Senti che Storie…

di Af -

Una rubrica di notizie, spigolature e curiosità per leggere lo “stato” della Storia attraverso i media italiani e internazionali.

Fuori i nomi 1

Per la celebrazione del Giorno della Memoria il Corriere della Sera ha pubblicato una sintesi del discorso tenuto dal filosofo Bernard-Henry Lévy all’assemblea dell’ONU dopo i massacri dei terroristi islamici a Parigi. Tema: la crescente violenza antisemita nel mondo. Nonostante Lévy abbia fatto riferimento all’islamismo radicale e allo jiadismo, nel testo pubblicato sul quotidiano questi termini non compaiono, avendogli preferito passaggi che potremmo definire più “universali”, ma di conseguenza più generici e vaghi. Se lo stralunato marziano inventato da Ennio Flaiano fosse sceso in Italia il 27 gennaio 2015 si sarebbe chiesto chi mai si celasse dietro l’«inumanità radicale» citata nell’articolo, o chi incarnasse quella «calamità» costituita da una «nuova setta di assassini» che per mettere a segno attentati contro gli ebrei si avvale del contributo di «nuovi dannati della terra immolati sull’altare dell’ideologia antisionista». E meno male che il pezzo si intitolava “Smascheriamo l’antisemitismo”…

Fuori i nomi 2

La vaghezza dei concetti, il parlare oscuro o le piccole/grandi censure lessicali sono un costume mentale piuttosto diffuso nel nostro Paese. Che vanta precedenti illustri, anche in ambito istituzionale. Il marziano di Flaiano, a passeggio per le strade di Roma, sostando in via Caetani dove fu abbandonato il corpo senza vita di Aldo Moro, faticherebbe a capire chi furono i responsabili del rapimento e dell’omicidio. Una articolata lapide commemorativa ripercorre la vita, l’insegnamento e la tragica fine dello statista, spiegando che la morte fu voluta «da chi tentava inutilmente di impedire l’attuazione di un programma coraggioso e lungimirante a beneficio dell’intero popolo italiano». Dal che il marziano ne evincerebbe che mandanti ed esecutori sono da ricercarsi tra tutti coloro che all’epoca non condividevano il progetto politico di Moro.

Fuori le lapidi

Le verità si possono tacere, negare o semplicemente raffazzonare. Il marziano ha ancora poco tempo per leggere le due lapidi sulla facciata della sede comunale di San Miniato. Il sindaco ha recentemente annunciato che verranno rimosse il prossimo 25 aprile.
Dopo la guerra l’amministrazione appose la prima, in ricordo delle 55 vittime uccise nel duomo da una bomba scagliata dai soldati tedeschi il 22 aprile 1944. La seconda fu posta nel 2008, dopo aver scoperto che in realtà non di una bomba tedesca si trattava (e quindi non di una rappresaglia) ma di un proiettile di artiglieria americano caduto accidentalmente nella navata. La rettifica, però, è a suo modo un capolavoro di bispensiero orwelliano: a fronte della responsabilità “tecnica” statunitense, spiega il testo della seconda targa, la colpa è sempre tedesca perché fu la Germania a scatenare la guerra. La lapide menzognera sarà tolta, e con lei la grottesca targa riparatrice. Un vero peccato: in un mondo privo di valori e di verità, quelle lapidi ne fornivano due, entrambe perfettamente compatibili.

Libia e ragion economica

Mentre la ex “quarta sponda” è saldamente in mano a predoni e miliziani fanatici, vale la pena ricordare quale fu la politica economica italiana nei confronti della Libia postcoloniale. Nel numero dello scorso maggio-agosto della Nuova Rivista Storica, interamente dedicato a “La fine dell’età dell’oro. L’ENI e le crisi petrolifere  1973-1979”, compare un bel saggio di Massimiliano Cricco sul ruolo giocato dall’ente fondato da Mattei nella Libia negli anni ’60 e ’70. È una storia che racconta il predominio assoluto della “ragion economica” su quella di Stato. Anche nelle circostanze più difficili. Quando nel 1970 Gheddafi decise l’espulsione di 18.000 cittadini italiani, con relativa confisca di beni, il presidente Saragat prese carta e penna e chiese che almeno si ponesse fine alle violenze contro gli italiani. Aldo Moro, ministro degli esteri, si dimostrò altrettanto «conciliante con il regime libico, non volendo compromettere gli importanti interessi petroliferi dell’ENI e delle sue consociate, né i numerosi progetti già avviati dalla maggiori imprese italiane». Dal 1971 l’Italia inaugurò con la Libia una stagione di larghe intese. Anche l’attentato di Fiumicino del 1973 – ma questo l’autore non lo dice –, messo a segno grazie al supporto logistico di Gheddafi, non turbò l’idillio. Anzi, tra il 1974 e il 1975 furono firmati importanti accordi di collaborazione economica, tecnica e scientifica, con corollario di prezzi di favore sul petrolio. E nel 1978 l’Agip poté installare nuove piattaforme nel golfo della Sirte. Insomma, Tripoli bel suol dell’ENI