OFFENSIVA A OLTRANZA: IL PROBLEMA TATTICO DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE
di Emilio Bonaiti -
Ovvero il superamento di un sistema fortificato e lo sfruttamento della successiva rottura. Sulla necessità di trasformare la guerra di posizione in guerra di movimento si arrovellarono generali che per anni avevano meditato sulle campagne napoleoniche, ragionando in termini di velocità e movimento, convinti fautori della cavalleria tenuta allertata nelle retrovie per essere lanciata nei varchi aperti da auspicati sfondamenti. Che non avvennero mai.
Come un grigio muro intorno all’Europa
La lunga battaglia infuriava.
La battaglia incessante, la battaglia insabbiata,
la battaglia di ammorbidimento
la battaglia che non era mai la battaglia finale
Yvan Goll, “Requiem per i morti d’Europa”
Dottrina d’impiego, ordinamenti, regolamentazioni tattiche e capacità operative degli anni Venti del XX secolo vanno raccordati al problema tattico maturato durante la Grande Guerra, problema sempre al centro delle esercitazioni dei quadri, delle grandi manovre, della letteratura militare dell’epoca.
La Grande Guerra
Gli stati maggiori europei, negli scenari internazionali che andavano profilandosi nei lunghi anni di pace che precedettero il primo conflitto mondiale, gigantesco scontro tra opposti imperialismi, non ricercarono nuovi procedimenti tattici ignorando i risultati operativi e dottrinali maturati dalla guerra russo-giapponese del 1904-1905, prima guerra moderna e dalla guerra civile americana (1861-1865). Entrambi i conflitti avevano dimostrato la prevalenza netta della difensiva, potenziata da nuove armi, sull’offensiva. Senza afferrare l’evoluzione tecnologica e l’incidenza dei nuovi armamenti, si preparavano alla guerra prossima con la metodologia della dottrina napoleonica che risaliva agli anni del primo ottocento. Da un’analisi comparativa si evidenzia che tutte le dottrine erano offensivistiche ad oltranza, che tutti i piani prevedevano fulminanti avanzate in territorio nemico.
Alla vigilia era comune convincimento dei vertici politici e militari che il conflitto si sarebbe risolto in pochi mesi, dopo poche, decisive battaglie campali, con la sfilata dell’esercito vittorioso nella capitale nemica. Dopo quattro mesi due linee ininterrotte di trincee affannosamente e malamente scavate dalla Svizzera al Mare del Nord dividevano gli opposti schieramenti «con una distribuzione delle forze che può denominarsi una strategia lineare» come sostiene il generale tedesco von Bernhardi che ammette: «Nessuno aveva pensato ad una vera guerra frontale di trincea». In quelle trincee si sarebbe consumato il dramma di una intera generazione. Tutti i piani degli opposti stati maggiori erano, come scrisse, J.F.C. Fuller, «strategicamente in bancarotta».
La Germania
Dopo la grande vittoria del 1870 contro la Francia di Napoleone III la potenza economica, industriale e militare della Germania, con i suoi 65 milioni di abitanti cui si contrapponevano i 39 della Francia e i 45 dell’Inghilterra, era continuata ad aumentare. I teorici militari sostenevano una dottrina strategica aggressiva e condotta su tutto il fronte. «Nell’offensiva il principio determinante è quello dello sterminio» sosteneva von Blume nel 1882 (1). «Fare la guerra significa attaccare […] L’attuale metodo tedesco consiste nell’assoggettare il nemico a colpi ripetuti, la battaglia decisiva è per noi strettamente legata a una offensiva brutale» aggiungeva van der Goltz nel 1883 (2). Governatore dell’occupata Bruxelles passerà alla storia per proclami che anticiperanno quelli hitleriani: «La dura necessità della guerra impone che le punizioni per gli atti ostili non ricadano soltanto sui colpevoli, ma anche sugli innocenti.[…] In futuro, le popolazioni dei villaggi in prossimità delle località in cui siano state sabotate linee ferroviarie e telegrafiche verranno punite senza pietà (che siano o non siano colpevoli degli atti suddetti). A questo scopo, in tutti i centri abitati nei pressi delle linee esposte alla minaccia di tali attacchi sono stati presi ostaggi. Al primo tentativo di danneggiare le linee ferroviarie, telegrafiche o telefoniche gli ostaggi verranno fucilati all’istante» (3).
Alla base della potenza tedesca vi era uno stato maggiore di superiore valore del quale scriveva l’inglese Wheeler-Bennett: «Erano uomini d’alta capacità individuale e di sorprendente omogeneità di vedute. […] Conservavano la più completa libertà di espressione all’interno della casta su tutte le questioni attinenti al servizio» (4). Graeme C. Winne, ufficiale del King’s Own Yorkshire Light Infantry, autore di un pregevole studio sulla tattica difensiva dell’esercito tedesco, pubblicato dell’autorevole Army Quaterly dal 1936 al 1939 e poi raccolto in un libro, If german attacks – The battle in depth in the west, tradotto in italiano nel 1940 col titolo La lezione tattica della guerra mondiale, non ne dà un giudizio diverso: «Il tedesco, quando è soldato di professione, ha sempre presa la guerra con una serietà con cui solo lo sport è trattato dagli inglesi, e solo lo sport e gli affari dagli americani». Dello spirito che aleggiava nello stato maggiore ne ha lasciato un ricordo il generale von Kuhl, in guerra capo di stato maggiore del generale von Kluck: «La vigilia di Natale a sera si suonava alla mia porta. Era un messo speciale che portava il regalo natalizio del Capo di Stato Maggiore [von Schlieffen]: un grande tema di guerra immaginato da lui, per cui dovevo presentare un progetto di operazioni. Egli sarebbe stato stupito se la sera seguente, quella di Natale, non avesse ricevuto il mio lavoro. Il lunedì di Natale egli componeva ed io ricevevo il tema per la continuazione dello studio. Egli riteneva che le feste e le domeniche fossero giorni specialmente indicati per i compiti importanti i quali esigono un lavoro intenso e tranquillo, non turbato dagli affari ordinari».
