PAOLO DI TARSO A ROMA

di Pier Luigi Guiducci -


Primo secolo dopo Cristo: due anni in attesa di processo, la custodia militare e poi la sentenza di morte con l’accusa di aver sobillato l’ordine pubblico. Un’indagine sulle tracce dell’apostolo “dei Gentili” nella Roma di duemila anni fa.

 

Negli Atti degli Apostoli[1] sono descritte anche le vicende dell’apostolo “per vocazione”: Paolo di Tarso. Egli dimostra di essere una persona continuamente protesa ad annunciare il Vangelo di Cristo. Nei suoi viaggi missionari riesce ad affrontare difficoltà e pericoli. Dimostra, inoltre, una mentalità aperta a ogni interlocutore. Ciò gli consente di presentare una Chiesa universale e non nazionalista. Nell’ultimo periodo della sua esistenza, a seguito dell’avversione dei giudei più rigoristi al suo insegnamento, Paolo, già sotto stretta sorveglianza a Cesarea Marittima, chiederà al governatore della Giudea Porcio Festo[2] di poter essere giudicato da Cesare.[3] Tale richiesta verrà accolta perché l’apostolo aveva la cittadinanza romana. Dopo un viaggio travagliato, Paolo arriverà nell’Urbe (forse nel marzo del 61 d.C.) affrontando diverse altre prove fino al martirio.

La custodia militare

Nell’ultimo capitolo degli Atti degli Apostoli sono forniti alcuni dati che aiutano a comprendere la situazione. Si riporta qui di seguito il testo: «Arrivati a Roma, fu concesso a Paolo di abitare per conto suo con un soldato di guardia. Dopo tre giorni, egli fece chiamare i notabili dei Giudei e, quando giunsero, disse loro: “Fratelli, senza aver fatto nulla contro il mio popolo o contro le usanze dei padri, sono stato arrestato a Gerusalemme e consegnato nelle mani dei Romani. Questi, dopo avermi interrogato, volevano rimettermi in libertà, non avendo trovato in me alcuna colpa degna di morte. Ma poiché i Giudei si opponevano, sono stato costretto ad appellarmi a Cesare, senza intendere, con questo, muovere accuse contro la mia gente. Ecco perché vi ho chiamati: per vedervi e parlarvi, poiché è a causa della speranza d’Israele che io sono legato da questa catena”. Essi gli risposero: “Noi non abbiamo ricevuto alcuna lettera sul tuo conto dalla Giudea né alcuno dei fratelli è venuto a riferire o a parlar male di te. Ci sembra bene tuttavia ascoltare da te quello che pensi: di questa setta infatti sappiamo che ovunque essa trova opposizione”. E, avendo fissato con lui un giorno, molti vennero da lui, nel suo alloggio. Dal mattino alla sera egli esponeva loro il regno di Dio, dando testimonianza, e cercava di convincerli riguardo a Gesù, partendo dalla legge di Mosè e dai Profeti. Alcuni erano persuasi delle cose che venivano dette, altri invece non credevano. Essendo in disaccordo fra di loro, se ne andavano via (…). Paolo trascorse due anni interi nella casa che aveva preso in affitto e accoglieva tutti quelli che venivano da lui, annunciando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento».[4]
Il primo dato che interessa è che Paolo è sotto custodia militare. In quel tempo esistevano tre tipi di custodia: pubblica (cioè il carcere), militaris (si rimaneva incatenati ad un militare, ma liberi di muoversi o incontrare persone), libera (arresti domiciliari presso un soggetto che si faceva garante). Quindi l’apostolo riceve il permesso di abitare in un ambiente diverso dal carcere o da luoghi posti all’interno di un castrum. Ciò costituisce un fatto significativo. Il nuovo arrivato non è considerato pericoloso sul piano politico e su quello militare. Egli è visto dai Romani come un soggetto che contesta all’interno del mondo ebraico una dottrina religiosa. È una questione che ai governatori del tempo non interessa. Non c’è quindi un pericolo di fuga o una contestazione della pax romana.

Dove abitava Paolo?

San Polo scrive le Lettere, di , XVII secolo.

