Senti che Storie…

di Af -

La missione del popolo italiano.

Forse non tutti sanno che Mussolini non fu il solo ad auspicare per l’Italia una “missione” ispirata al mito dell’impero romano. Anche Antonio Gramsci fu solleticato dall’idea:  «Il popolo italiano – scriveva nei Quaderni dal carcere – è quel popolo che “nazionalmente” è più interessato a una forma moderna di cosmopolitismo [...] Collaborare a ricostruire il mondo economicamente in modo unitario è nella tradizione del popolo italiano e della storia italiana, non per dominarlo egemonicamente, e appropriarsi il frutto del lavoro altrui, ma per esistere e svilupparsi appunto come popolo italiano: si può dimostrare che Cesare è all’origine di questa tradizione. Il nazionalismo di marca francese è una escrescenza anacronistica nella storia italiana, propria di gente che ha la testa volta all’indietro come i dannati danteschi. La missione del popolo italiano è nella ripresa del cosmopolitismo romano e medievale, ma nella sua forma moderna e avanzata». E la sua forma doveva essere un marxleninismo svecchiato e aggiornato, che Gramsci non fece in tempo a vedere ma a cui si ispirò l’eurocomunismo degli anni Settanta. Com’è noto la missione si esaurì in breve tempo, perdendosi tra i meandri del suo velleitarismo. Del resto Cesare aveva già messo in guardia i suoi stessi epigoni: «Gli uomini credono volentieri in ciò che desiderano sia vero».

Catacombe in Monferrato

In un paesino del Monferrato una signora musulmana decide di convertirsi al cattolicesimo. Viviamo in un periodo di profonda crisi spirituale, o forse di semplice indifferentismo religioso e il parroco vorrebbe festeggiare l’evento accogliendo la nuova arrivata nel migliore dei modi. Del resto qui il ritmo della vita è ancora scandito dalle campane e dalle feste comandate, con il santo patrono che gode tradizionalmente di una reputazione superiore a Gesù bambino. Quale occasione migliore per portare in chiesa vecchi e nuovi fedeli. E si potrebbe pubblicare la notizia sul bollettino parrocchiale o sul giornale locale, che tanto non ci si trova mai niente di interessante. Invece no, nulla da fare. Persone bene informate suggeriscono di evitare clamori mediatici: meglio il basso profilo, meglio una cerimonia sobria e occulta, per non suscitare la rabbia e il risentimento della piccola ma agguerrita comunità islamica… Oswald Spengler direbbe che così è la storia, con i suoi sviluppi ciclici. E la città di Dio, dopo duemila anni, torna a nascondersi, riscoprendo la sua dimensione catacombale.

Storici sintetici

I principali storici italiani hanno replicato pacatamente al premier israeliano Netanyahu, colpevole di aver attribuito non a Hitler ma al Mufti di Gerusalemme Haj Amin al Husseini – massima autorità palestinese tra le due guerre mondiali – la primogenitura nell’idea di sterminare gli Ebrei. Massimo Gramellini (La Stampa) ha scritto di «sfrondone storico», di «cinismo incosciente di chi utilizza la tragedia immane del proprio popolo per aumentare il carico di odio verso il nemico di oggi». Con lui Michele Giorgio (il Manifesto): «È una distorsione consapevole della storia che colpisce i palestinesi, infamandoli a scopo politico, e offende la memoria di milioni di vittime dello sterminio nazista». A seguire Donatella Di Cesare (Corriere) che ha parlato di «uso strumentale della storia a fini politici», di «patetica, importuna e deplorevole boutade del premier», di «disinvolto e bieco cinismo».
Probabilmente causa mancanza di spazio, gli stessi storici hanno omesso di raccontare che nel 1936 il Mufti chiese aiuto a Mussolini per avvelenare l’acquedotto di Tel Aviv e sterminare la locale comunità ebraica. E per non distrarre i lettori hanno deciso anche di non citare le parole di uno studioso italiano bene informato, Stefano Fabei: «Agli occhi degli Arabi Hitler era il campione della lotta all’ebraismo, la Germania un paese amico e un modello da seguire; quando nel 1934 a Norimberga furono promulgate le leggi antiebraiche pervennero al Führer telegrammi di congratulazioni da tutto il mondo arabo e islamico, in maniera particolare dalla Palestina e dal Marocco». L’inevitabile tedio provocato dalle lunghe citazioni ha impedito inoltre di riportare la dichiarazione di uno dei capi siriani del partito Ba‘th, Samil al-Jundi: «Eravamo razzisti, ammiratori del nazismo… Fummo i primi a pensare di tradurre il Mein Kampf. Chiunque fosse vissuto in quegli anni a Damasco si sarebbe reso conto della propensione del popolo arabo per il nazismo».  Per evitare analisi poco comprensibili al grande pubblico, gli stessi storici non hanno ricordato che durante la seconda guerra mondiale il Mufti allestì una divisione musulmana di SS che in Bosnia annientò la comunità ebraica sefardita. E per non sviare i lettori dalle riprovevoli parole di Netanyahu hanno deciso di non citare quelle di Dieter Wisliceny – uno degli artefici della “soluzione finale” – al processo di Norimberga: «[il Mufti] era uno dei migliori amici di Eichmann e lo aveva costantemente istigato ad accelerare le misure di sterminio».
I principali storici italiani hanno questo difetto: a volte sintetizzano troppo.

Storici distratti

Gli stessi storici non hanno avuto nulla da obiettare alle parole del segretario generale dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), Saeb Erekat: «Gli sforzi palestinesi contro il regime nazista sono profondamente radicati nella nostra storia».
I principali storici italiani hanno anche questo difetto: a volte si distraggono.