L’esercito di un Paese orgoglioso della sua forza e della sua missione, profondamente permeato di patriottismo e di disciplina, nel quale la surrogazione ossia la sostituzione del cittadino soggetto al servizio militare con un altro dietro pagamento di un somma di denaro non era mai esistita a differenza della Francia, dell’Italia, della Russia e dell’Austria aveva adottato una piattaforma strategica connaturata al contesto culturale dal quale scaturiva, fondata sul piano concepito da Alfredo von Schlieffen, capo dello stato maggiore, che potenziò portandolo da 50 a 160 ufficiali, dal 1891 al 1906. Partendo dallo scenario bellico più probabile, una guerra su due fronti, progettò di sguarnire quasi completamente quello orientale, affidato a un velo di sole dieci divisioni, fidando sulla lentezza della mobilitazione della macchina bellica russa e di attaccare a fondo su quello occidentale con una audacissima manovra aggirante. L’ala destra composta dal grosso dell’esercito, 53 divisioni, doveva aggirare l’esercito francese con una vasta manovra a nord della linea Mosa-Sambre violando la neutralità del Belgio, proseguire verso sud a occidente della Senna piombando alle spalle dello schieramento alleato mentre le restanti forze, otto divisioni, dovevano contenere gli attacchi francesi.
Del generale berlinese si racconta che nel corso di una esercitazione tattica nella vallata del Pregel nella Prussia Orientale all’alba di una splendida giornata, mentre studiava le carte in un folto bosco sulla riva di un ruscello su cui i raggi del sole disegnavano chiaroscuri, rispose a un giovanissimo ufficiale che glielo indicava: «Strategicamente è un ostacolo facilmente superabile».
Fu così che, come scriveva nel 1931 il tenente colonnello Foerster nel suo Graf Schlieffen under: «Il disegno di una gigantesca Canne sul fronte francese veniva delineandosi»; era una manovra per la quale ancora in punto di morte, avvenuta 18 mesi prima dell’inizio del conflitto, Schlieffen raccomandava di rinforzare l’ala destra. Il suo successore Helmuth Johannes von Moltke il Giovane, nipote del vincitore della guerra del 1870, ma di tempra ben diversa, annacquò, come riconobbe Hindenburg nelle sue memorie, il piano troppo audace per le sue capacità e diminuì le forze destinate all’azione avvolgente, indicate da Schlieffen nel rapporto di forze da 7 a 1 portandolo a 3 a 1, nel timore di uno sfondamento francese al centro o di una invasione russa nella Prussia Orientale. Era, però un uomo che sapeva vedere lontano. Profetiche furono le parole che profferì nel 1905 sulla guerra futura: «[Sarà] una guerra tra popoli che non si concluderà con una battaglia decisiva ma sarà una lunga, faticosa lotta contro un Paese che non si riconoscerà sconfitto fino a che non saranno spezzate tutte le forze della sua gente; una guerra che, anche se ne usciremo vincitori porterà il nostro stesso popolo ai limiti dello sfinimento». Il De profundis della Germania imperiale veniva preannunciato tredici anni prima del 1918, l’anno in cui il conflitto finiva con la resa della Germania. Il piano di von Schlieffen fu dottamente criticato a posteriori da Badoglio: «Ritenendo che il concetto delle operazioni doveva essere concretizzato solo dopo aver preso contatto col nemico e avere riconosciuto sommariamente la dislocazione delle sue forze».
La Francia
La Francia andava alla guerra in un clima di mistico entusiasmo, nell’unione di tutte le forze sociali, nello spirito dell’Union Sacrée, per la liberazione dell’Alsazia e della Lorena. La dottrina operativa opponeva alla metodicità tedesca l’ardimento latino. Gli scontri tra i fautori delle diverse teorie furono accaniti, ma nella dottrina successivamente codificata nel Regolamento sulla Condotta delle Grandi Unità del 28 ottobre 1913 il principio acclarato fu quello della offensiva ad oltranza. I giovani ufficiali usciti il 31 luglio 1914 dall’accademia di Saint-Cyr giurarono che per il battesimo del fuoco si sarebbero messi in alta tenuta, pennacchio e guanti bianchi.
Nello stesso periodo la gioventù tedesca andava alla guerra, andava alla morte cantando: «Rallegriamoci, amici, che siamo vivi, e che siamo giovani e agili! Mai c’è stato un anno come questo, e mai un simile dono per la gioventù». Un anno dopo nessuno più cantava.
Il generale Foch declamava nel 1914: «Mon centre céde, ma droite recule, situation excellente. J’attaque!», 216.000 francesi che “attaccarono” caddero nei primi due mesi di guerra. Lo spirito offensivo venne portato all’esasperazione in un estremismo concettuale che si manifestò nel successivo Regolamento di Esercizi e Manovre per la Fanteria del 20 aprile 1914: «Per chi li segue tutti gli attacchi sono spinti a fondo, con la ferma risoluzione di colpire il nemico all’arma bianca per distruggerlo. Oggi non vi è che un solo sistema di attaccare: quello».
Corifeo dell’offensiva ad oltranza fu il colonnello Grandmaison il quale sosteneva che: «Nell’offensiva l’imprudenza è la migliore delle sicurezze […] andiamo sino all’eccesso; forse non sarà mai abbastanza». Il generale Joffre comandante in capo dell’esercito francese confessò: «Sulla carta non era mai esistito alcun piano di operazione […] non adottai una linea di azione già predisposta se si esclude l’assoluta determinazione di assumere l’offensiva con tutte le mie forze».
La mitragliatrice
Queste due filosofie operative ebbero in comune la mancata previsione della straordinaria incidenza che l’arma emergente, la mitragliatrice, avrebbe avuto nel corso delle guerra. La fanteria, che lanciata all’attacco doveva superare gli ultimi duecento metri senza il sostegno del fuoco da tergo, non riusciva nemmeno a raggiungere il ciglio della trincea protetta dal filo spinato e difesa dalla mitragliatrice. L’arma automatica, che Mussolini definì «motocicletta della morte» (5) dimostrò sin dall’inizio del conflitto la sua micidiale, imprevista, sconvolgente efficacia interdicendo alla fanteria ogni possibilità di movimento, sparando 400 colpi al minuto contro fanti che arrancavano su terreni devastati dal fuoco dell’artiglieria ad una velocità, secondo la francese Instruction sur l’Action Offensive des Grandes Uniteès dans la Bataille del 31 ottobre 1917, di cento metri in uno o due minuti.
