non cerchiamo lo scontro con gli USA, l’Unione Europea o la NATO. Al contrario, la Russia è aperta alla più larga cooperazione possibile con i suoi partner occidentali». Come ha affermato Henry Kissinger durante una sua visita a Mosca nel 2016, Lavrov spinge per «il rispetto dei valori e degli interessi vitali di ciascuno».
Come il filosofo russo Nikolai Berdjaev, Lavrov è convinto che la storia abbia dato alla Russia la missione di essere un ponte fra l’Est e l’Ovest. Tutto questo è spiegato in un memorandum pubblicato il 3 marzo 2016 dal suo Ministero. «Da almeno due secoli, ogni tentativo di unificare l’Europa senza la Russia, e contro di essa, ha condotto a terribili tragedie. E per superarne le conseguenze è stata sempre necessaria la partecipazione decisiva del nostro paese”. Ai suoi occhi, l’estensione della NATO verso est «sempre più vicina alle frontiere russe» è «la fonte di tutti i problemi sistemici che sono sorti nelle relazioni che la Russia mantiene con gli USA e l’Unione Europea».
La strategia russa rappresenta da più di dieci anni un insieme continuo e coerente, che nella pratica si è rivelato, per la Russia, decisamente pagante. Ponendo nuovamente la Russia alla pari con gli USA in Siria e in Iran, il presidente e il suo inamovibile ministro hanno realizzato un vero successo diplomatico, degno dello zar Alessandro e del suo grande ministro Gorchakov.

Per saperne di più
G. Sangiuliano, Putin. Vita di uno zar, Mondadori, 2015
S. Romano, Putin e la ricostruzione della grande Russia, Longanesi, 2016
A. de Benoist, A. Dugin, Eurasia, Vladimir Putin e la grande politica, Controcorrente, 2014
Isabelle Lasserre, « Sergeï Lavrov, le Tayllerand de la diplomatie russe», in Le Figaro, jeudi 17 avril 2014
Frédéric Pons, «Sergueï Lavrov, pilier géopolitique de Poutine », Conflits, no10, juillet-août-septembre 2016