San Paolo scrive le Lettere, di Nicolas Tournier, XVII secolo.

In base al provvedimento militare Paolo può “abitare per conto suo”. Sceglie quindi un “alloggio”. Più in dettaglio: “stava in una casa che aveva preso in affitto”. Questa situazione ha costituito motivo di ricerca presso gli storici perché il libro degli Atti non fornisce dati che aiutino a individuare l’ubicazione della dimora. Per tale motivo si è ragionato cercando di tener conto di alcune informazioni note. Chi proveniva dalla Palestina romana cercava in genere di risiedere presso ambienti ebraici. Tale fatto aveva una sua logica. Tra ebrei esistevano anche parentele, amicizie comuni e collegamenti che superavano le distanze del tempo. Lo stesso Paolo, in più occasioni, insiste sul fatto di essere un ebreo e ricorda la propria formazione religiosa.[5] Quindi, la tesi di una presenza dell’apostolo presso alcuni ebrei è una ipotesi non debole.
In quel periodo (I secolo d.C.) la popolazione ebraica presente a Roma (30mila persone?) era variamente dislocata, e svolgeva più attività lavorative. La sua distribuzione rimaneva legata allo status personale: gli schiavi seguivano i loro padroni, ma chi era libero poteva diventare responsabile di gruppi di lavoratori. Seguendo tale dinamica è possibile individuare una tendenza ebraica a concentrarsi nell’area di Trastevere e anche nella zona attigua al Foro Boario (mercato delle carni). Ciò ha una motivazione. Gli ebrei operavano anche nell’area del commercio. In tal modo erano riusciti a realizzare una rete di contatti nel mondo mediterraneo. Presenti in più contesti, erano diventati interlocutori di autorità locali, e garantivano canali di comunicazione a più livelli.
Nell’attuale periodo, la stessa ricerca archeologica sembra orientata a confermare una presenza ebraica in quella che era la Regio XIV Transtiberim. Ciò si basa sul ritrovamento di siti funerari ebraici (che presuppongono un’antecedente proprietà ebraica del terreno), e su altri reperti (conceria a servizio dell’esercito) attigui a una necropoli ebraica (di epoca più tarda). Esiste inoltre un altro dato. Una delle principali vie di comunicazione del tempo fu il Tevere. Questo spiega sia la presenza di approdi fluviali (che anticipano la costruzione di porti dalle vaste dimensioni[6]), sia la vicinanza dei mercati dell’Urbe a questo fiume[7], sia la costruzione di magazzini (nei pressi dei quali erano posizionate modeste abitazioni). Abitare quindi nei pressi del Tiber significava acquisire e distribuire ricchezza espressa dai prodotti commerciali attraverso articolati passaggi tra operatori.
Unitamente a ciò, la Lettera di san Paolo ai Romani fornisce un dato non debole. Nei saluti finali egli fa riferimento a dei parenti presenti nell’Urbe (Andronico e Giunia; Erodione). Questo ha fatto pensare, per logica, a una scelta abitativa dell’apostolo influenzata probabilmente da quest’ultimi e forse da coloro che l’avevano accolto al suo arrivo lungo la via Appia (At 28,15). Ma dove stava san Paolo?