I grandi eserciti europei avevano una dotazione di 24 mitragliatrici per divisione all’inizio della guerra, quelle italiane la metà. Nel 1917 i reggimenti dell’esercito germanico ne allineavano 36 di nuovo tipo facilmente trasportabili a braccia. Già nel conflitto che aveva opposto la Russia zarista al Giappone nel 1904 le mitragliatrici avevano dominato il campo di battaglia ma la lezione non fu recepita negli alti comandi europei. Anche in Italia, che pure tra gli osservatori inviati in Estremo Oriente annoverava un ufficiale di valore come il futuro maresciallo Enrico Caviglia, la regolamentazione tattica vigente alla vigilia del conflitto stabiliva un ruolo ausiliario per l’arma. Nel 1911 parole come quelle pronunciate dal generale Luchino Del Mayno: «Ordigno di guerra [che] ha l’efficacia di fuoco di duecento uomini di cui non fremi il cuore, non si annebbi la vista: è un automa terribile che sta là dove dieci uomini non stanno e semina la morte» (6) non sollevarono nessuna eco.
«La decisione favorevole di un attacco può essere il premio riservato, non al persistere del fuoco, ma all’impiego della baionetta, maneggiata da gente risoluta e persuasa che retrocedere significa esporsi a sicuro sterminio e che la salvezza dipende dal coraggio» si legge nelle Norme per l’Impiego delle Grandi Unità di Guerra del 1913, con il sempiterno richiamo ai soliti, italici “valori spirituali”. Ma il soldato non arrivava all’«impiego della baionetta» e non aveva la possibilità di «retrocedere» perché veniva inchiodato ai reticolati.
Si venne così a creare una situazione di stallo, per la prima volta da secoli la difesa aveva la meglio sull’attacco; osservava con felice espressione Liddell Hart: «Nell’autunno 1914 una raffica di mitragliatrice convertì la linea di attacco della fanteria in una trincea» (7). Nel dopoguerra la memoria, il ricordo che l’arma aveva lasciata nella psiche dei combattenti doveva essere lacerante se il colonnello Umberto Somma, comandante della Scuola centrale di fanteria scriveva nel 1920: «Macchina incavalcata su un treppiede, che spara e spara continuamente le cartucce che il servente a piene mani le prodiga e getta lo sgomento, la paura nei combattenti col suo caratteristico suono meccanico, qual riso beffardo».
L’Italia
Lo stato maggiore italiano diede, non diversamente da quelli alleati, una ulteriore prova della incapacità degli organi militari di trovare nuovi procedimenti tattici per fare fronte a situazioni diverse da quelle ipotizzate. Il Paese entrò in guerra dieci mesi dopo l’apertura delle ostilità, ma non si velocizzò il processo decisionale che doveva scaturire dalla nuova situazione tattica creatasi, non si afferrò il significato delle esperienze maturate sul fronte occidentale. Eppure il tenente colonnello Giovanni Giuseppe Breganze, capo della missione militare italiana a Parigi dal luglio 1915 all’agosto 1917, dopo aver ispezionato più volte le linee francesi, in dettagliate relazioni aveva espresso lucide considerazioni sulla guerra di trincea, sul binomio mitragliatrice-reticolato e manifestato i suoi convincimenti: «Io vorrei rimandare l’intervento al più tardi possibile […] Io ritengo che questa guerra sarà lunghissima».
La dottrina del 1913 non fu modificata, i suoi concetti furono ribaditi in una pubblicazione del generale Cadorna del novembre 1915, Attacco frontale e addestramento tattico (8), conosciuta come il “libretto rosso” dal colore della sua copertina, nella quale si afferma: «L’offensiva dunque presenta oggi più favorevoli condizioni di buona riuscita che in passato». La pubblicazione dalla quale si evinceva che il generale non aveva afferrato le trasformazioni che la guerra aveva comportato fu, secondo l’Enciclopedia Militare: «entusiasticamente accolto dagli ufficiali, in modo speciale dall’elemento più giovane».
La situazione che si delineò fu illustrata in modo illuminante da Charles de Gaulle nelle sue memorie: «Il primo urto rappresentò una sorpresa immensa […] Tatticamente, la rivelazione della potenza del fuoco rende inutilizzabile le dottrine in auge. Moralmente le illusioni di cui si era imbottiti vengono spezzate in un colpo d’occhio […] tutto l’eroismo del mondo non è in grado di farsi valere contro la potenza del fuoco». Il futuro maresciallo Pétain aggiunse: «Or ne lutte pas avec des hommes contre du material».
Il problema tattico
Nasceva così il problema tattico che avrebbe caratterizzato la Grande Guerra: il superamento di un sistema fortificato e lo sfruttamento della successiva rottura. Su di esso, sulla necessità di trasformare la statica guerra di posizione in guerra di movimento, sullo sfondamento dei sistemi difensivi per il ritorno alla guerra di movimento si arrovellarono generali che per anni avevano studiato e meditato sulle grandi campagne napoleoniche, ragionando in termini di velocità e movimento, manovre aggiranti e ancoramento, convinti fautori della cavalleria tenuta allertata per tutta la guerra nelle retrovie per essere lanciata nei varchi aperti da ipotizzati, sognati, auspicati grandi sfondamenti che non si effettuarono mai.
Tentarono di risolvere il problema con i metodi ortodossi dai quali erano condizionati. Infittirono le ondate di assalto, aumentarono il numero dei reparti, reiterarono gli attacchi nel tempo e li allargarono nello spazio, intensificarono la durata dei bombardamenti preliminari saturando gli obiettivi sotto un diluvio di proiettili, allinearono un maggior numero di cannoni, misero in linea pezzi di nuova concezione, le bombarde, con le quali aprire varchi negli indistruttibili reticolati, ma tutto fu vano.
Il grande svantaggio dei pesanti bombardamenti di artiglieria prolungati nel tempo era l’impossibilità di una sorpresa tattica e la mancata distruzione di tutti i nidi di mitragliatrici, con la fanteria, sistemata nei ricoveri o in seconda linea, pronta a portarsi immediatamente nelle trincee al termine del bombardamento. Se la prima linea veniva sfondata le bocche da fuoco, quasi tutte a traino animale, in crisi di spostamento per la mancanza di mobilità aggravata dalla devastazione del terreno, non erano in grado di erogare il fuoco di accompagnamento o di sbarramento con la conseguente impossibilità per la fanteria attaccante di proseguire nell’azione o di sostenere i contrattacchi nemici.
Per la risoluzione del problema si delinearono due scuole di pensiero. Gli stati maggiori anglofrancesi ritenevano che l’azione di fuoco doveva essere seguita dal movimento delle fanterie, quello tedesco che l’azione di fuoco doveva essere combinata col movimento delle fanterie. Il generalissimo francese Joffre riteneva addirittura che, dopo un massiccio, pesantissimo bombardamento, era possibile fare avanzare la cavalleria per puntate in profondità nei varchi aperti dalla artiglieria.
Nel Diario storico del 125° reggimento di fanteria germanico si legge: «L’11 mattina non credemmo quasi ai nostri occhi vedendo correre alla nostra volta, sulla strada Arras-Cambrai, alcuni squadroni di cavalleria inglese. Noi ci alzammo come se fossimo stati ad una esercitazione di tiro, e ridendo salutammo questo raro bersaglio con una raffica di proiettili. I superstiti volsero le spalle e galopparono indietro; molti cavalli avevano le selle vuote». Il 20 settembre 1915 a Loos le fanterie britanniche, ancora composte da soldati professionisti, avanzarono su dieci colonne di un migliaio di uomini: «manovrando come se fossero in piazza d’armi […] L’intero fronte era coperto dalla fanteria nemica». I Tedeschi «s’alzarono in piedi, alcuni salirono persino sul parapetto della trincea e fecero fuoco trionfalmente sulla massa di uomini che avanzavano in terreno coperto. Per di più una batteria di sei cannoni, piazzata nel villaggio di Hulluch, li cannoneggiò senza avere dinanzi a se nulla che ne ostacolasse il tiro. Le mitragliatrici non avevano mai avuto un compito tanto facile, né lo eseguirono mai tanto efficacemente […] una sola mitragliatrice sparò quel pomeriggio 12.500 colpi. L’effetto fu devastante. Gli Inglesi caddero a centinaia mentre i superstiti continuarono la loro marcia in buon ordine e senza interruzioni. Più tardi le lunghe file umane sotto quella tempesta di fuoco cominciarono a frammischiarsi, ma continuarono ostinatamente ad avanzare ed alcuni uomini raggiunsero perfino i reticolati dinanzi alla linea che la loro artiglieria non aveva ancora toccato. Finalmente, davanti a un così insuperabile ostacolo i superstiti volsero le spalle e cominciarono a retrocedere», 385 ufficiali e 7800 soldati rimasero sul campo. I Tedeschi: «nauseati alla vista della strage […] quando i superstiti inglesi cominciarono a ritirarsi, nessuno sparò più un colpo contro di essi, tanto grande fu in ciascuno il senso di compassione e di pietà dopo una tale vittoria» ottenuta su quello che fu chiamato die Leichenfeld von Loos (Il campo di cadaveri di Loos) (9). A distanza di tanti anni queste parole si leggono ancora con un senso di malessere.
Loos fu la regola non l’eccezione. «Haig e i suoi generali lamentavano la mancanza di addestramento dei soldati; e una delle giustificazioni per la loro tattica di avanzare a ondate ben allineate attraverso il campo di battaglia era che non si poteva pretendere nulla di più complesso dalle nuove reclute» scriveva lo storico inglese Paul Kennedy. Nelle operazioni dell’estate 1917 l’esercito perse 300.000 uomini tra morti e feriti. Sull’ottusità dei comandi Carlo Salsa che da ufficiale aveva combattuto nelle pietraie del Carso scriveva nel 1935: «Avanti! Non si può! Che importa! Avanti lo stesso! Ma ci sono i reticolati intatti! Che ragione? I reticolati si sfondano con i petti o coi denti o con le vanghette. Avanti!». La persistenza negli attacchi era anche determinata dal timore delle minacce e delle punizioni di Cadorna il quale in poco più di due anni “silurò” 217 generali, 255 colonnelli e 355 comandanti di battaglione.
Alla vigilia della decima battaglia dell’Isonzo che si svolse nel maggio 1917 si legge nel Diario di Gatti che la media dei comandanti succedutisi in ogni unità dall’inizio delle ostilità era di due per armata, tre o quattro per corpo d’armata, quattro per divisione o brigata, sei per reggimento, ma il solo 90° reggimento di fanteria ne aveva cambiati 18. In totale erano stati 1500 i colonnelli avvicendatisi nel comando. Nel corso della battaglia alla data del 28 maggio 51 fra colonnelli e tenenti colonnelli erano stati sostituiti. A un parlamentare che calorosamente perorava la causa di un generale “silurato” il capo di stato maggiore rispondeva: «Stia tranquillo onorevole. I generali non ci mancheranno mai. Pian piano, faremo generali i sottotenenti che se lo meritano. Ce ne sono tanti».
Va osservato che il fenomeno non era solo italiano.
Nelle sue Mémoires Joffre, comandante supremo dell’esercito francese fino al 1916, annota che dal momento della mobilitazione erano stati sostituiti in sei mesi almeno la metà dei comandanti di divisione di fanteria al fronte e la metà dei comandanti di divisione di cavalleria. «Ufficiali che criticavano la futilità degli attacchi erano considerati con sospetto dai loro superiori e spesso venivano silurati, la bassa percentuale di perdite di un reggimento era considerata prova che esso tendeva a imboscarsi, e anche questo portava a destituzioni» aggiunge il citato Paul Kennedy.
Nell’offensiva del 1917 ad Arras l’artiglieria inglese sparò contro postazioni tedesche che occupavano 20 chilometri di fronte 2.687.000 proiettili, a Vimy su sette chilometri di fronte un milione di colpi, nella battaglia delle Somme un milione e mezzo su 25 chilometri. Erano cifre inimmaginabili alla vigilia del conflitto. Nel maggio 1917 il nuovo comandante dell’esercito francese generale Robert George Nivelle su 40 chilometri di fronte schierò 5500 pezzi d’artiglieria che mantennero un fuoco costante per nove giorni. Dopo l’ennesimo scacco si ammutinarono ben 16 corpi d’armata, circostanza che negli annali della storia francese non ha avuto lo spazio che ebbe Caporetto in Italia. A Verdun sul forte Vacherauville il 31 ottobre dello stesso anno i Tedeschi spararono 7940 proiettili per un totale di 1980 tonnellate di metallo e 160 di esplosivo. La battaglia durò dieci mesi, complessivamente vi furono 420.000 morti e 800.000 feriti. L’epitaffio funebre fu scritto da Alistair Horne ne Il prezzo della gloria: «Nessuno dei due contendenti vinse a Verdun. Fu una battaglia non decisiva in una guerra non decisiva; una battaglia non necessaria in una guerra non necessaria; una battaglia senza vincitori in una guerra senza vincitori».