San Paolo alla Regola

Riguardo al luogo ove risiedette san Paolo nell’Urbe esiste una traditio di antica origine che indica il vicus Coriariorum o Coriarius (via dei Cuoiai), nel quartiere dell’Arenula[8] (termine usato in seguito in modo corrotto in: “Regola”). Qui, erano posizionate anche le botteghe di coloro che erano esperti nella conciatura delle pelli.[9]
Ora, è noto da At 18,3 che l’apostolo sapeva lavorare le pelli.[10] Esiste poi un’altra considerazione: chi era sotto custodia non poteva allontanarsi eccessivamente dal tribunale romano (insediato in una basilica). Inoltre, doveva essere anche abbastanza vicino alla sede giudaica ove si trattavano le controversie religiose.[11] Il vicus Coriariorum costituiva in effetti un punto strategico. Da questo punto non era difficile mantenere contatti con la comunità ebraica e con le basiliche del Foro. La vicinanza del Tevere, inoltre, consentiva di acquisire spontanee informazioni dai lavoratori del commercio. Sul piano storico, dopo il riconoscimento del Cristianesimo come religio licita, la Chiesa di Roma non volle perdere la memoria della “casa” di Paolo e fece edificare un oratorio. In seguito, fu costruita una chiesa detta “San Paolino[12] alla Regola”. Seguì un nuovo e più grande luogo di culto. Con i diversi interventi edilizi che modificarono la zona ove si trovava il vicus, il livello del piano stradale si elevò anche per consentire una migliore protezione dalle acque del Tevere che, nel periodo delle piogge, si alzava di livello allagando le vicine costruzioni.
Dal 1978 al 1982 il Comune di Roma con altri Enti volle curare il restauro di un gruppo di case di sua proprietà posizionate su via di San Paolo alla Regola. L’opera intrapresa rivelò come i fabbricati poggiavano sopra strutture di età romana. Gli archeologi studiarono i diversi livelli (due posti nel sottosuolo). Scendendo in profondità, fu possibile arrivare fino al secondo livello del sottosuolo (situato a otto metri di profondità) che risale alla fine del I secolo d.C. Gli ambienti studiati sono disposti a rastrelliera su strade di servizio poste parallelamente al Tevere e lievemente digradanti a formare ripiani in direzione di quello. Il fatto descritto ha una sua rilevanza perché ha confermato la presenza di magazzini (horrea) nella zona. Evidentemente sarebbe interessante estendere l’indagine ma il moderno assetto edilizio non lo consente.[13]

La questione dell’affitto

Un altro aspetto che ha attirato l’attenzione degli storici riguarda l’onere economico che san Paolo dovette affrontare per abitare probabilmente nell’area. Qualcuno si è chiesto: come è riuscito a pagare un affitto nell’arco temporale di due anni? Come poteva affrontare anche altre spese (es. il vitto)? Pure in questo caso le ipotesi sono diverse. Qualcuno ha pensato a un aiuto della sorella che viveva in Palestina.[14] Altri hanno preferito ricordare che Paolo conosceva alcuni ebrei che vivevano a Roma. Forse questi lo aiutarono con una colletta.[15] Esiste, però, anche una considerazione non debole. Nella seconda Lettera a Timoteo Paolo informa di essere rimasto solo e scrive: «Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato».[16] Questa frase indica una situazione critica. Chi conosceva l’apostolo aveva preso le distanze da lui. Perché? Probabilmente perché l’accusa contro il prigioniero era divenuta più stringente con l’arrivo da Gerusalemme di testimoni a sostegno dell’accusa (con influsso deleterio sul tribunale e sulla comunità ebraica); e perché chi conosceva Paolo poteva aver subìto dei duri condizionamenti dalle autorità giudaiche. La tesi quindi, che pare la più ovvia, è quella secondo cui Paolo dovette accudire a sé stesso lavorando. Tale ipotesi è sostenuta dalla reale possibilità di tessere delle tele presso il Tevere o nelle immediate vicinanze.

«… fece chiamare i notabili dei Giudei»

Nel contesto delineato colpisce il fatto che, dopo tre giorni dal suo arrivo a Roma, Paolo fece chiamare i maggiori rappresentanti della comunità ebraica (At 28,17). Il fatto che “fece chiamare” fa capire allo storico che l’apostolo (condizionato da una custodia militare) aveva con sé delle persone in grado di raggiungere le sedi ove si riunivano gli ebrei del tempo. Rimane significativo anche un altro dato: i notabili ebrei accolsero l’invito e raggiunsero l’abitazione di Paolo. L’episodio, nei termini con cui è descritto, pare significare almeno alcune evidenze: è confermato un collegamento tra Paolo e gli ebrei romani; gli ebrei che raggiunsero Paolo non sembrano mostrare ostilità; l’influsso negativo che sarebbe arrivato dagli ebrei che sostenevano l’accusa al processo non è ancora iniziato; la riunione non è di breve durata (esisteva quindi un interesse da parte degli ebrei di Roma ad ascoltare l’apostolo).