L’artiglieria italiana, carente per tutta la guerra in qualità e quantità (il numero dei cannoni che scoppiavano dopo il primo colpo non fu esiguo), schierò sulla Bainsizza un pezzo ogni sette metri e a Monte Tomba uno ogni cinque metri.
Tetragoni nei loro convincimenti, imperturbabili davanti ai massacri che non si svolgevano sotto i loro occhi, indifferenti ai bollettini delle perdite i generali, particolarmente quelli dell’Intesa, dimostrarono la loro incapacità professionale continuando a cozzare contro i sistemi fortificati con assurdi attacchi frontali preceduti da immancabili bombardamenti di artiglieria, battezzando guerra di usura la loro guerra, guerra che i Tedeschi più appropriatamente definirono Materialschlachten (battaglia di materiali). Sconsolatamente il generale Falkenhayn, succeduto a Moltke al comando supremo, annotava nel suo Diario: «Ogni battaglia di rottura si trasforma in una battaglia di logoramento». A lui si aggiungeva nell’altro campo il capo di stato maggiore imperiale sir William Robertson: «Confesso di restare attaccato a questa strategia perché non riesco a vedere niente di meglio, e perché così mi suggerisce l’istinto, che non perché abbia qualche buona ragione per sostenerla».
Il miglior giudizio sulle capacità dei generali fu espresso da Liddell Hart: «I generali della prima guerra mondiale volevano strappare una vite dal legno usando le tenaglie invece di un cacciavite» (10); di essi soggiungeva che erano più coraggiosi nei loro piani degli ammiragli perché gli ammiragli andavano e i generali mandavano.
La Germania sulla difensiva
Nel gennaio 1915 lo stato maggiore tedesco allo scopo di liquidare l’avversario più debole decise di mettersi su una stretta difensiva sul fronte occidentale e di trasferire le forze resesi disponibili sul fronte russo. Le prime trincee affrettatamente scavate con mezzi di fortuna furono fortificate e si ordinò che su di esse la resistenza fosse ad oltranza, con immediati contrattacchi in caso di perdita. Una seconda linea fu costituita alle spalle della prima raccordata a questa con camminamenti coperti. Col tempo la superiorità anglo-francese in munizioni e artiglierie divenne insostenibile per la difesa le cui trincee venivano letteralmente cancellate da un diluvio di proiettili, applicandosi il concetto “L’artiglieria conquista, la fanteria occupa”. Se nel maggio 1915 a Festubert erano disponibili 26.000 proiettili per un fronte di sei chilometri, se nel successivo ottobre a Loos ve ne erano 233.000 per dodici chilometri, nell’estate del 1916 l’artiglieria inglese rovesciò 1.508.000 colpi su un fronte di 25 chilometri. Il cosiddetto weight of metal (peso del metallo) faceva sentire i suoi effetti e le perdite divennero insostenibili.
Il comando supremo tedesco che dall’agosto 1916 era retto dal generale Hindenburg, coadiuvato dal generale Ludendorff, resosi conto del pericolo distribuì il primo dicembre 1916 ai comandanti in sottordine un manuale Die Fuhrung in der Abwehrschlacht (Condotta della battaglia difensiva) con il quale si sostituiva alla difesa statica, basata su una serie di trincee da difendere ad ogni costo, la difesa elastica di una zona profonda. La zona da difendere era divisa in una zona di sicurezza mediamente profonda due chilometri e in una posizione di resistenza. A distanza di circa 3-4 chilometri da quest’ultima vi era la zona di contenimento nella quale erano sistemate le riserve. Nella zona di sicurezza erano disseminate coppie di vedette col compito di sorvegliare i movimenti nemici, che si affrettavano a retrocedere in caso d’attacco sui Gruppennester (Nidi di gruppi), ricoveri poco profondi nei quali erano sistemati uno o più gruppi composti da un caporale e cinque uomini che fronteggiavano eventuali colpi di mano o azioni di pattuglia. Questi gruppi, nel caso di un attacco generale, indietreggiavano nella retrostante zona di resistenza. In essa erano sistemati i capisaldi, i tedeschi widas organizzati a giro di orizzonte, i quali dovevano resistere ad oltranza, mentre le restanti forze indietreggiavano o si spostavano lateralmente se sottoposte ad attacchi troppo pesanti ma subito contrattaccavano per riprendere il terreno perduto.
Si legge nel manuale: «Il contrattacco immediato acquista una importanza decisiva […] è il metodo più efficace ed economico, tanto di vite umane quanto di munizioni, per ristabilire rapidamente e decisamente la situazione». Vi era quindi una grande elasticità di movimento con possibilità di spostamenti e di attacchi sui fianchi mentre l’attaccante non poteva più contare sull’appoggio delle artiglierie. Aggiungeva il manuale: «La battaglia difensiva non dovrebbe essere condotta in modo rigido da masse di uomini, ma da una difesa elastica, per mezzo di attacchi in cui si impieghino artiglieria, mitragliatrici, fucileria e fuoco di mortai di trincea». Se l’attacco sfondava la zona di resistenza entravano in azione i reggimenti delle divisioni di seconda schiera che, in previsione dell’azione, venivano addensati alle spalle delle posizioni di resistenza. L’unità tattica di base non era più il battaglione ma il gruppo, lo Stosstrup, formato da un sottufficiale e undici uomini in applicazione del principio della dispersione delle forze.
Ai sottufficiali che comandavano i plotoni, nell’esercito italiano il comando era affidato a sottotenenti, in possesso di una altissima preparazione professionale e di grande iniziativa personale, veniva delegata una ampia autonomia operativa, in aderenza alla aufstragstaktik, la dottrina militare tedesca sviluppata nel XIX secolo che delegava a tutti i livelli di comando capacità autonome di decisione di fronte alle continue, improvvise modificazioni della situazione sul campo. Su questa tattica così si espresse il generale Federico von Bernhardi che nel 1916 aveva comandato il LV corpo d’armata sul fronte russo e nel 1918 un corpo d’armata in Francia: «Un’azione a gruppi peraltro – e ciò deve tenersi ben presente – è possibile soltanto quando si disponga di una fanteria solida, ben guidata dagli ufficiali e dai graduati di truppa di tutti i gradi, sulla quale si possa fare pieno affidamento, educata all’autonomia, che sappia tener testa anche alle situazioni più difficili […] Se tali condizioni non si verificano, val meglio combattere su e attorno a una linea di difesa ben determinata».
Fu alla luce di questi principi che il generale Filippo Stefani scrisse: «[…] stato maggiore tedesco che, in materia di azione difensiva, fu il vero, ineguagliato maestro di tutti» (11) e con questi principi l’esercito tedesco fronteggiò sino alla fine le offensive sempre più incalzanti degli anglo-francesi, mentre sul fronte italiano la difesa austriaca fu sempre statica ancorata però alle forti posizioni naturali che la esaltavano. Di esse il generale Falkenhaim parlava di: «Posizioni ideali per la difesa contro forze preponderanti».
I carri armati
La soluzione del problema tattico, il superamento di un sistema difensivo fortificato, fu intravista da ufficiali del comando alleato. Il trattore cingolato, protetto da una struttura in acciaio e armato di cannoni e mitragliatrici, chiamato dagli Inglesi tank e dai Francesi artillerie d’assault si dimostrò capace di avanzare sui campi di battaglia a una velocità di venti chilometri orari, proiettando il suo potenziale a distanze enormi per l’epoca, su terreni a diversa velocità di percorrenza, schiacciando sotto il suo peso le intricate barriere di filo spinato, invulnerabile al fuoco di fucileria e armi automatiche. Scrisse un ufficiale inglese di Cambrai, dove per la prima volta entrarono in azione: «La triplice cintura di reticolato fu attraversata come se si trattasse di cespugli di ortiche e in essa vennero aperti 35 varchi per la fanteria. Quando i difensori della prima trincea nemica uscirono dai loro ricoveri per affrontare gli scoppi e le fiamme dello sbarramento, videro che i primi carri, grotteschi e terrificanti, erano quasi sopra di loro».
Con la nuova arma il fante riacquistava la protezione della corazza e la capacità di fare fuoco in movimento, riducendo il tempo necessario all’investimento della trincea. Era un’arma ancora in fase di rodaggio quando venne affrettatamente gettata in campo da comandi ansiosi di successi, con numerosi difetti tecnici, ma che se bene inserita negli apparati bellici, se impiegata con avvedutezza, a massa, a sorpresa, coniugando la sua potenza di fuoco con quella dell’artiglieria, a supporto e in simbiosi con la fanteria, quale leva per spezzare nel punto più debole lo schieramento tedesco, realizzando la superiorità nel punto decisivo, il clausewitziano schwerpunkt, avrebbe potuto contrarre la lunghezza del conflitto.
Churchill, uno dei pochi uomini politici addentro alle problematiche militari, annotava: «Nessuno di essi dovrebbe essere usato se non è possibile impiegarli tutti e nello stesso tempo» e aggiungeva: «Quando io accuso senza eccezioni tutte le offensive alleate del 1915, 1916, 1917 come operazioni inutili e sbagliate di elevatissimo costo, sono obbligato a rispondere alla domanda: che altro si poteva fare? Ed io rispondo additando la battaglia di Cambrai: questo si poteva fare. Questo in molte varianti, questo su scala maggiore e migliore si sarebbe dovuto fare, e si sarebbe potuto fare, se i generali non si fossero accontentati di combattere le mitragliatrici con i petti dei valorosi, pensando che questo solo significava condurre una guerra». I cimiteri furono riempiti di “valorosi”.
Non vanamente sosteneva Liddell Hart: «Esiste solo una cosa più difficile dell’idea di far entrare una idea nuova nella testa di un militare […] fare uscire quella vecchia».
La tattica dell’infiltrazione
Fu merito dei Tedeschi, quando nella primavera del 1918 passarono all’offensiva per un ultimo, disperato tentativo di rovesciare le sorti del conflitto, di attuare una nuova tattica che sostituiva agli attacchi in massa l’infiltrazione di piccolissimi reparti, le Sturmtruppen, formati da soldati scelti guidati da esperti sottufficiali. Dopo un breve, accurato bombardamento estremamente intenso, nel quale venivano usati anche proiettili a gas e fumogeni, “tastando” il terreno per individuare i punti deboli, piccole unità armate di lanciafiamme, fucili, mortai leggeri, bombe a mano, armi automatiche “scivolando” nelle linee nemiche evitavano i punti “forti” del dispositivo difensivo e procedevano in profondità senza curarsi dei collegamenti e dei fianchi scoperti. Obiettivo era di raggiungere i posti di comando, le postazioni di artiglieria, i centri di comunicazione e di rifornimento allo scopo di creare il vuoto alle spalle della fanteria schierata in prima linea usa ad aspettarsi attacchi in massa preceduti da lunghi bombardamenti. Il grosso della fanteria seguiva a breve distanza, attaccando i capisaldi rimasti intatti con manovre sui fianchi o alle spalle, mentre i rincalzi tenuti alla mano, subentravano immediatamente nell’attacco a supporto delle prime schiere, ove necessario. Il successo tattico fu apprezzabile ma la scarsa velocità di movimentazione, l’afflusso delle riserve alleate, la reiterazione delle linee difensive, la mancanza di artiglieria di accompagnamento né impedì il successo strategico.
Gli Arditi
Fu nell’estate 1917 che nel campo di addestramento di Sdricca nacque il Primo Reparto di Assalto, gli arditi, ad opera di un lungimirante ufficiale, il tenente colonnello Giuseppe Bassi, il cui nome non figura nell’Enciclopedia Militare. Fu il tentativo italiano di risolvere il problema tattico posto dalla Grande Guerra. Gli Arditi, a differenza delle Sturmtruppen, furono formazioni autonome ben distinte dai reparti di fanteria. Nel campo venne loro impartito un addestramento tattico particolarmente curato fatto di realistiche esercitazioni a fuoco, precedute da ginnastica, corpo a corpo, uso di armi e bombe a mano con un consumo di munizioni e una profusione di mezzi, sconosciuti al modestissimo addestramento della fanteria, che arrivava in linea dopo aver sparato pochi colpi di fucile. I comandanti dei reparti, gli ufficiali, tra essi vi era il futuro ministro Bottai, i sottufficiali venivano selezionati con particolare cura, tenendo conto delle qualità maturate nei precedenti combattimenti. L’armamento consisteva in moschetti da cavalleria mod. 91, petardi Thévenot, pugnali, pistole mitragliatrici, mitragliatrici Fiat M. 914, cannoni da 65/17 e lanciafiamme. Il moschetto fu preferito al fucile perché più leggero, kg.2,700 invece di 3,800, più maneggevole, m.0,90 invece di 1,29 e quindi più adatto in scontri che si svolgevano a distanza ravvicinata e in spazi ridotti. Il petardo, inoffensivo a 10 metri di distanza, aveva un forte effetto nel punto di scoppio. Il pugnale era preferito alla baionetta perché maneggevole, dotato di maggiore forza di penetrazione, di grande effetto psicologico nelle mani di soldati motivati. La pistola mitragliatrice, arma estremamente mediocre, fu migliorata con l’abolizione dello scudo pesante 26 chilogrammi, permettendo così agli assaltatori di azionarla anche in movimento. La Fiat M. 1914 era usata specialmente nella difesa delle posizioni conquistate, mentre per il cannone 65/17 si sperimentarono le stesse difficoltà della fanteria. L’armamento di un reparto con una composizione inferiore al battaglione, 750 uomini circa contro 1000, era di otto mitragliatrici, 24 pistole mitragliatrici, due cannoni e 15 lanciafiamme ritirati successivamente. Come per le truppe d’assalto tedesche l’obiettivo non erano le trincee di prima linea ma le riserve nei rifugi, le retrovie e i centri comando «ove era il cuore della difesa, dove era il cervello» (12). Le immancabili difficoltà e perplessità dei comandi superiori furono superate dal personale intervento del re che seguì da vicino la nascita e lo sviluppo della specialità.