«… nella mia prima difesa»

Nella seconda Lettera a Timoteo, Paolo offre un’indicazione non marginale: egli fa riferimento a una prima difesa in tribunale. In tale occasione, specifica l’A., nessuno lo ha assistito. Tutti lo hanno abbandonato. Solo Luca gli è rimasto accanto. Inoltre, l’apostolo indica anche degli interlocutori che lo hanno contrastato in modo sensibile.[17] Su questo dato informativo alcuni autori hanno dedotto che Paolo ha superato positivamente un primo processo (con successiva liberazione). A supporto di ciò indicano il passo paolino ove si trova questa affermazione: «(…) fui liberato dalla bocca del leone».[18] A ben vedere, però, esistono due considerazioni che qui di seguito si espongono.
1) Sottrarsi alla bocca del leone, a livello biblico, significa riuscire a evitare un pericolo imminente particolarmente grave (ad esempio Amos 3,12). Nel caso di un processo romano si può intendere: o come essere sfuggito a una sentenza di morte (con immediata esecuzione), o come aver evitato la pena capitale grazie a un verdetto interlocutorio (ad esempio, una sospensiva).
2) Nel caso di san Paolo è noto che l’accusa non proveniva da giudei romani, ma da ebrei di Palestina. Erano loro ad aver attaccato (presentando un argomento non vero) l’apostolo per come si era comportato nel Tempio di Gerusalemme[19], e per aver diffuso una dottrina eterodossa creando incertezze, dibattiti e scissioni all’interno dell’ebraismo.[20] Le stesse autorità romane avevano seguito la questione lasciando comunque trascorrere il tempo.[21] Anche a Roma era avvenuto lo stesso. Il magistrato aveva certamente davanti a sé un rapporto del governatore romano di Giudea, ma per arrivare a una sentenza non bastavano le pressioni degli ebrei romani. Era necessario convocare i testi che risiedevano in Palestina.
Nasce da qui una tesi: con riferimento a san Paolo non furono probabilmente attivati due distinti processi ma si arrivò a una prima udienza (con ascolto dell’accusato e di taluni ebrei) a cui seguì, dopo un periodo non breve, un secondo e definitivo dibattimento. In quest’ultima occasione lo squilibrio fu evidente: dalla parte dell’accusa esistevano più testi, mentre nessuno (probabilmente) sosteneva la difesa (l’apostolo, quasi sicuramente, si dovette difendere da solo).[22]

Le motivazioni della sentenza

Paolo fu probabilmente condannato sulla base dell’accusa di essere un sobillatore dell’ordine pubblico.[23] Decisive in merito furono le false testimonianze. Si è posta qui una questione: la sentenza tenne conto solo delle accuse provenienti da Gerusalemme, o si tenne conto anche delle persecuzioni anticristiane legate all’incendio del 64 d.C.? Per alcuni autori la sentenza emessa contro Paolo seguì un processo autonomo rispetto ai fatti del 64. Per altri studiosi l’ordine di Nerone di sottoporre a pena capitale i cristiani potrebbe aver fatto interrompere il secondo procedimento contro Paolo così da far eseguire una rapida condanna. Certo, sarebbe importante poter leggere gli atti processuali ma questo non è possibile. Esiste comunque un dato: nella seconda Lettera a Timoteo l’apostolo è consapevole della sua imminente fine.[24] Inoltre, c’è anche da considerare il fatto che la stesura degli Atti degli Apostoli si interrompe all’improvviso.[25] In molti si sono chiesti il motivo di una chiusura così brusca. Le ipotesi sono state diverse.[26] Probabilmente la tesi più semplice è quella da preferire. La seconda fase processuale contro Paolo, già prossima a un esito sfavorevole, fu accelerata anche dalle persecuzioni neroniane successive all’incendio del 64. Solo l’esecuzione della condanna fu diversa rispetto a quella di altri cristiani. Essendo cittadino romano Paolo subì la decapitazione. Il suo corpo trovò sepoltura in una necropoli vicina al luogo del martirio.