Gli Arditi entrarono per la prima volta in azione nella notte tra il 18 e il 19 agosto nella battaglia della Bainsizza quando, superato l’Isonzo, conquistarono d’impeto il munito Monte Fratta con una tecnicamente perfetta applicazione della nuova tattica, basata sulla sorpresa, dovuta anche alla mancanza del bombardamento preliminare, la velocità del movimento, lo straordinario coraggio e risolutezza. Si evidenziò però lo stesso problema delle Sturmtruppen tedesche: lo scollamento con le fanterie che a volte per il fuoco nemico, a volte per la lentezza con cui progrediva non riusciva a raggiungere le posizioni tenute dagli arditi. Il disastro di Caporetto e il successivo scioglimento delle formazioni non permisero lo sviluppo delle tattiche dei reparti d’assalto le cui esperienze nel dopoguerra furono completamente neglette.
La fine della guerra
Il conflitto terminò improvvisamente per il collasso degli Imperi Centrali. Il blocco economico ne aveva asfissiato l’economia e l’intervento americano fu il colpo di grazia per il morale delle popolazioni. Per la prima volta nella storia furono piegati con una guerra ossidionale non un castello, una fortezza o una città, ma due potenti nazioni. L’esercito tedesco, non piegato sui campi di battaglia, si ritirò ordinatamente nei confini nazionali. Passata l’euforia della fine della guerra, quando fu possibile calcolarne i costi, i dati furono agghiaccianti. Le perdite avevano superato ogni previsione. Per gli alleati i morti (12,44%) e i feriti (31%) ammontavano al 43,44% dei mobilitati. Per gli Imperi Centrali, che avevano mobilitato 22.850.000 di uomini, i morti furono il 14,8% e i feriti il 36,7% per un totale del 51,5%.
Mobilitati | Caduti | Feriti | Totale morti e feriti |
|
Francia |
8.410.000 |
1.358.000 |
4.266.000 |
5.624.000 |
Gran Bretagna |
8.904.000 |
908.000 |
2.090.000 |
2.998.000 |
Italia |
5.615.000 |
650.000 |
947.000 |
1.597.000 |
USA |
4.355.000 |
126.000 |
234.000 |
360.000 |
Altri Paesi |
210.400 |
410.000 |
343.000 |
753.000 |
Germania |
11.000.000 |
1.774.000 |
4.216.000 |
5.990.000 |
Austria-Ungheria |
7.800.000 |
1.200.000 |
3.620.000 |
4.820.000 |
Turchia |
2.850.000 |
325.000 |
400.000 |
725.000 |
Bulgaria |
1.200.000 |
87.000 |
153.000 |
240.000 |
Totali |
22.850.000 |
3.386.000 |
8.389.000 |
11.775.000 |
Le perdite se rapportate alle guerre precedenti erano ancora più raccapriccianti. Secondo uno studio della Revue militaire française del 1933 nei conflitti precedenti i caduti erano stati:
1790-1815 Guerre della Rivoluzione e dell’Impero 2.100.000 morti
1854-1855 Guerra di Crimea 785.000
1859 Guerra d’Italia 45.000
1864 Guerra di Danimarca 3.500
1866 Guerra austro-prussiana 45.000
1870-1871 Guerra franco-prussiana 184.000
1899-1902 Guerra del Transvaal 9.800
1904-1905 Guerra russo-giapponese. 160.000
Annotava A.J.P. Taylor: «Il soldato sconosciuto fu l’eroe della prima guerra mondiale».
La ricerca della soluzione
Questa non breve digressione serve a meglio inquadrare il problema tattico che andava ad affrontare lo stato maggiore italiano negli anni Venti, problema che nella sua essenza non era diverso da quello irrisolto nella prima grande conflagrazione mondiale. La vittoria aveva maturato in un primo tempo il convincimento che i metodi tattici seguiti l’avevano determinata. Si riteneva che la battaglia di Vittorio Veneto avesse consacrato tali metodi di attacco tra i quali veniva privilegiato quello applicato dai tedeschi dal marzo al luglio 1918, la tattica dell’infiltrazione. Il generale Grazioli, all’epoca direttore superiore delle scuole militari, espose questi concetti in una conferenza alla Scuola Centrale di Fanteria di Oriolo Romano, istituita nel 1920 per svolgere brevi corsi di aggiornamento per i comandanti di reggimento e battaglione. Sosteneva il generale romano che l’apparizione della bombarda e di altri mezzi simili di distruzione dei reticolati e delle «organizzazioni nemiche di prima linea» aveva aperto un’era tattica nuova nella guerra. Lo strumento di distruzione della sottile corazza lineare nemica era stato trovato, l’offensiva era dunque di nuovo possibile. Sennonché l’industria bellica non aveva saputo ancora accompagnare questo grande successo tecnico con un altro non meno importante: la realizzazione di armi automatiche e di mezzi di distruzione leggerissimi capaci di seguire materialmente le ondate di assalto e dar modo di neutralizzare direttamente le mitragliatrici nemiche arretrate, «sorte con il concetto nuovo della difesa in profondità» (13). Era quindi ritenuto superato il problema dell’ostacolo passivo, il reticolato, e andava affrontato quello di un complesso di armi moderne, mitragliatrici leggere, tromboncini per il tiro curvo, cannoncini di accompagnamento, bombe a mano per l’eliminazione dell’ostacolo attivo, la mitragliatrice.