Il disaccordo tra gli ebrei

Nel contesto fin qui delineato rileva evidenziare pure un fatto: i membri della comunità ebraica di Roma si mostrarono (almeno in una fase iniziale) interessati ad ascoltare il messaggio di Paolo. Poi, si divisero sulle valutazioni, e quindi sull’atteggiamento da assumere in presenza di affermazioni certamente “rivoluzionarie” (nel senso che modificavano una dottrina secolare). Al riguardo si possono sottolineare alcune evidenze.
L’attenzione verso Paolo non deve essere intesa come semplice curiosità legata a un “fatto nuovo”. Nella prassi ebraica veniva consentito a ogni membro maggiorenne di una comunità di commentare la Sacra Scrittura. Poteva anche esporre considerazioni in merito ad aspetti del patrimonio dottrinale. Nel caso di Paolo tale prassi subì un unico cambiamento: mutò il luogo dell’ascolto. Non fu una sinagoga ma un ambiente abitativo perché l’apostolo era sotto custodia militare.
Certamente le parole di Paolo ebbero l’effetto di produrre un disorientamento. Ciò era già avvenuto in Palestina.[27] Però, dopo questo iniziale momento interlocutorio, la situazione volse al peggio per l’apostolo perché gli ebrei più ortodossi di Roma si unirono ai correligionari di Palestina arrivati nell’Urbe per sostenere l’accusa. In tal modo a tutta la comunità ebraica fu quasi sicuramente dato l’ordine di non avvicinare più un “nemico” degli ebrei.[28] Si voleva quindi realizzare un “isolamento” del “reo”, in vista della sua eliminazione.

«Accoglieva… insegnando»

Il martirio di San Poalo

Il martirio di San Paolo

Gli attuali studi storici, mentre tengono conto di più contributi (anche archeologici), evidenziano pure il fatto che Paolo, malgrado un contesto critico, mantenne sempre un impegno apostolico tenace. Il suo essere “testimone”, si sviluppò contemporaneamente su più versanti: una linea di dialogo, una posizione di approfondimento teologico, un’attenzione alle esigenze quotidiane con un lavoro capace di fornire qualche mezzo di sussistenza.
Già il fatto di ricevere esponenti del mondo ebraico dell’Urbe nell’ambiente ove risiedeva attesta in Paolo il vivo desiderio di interagire con gli abitanti di una data città (in questo caso la capitale dell’impero romano). Sono proprio gli Atti degli Apostoli, nella parte finale, a fornire tale indicazione. D’altra parte, è significativo il fatto che nella seconda Lettera a Timoteo, l’apostolo scrive: “Il Signore conceda misericordia alla famiglia di Onesìforo[29], perché egli mi ha più volte confortato e non si è vergognato delle mie catene; anzi, venuto a Roma, mi ha cercato con premura, finché non mi ha trovato”.[30]
L’approfondimento religioso per Paolo è essenzialmente una strada di contemplazione e di ricerca. Egli cerca di meditare sul mistero di Dio presente nella storia umana e sugli effetti, sulle conseguenze di tale presenza salvifica. In tale contesto, l’apostolo non perde mai di vista gli elementi essenziali della catechesi cristiana: è Dio che salva (non esiste auto-salvezza); nell’evento pasquale della morte e risurrezione di Gesù Cristo si realizza il processo salvifico; i credenti che accolgono il Vangelo sono impegnati a vivere una vocazione santa.[31]
L’attenzione alle esigenze quotidiane costituisce certamente per Paolo un problema. Egli non può contare sull’aiuto continuativo di determinate persone (specie quando la sua condizione penale si aggraverà). Per questo motivo è costretto a lavorare seguendo gli orari del tempo. Quest’ultimi, in genere, non avevano tabelle prefissate ma prevedevano un lavoro che dalla mattina si prolungava fino alle ore serali. Questo è il motivo che induce a pensare che Paolo dovette utilizzare le ore notturne per dedicarsi all’apostolato.