Ma l’ottimismo iniziale, espresso da uno dei più brillanti ufficiali dell’esercito, andò via via attenuandosi e sparendo. Il sanguinoso incubo degli attacchi senza sbocco che si trasformavano in un massacro senza fine, il crepitio delle armi automatiche capaci di annientare interi battaglioni, si erano profondamente inciso nelle menti e nei cuori.
«I soldati venivano avanti piangendo. Non si ribellavano: quando erano spinti fuori delle trincee andavano, ma piangendo», scriveva Angelo Gatti (14) e con essi andavano ufficiali di carriera e di complemento con il loro altissimo senso del dovere.
Il ricordo delle muraglie di filo spinato era così vivo da essere addirittura esorcizzato: «Un mezzo qualsiasi capace di distruggere in breve termine i reticolati metallici. Basterà questo per scombussolare di un tratto la meglio organizzata guerra di posizione. Può darsi che con i progressi meravigliosi della meccanica e della chimica si troverà o si è già trovato» (15).
Il problema tattico era ancora più complicato dalle armi emergenti, l’aviazione e i gas asfissianti, non tenendosi in molto conto il carro armato. Per tutti gli anni Venti la ricerca di nuovi procedimenti tattici fu continua, affannosa e assillante fatta di novità, ripensamenti, incertezze e dubbi. Per maturare la nuova dottrina tattica furono necessari dieci anni malgrado le esortazioni del generale Bastico: «[…] quella nuova della quale non abbiamo ancora gettato le basi, ma che dovremo necessariamente costituire […] la necessità di questa dottrina rimarrebbe per sempre irrefutabile» (16). Si studiò di migliorare la collaborazione tra la fanteria e l’artiglieria, di affinare la tattica dell’infiltrazione, di potenziare e modernizzare le armi di accompagnamento in una visione sempre angusta dell’offensiva, nella quale l’arma vincente della seconda guerra mondiale, l’arma «che fa risparmiare sangue» come scriveva il generale Heinz Guderian, ideatore dell’arma corazzata tedesca negli anni trenta, veniva relegata a «mezzo ausiliario atto non già a sostituire, nemmeno parzialmente la fanteria», evidenziando così i limiti intellettuali dell’establishment militare che non accettava nemmeno un sia pur limitato inizio della meccanizzazione. «Per l’Italia è da ritenere che alcun elemento favorevole al traino animale si accentuino e che pertanto i numerosi quadrupedi debbono avere ancora per molto tempo una parte importante soprattutto per il someggio» (17) scriveva Efisio Marras nel 1930.
Cinque anni prima, nel 1925 si erano svolte in Gran Bretagna, all’insegna della guerra di movimento, le grandi manovre sotto la direzione del capo di stato maggiore generale. Esse erano basate sulla valutazione e lo studio di unità motorizzate appositamente costituite formate da carri armati, artiglieria motorizzata, fanteria su autocarri e cavalleria e, malgrado errori e inesperienze, si comprese la preminente importanza della motorizzazione, importanza ribadita in un articolo del capitano H.P.W. Hutson pubblicato nel 1927 sulla rivista The Royal Engineers Journal: «Il movimento in tutte le sue forme è questione cruciale oggi e la motorizzazione è la soluzione che la scienza offre. Questa trasformazione deve essere accettata come inevitabile».
Aldo Valori scriveva nel 1923: «Verso la fine della guerra, dopo quattro anni di sforzi, si vide ancora una volta che, in via generale, nessun mezzo esisteva per tenere lontana da una posizione una schiera di uomini decisi ad arrivarci»(18). I limiti di tale concezione non erano temporali se il generale Alberto Pariani, sottosegretario di Stato alla Guerra alla fine degli anni Trenta, sosteneva che nella prima conflagrazione mondiale dove e quando si era voluto lo sfondamento era avvenuto. Pariani passò alla storia perché volle, fortissimamente volle, trasformare la divisione ternaria in divisione binaria composta da due reggimenti di fanteria e uno di artiglieria che diede pessima prova in guerra, malgrado l’opposizione di Badoglio, che come sempre non impose il suo punto di vista.
Ma il problema tattico nella sua essenza, il superamento di un sistema difensivo fortificato, rimase nei suoi elementi insoluto alla fine degli anni Venti.
Note
1. Blum von, Guglielmo Giorgio, Strategie. Paris 1884.
2. Van der Goltz, Colmar Freiherr, La nazione armata. Torino 1898.
3. Gilbert, Martin, La grande storia della prima guerra mondiale. Milano 1998.
4. Wheeler-Bennett, John W, La nemesi del potere. Storia dell’esercito tedesco dal 1918 al 1945. Milano 1957.
5. Mussolini, Benito, Il mio diario di guerra (1915-1917). Milano 1923.
6. Del Mayno, Luchino, Le mitragliatrici in montagna, collina e pianura, Nuova Antologia 1911.
7. Liddell Hart, Basil, The British way in warfare. London 1932.
8. Regio Esercito Italiano, Comando superiore, Ufficio del capo di stato maggiore, Attacco frontale e addestramento tattico. 25.11.1915.
9. Forstner, Wofgang, Das reserve infanterie regiment 15°. 1929.
10. Liddell Hart, Basil, La prima guerra mondiale 1914-1918. Milano 1968.
11. Stefani, Filippo, La storia della dottrina e degli ordinamenti dell’esercito italiano. Roma 1985.
12. Farina, Salvatore, Le truppe d’assalto italiane. Roma 1938.
13. Grazioli, Francesco Saverio, Saggio sulla evoluzione della dottrina tattica nella Guerra Europea, in “Conferenze tenutesi ai corsi ufficiali svoltesi presso la Scuola centrale di fanteria”. 1921.
14. Gatti, Angelo, Caporetto. Dal diario di guerra inedito, maggio-dicembre 1917, a cura di Montigone A. Bologna 1961.
15. Sardagna, Filiberto, Poche idee sulla futura guerra. Rassegna dell’Esercito italiano 1925.
16. Bastico, Ettore, L’evoluzione dell’arte della guerra. Firenze 1923.
17. Marras, Efisio, La meccanizzazione degli eserciti. Almanacco delle Forze Armate. Roma 1930.
18. Valori, Aldo, Problemi militari della nuova Italia. Milano 1923.