La Chiesa di Roma davanti al martirio di Paolo

La morte di Paolo costituì certamente un lutto grave per la Chiesa di Roma. Quest’ultima, solo dopo la fine di Nerone (68 d.C.) poté riorganizzarsi, e affrontare un periodo non persecutorio. Tale fatto positivo consentì di far memoria pubblica dei martiri specie con pellegrinaggi sulle tombe dei santi Pietro e Paolo (gli altri martiri romani erano in fosse comuni). Il luogo del martirio divenne presto particolarmente importante perché costituiva l’ambiente ove gli apostoli avevano testimoniato Cristo fino allo spargimento del proprio sangue. Era quindi un sito che invitava alla fedeltà alla Parola del Signore e a quella della Chiesa da Lui fondata. Inoltre, il giorno della morte del martire era considerato il suo dies natalis, nel senso che in quella data egli nasceva alla vita eterna e godeva della Presenza di Dio. Si può anche aggiungere il fatto che il culto ai santi includeva pure delle preghiere di intercessione perché il beato può rivolgersi direttamente all’Eterno Padre e invocare misericordia per chi è ancora in esodo verso la patria celeste.
Quanto annotato fa comprendere perché mentre venne rivolta una notevole attenzione al luogo del martirio di Paolo e a quello della sua sepoltura, ci fu una minore premura verso l’ambiente romano ove egli dovette trascorrere un non breve periodo. Si arrivò comunque a edificare in tempi successivi una “memoria”. Tale oratorio servì a trasmettere un insegnamento: in ogni luogo si può testimoniare Cristo.

 

Note
[1] Testo scritto in greco (probabilmente dall’evangelista Luca). Gli Atti sono inseriti nel Nuovo Testamento. La loro datazione potrebbe essere 60-70 d.C.. Altri autori propendono per l’80-90 d.C.
[2] L’imperatore Nerone (al potere dal 54 d.C. al 68) lo nominò governatore della Giudea in sostituzione di Marco Antonio Felice (accusato di corruzione).
[3] At 25, 1-12.
[4] At 28, 16-31.
[5] “Io sono un fariseo, figlio di farisei” (At 23,6). Cf anche: “(…) la mia gente” (At 28,19).
[6] Ad esempio: i Navalia (porto militare di Roma che era posizionato oltre l’attuale palazzo Farnese); portus Tiberinus (si trovava all’altezza dell’attuale palazzo dell’Anagrafe e la basilica di Santa Maria in Cosmedin); Emporium (sotto il colle Aventino); Marmorata (dai marmi depositati).
[7] Ad esempio: Forum Piscarium, Forum Boarium.
[8] Il toponimo “Arenula” ricorda la rena, la sabbia fluviale depositata dal Tevere durante le sue piene.
[9] La concia: trattamento delle pelli finalizzato alla loro conservazione e lavorazione. Una conceria è stata individuata anche nell’area di Trastevere.
[10] Paolo si manteneva nelle varie città in cui andava facendo il fabbricante di tende. Lavorava la tela con cui si fabbricavano vele e sacchi. Un tessuto che sapeva trattare bene era il cilicium (tessuto di peli di capra o di cammello; At 21,39).
[11] Le accuse a Paolo provenivano dai Giudei. In Palestina quest’ultimi avevano come avvocato un certo Tertullo (At 24,1).
[12] Il termine stava a significare che l’edificio di culto aveva delle dimensioni ridotte.
[13] Malgrado ciò chi scrive ha potuto visitare i resti archeologici che si trovano sotto una trattoria e nei sotterranei di un Istituto religioso.
[14] At 23,16.
[15] Gli ebrei erano abituati a fare delle collette a favore dei correligionari in difficoltà. Cf ad es: At 11,27-30.
[16] 2 Tm 4,16.
[17] 2 Tm 4,14.
[18] Ivi, 4,17.
[19] At 21, 27ss.
[20] At 23,1-11.
[21] At 24, 22-27.
[22] L’accusato poteva difendersi da solo.
[23] Cf anche: At 21, 27-36.
[24] “Ho terminato la corsa” (2 Tm 4,7).
[25] At 28, 30-31.
[26] Es.: era stato ormai dimostrato che il Vangelo era arrivato nella capitale dell’impero.
[27] At 23, 6-11.
[28] Con rif. alla posizione ebraica che considerava Paolo un nemico da eliminare cf anche: At 23, 12-15.
[29] Il nome significa: “colui che arreca profitto”.
[30] 2 Tm 1, 16-17.

[31] 1 Cor 6,11; 1 Ts 4,3,