L’OBELISCO MUSSOLINI, TRA MITO DI REGIME E LOTTE DI POTERE

di Stefano Baruzzo -

 

Impresa dell’industria marmifera carrarese, monumento alla mitologia del regime e al culto della personalità, ma anche simbolo della politica fascista e delle lotte tra i ras. L’obelisco Mussolini è stato tutto questo e molto altro ancora…

 

 

«L’opera colossale, quella che desta l’ammirazione di chi guarda è il gigantesco monolito eretto nell’Urbe al nome di Mussolini quale segnacolo del rinnovamento nazionale da lui voluto ed attuato. Il candido blocco di marmo strappato ai fianchi delle montagne Apuane, ha attraversato il mare, ha risalito il fiume, ed ora è volto verso il cielo» ([1]). Con queste parole, la propaganda fascista celebrava l’obelisco Mussolini tra le opere inaugurate al Foro omonimo nel novembre del 1932.
L’idea di un obelisco in onore del duce era venuta a Renato Ricci, ras storico del fascismo carrarese, dal 1927 presidente dell’Opera Nazionale Balilla (ONB), l’organizzazione fascista della gioventù. Ricci aveva impostato un imponente programma di costruzione di infrastrutture, Case del Balilla, palestre, impianti sportivi, convitti. Tra esse spiccava a Roma il Foro Mussolini (oggi Foro Italico), vasto complesso di impianti sportivi iniziato nel 1928 sotto la guida dell’architetto carrarese Enrico Del Debbio. In esso avrebbe dovuto campeggiare l’obelisco destinato a celebrare a imperitura memoria il capo del fascismo.

L’impresa industriale

La colonna Mussolini appena estratta da cava Carbonera

La colonna Mussolini appena estratta da cava Carbonera

Il cammino della “colonna Mussolini” fu lungo e difficile. Iniziò nel luglio del 1928, quando nella cava Carbonera, a 800 metri di altitudine sulle impervie montagne di Carrara, i cavatori trassero dal monte con il taglio del filo elicoidale il blocco di puro marmo bianco dal quale nei mesi successivi riquadrarono il monolito destinato al costruendo Foro Mussolini. Il monolito, tra i maggiori blocchi di marmo mai lavorati a Carrara, misurava 17 metri in lunghezza, due metri e trenta nella sezione quadrata e pesava circa 300 tonnellate.
Racchiuso in un’apposita armatura di 50 tonnellate di assi di legno e 14 di ferro, il monolito partì dalla montagna verso la capitale del futuro impero con l’abbrivio dato personalmente da Ricci alla fine di novembre del 1928, sfidando canaloni e pendenze di 45 gradi, scendendo più a valle con l’antica tecnica della “lizzatura”. Essa consisteva nello scivolamento della “lizza”, sorta di slitta di legno sulla quale era ancorato il blocco, su traverse di legno movibili lubrificate da quintali di sapone (i “parati”), governato dai lizzatori che mollavano gradualmente il carico trattenuto da cavi d’acciaio, legati da un capo al carico, dall’altro avvolti su pali di ancoraggio infissi nel terreno (i “piri”): le fonti dell’epoca parlano di venti punti di ancoraggio per corde che misuravano nel loro totale sviluppo diecimila metri. Il lavoro di lizza del monolito durò tre mesi, con l’impiego quotidiano di una cinquantina di operai. Il cammino proseguì su via normale con il traino animale di trenta coppie di buoi (secondo alcune fonti trentasei), battendo strade vecchie e altre appositamente aperte o allargate per il passaggio del monolito ([2]). Il trasporto con la ferrovia marmifera fu scartato per le dimensioni e il peso del blocco, proibitivi per tale trasporto.
Il monolito attraversò la città tra ali di folla. In qualche tratto, la gente tappezzò l’armatura con fiori e immagini sacre, che rivelavano una sorprendente religiosità popolare in una popolazione tramandata come anarchica e ribelle, offrendo una nota inattesa di storia della cultura popolare. La gente di Carrara affidava alla protezione divina questo insolito ambasciatore che portava a Roma il suo messaggio di angosce per il presente e di speranze per il futuro. La crisi mordeva a Carrara una popolazione dipendente dall’industria del marmo: nel 1929 la metà della popolazione in età lavorativa era impiegata nell’industria marmifera; agli inizi dell’anno, quando il monolito aveva già iniziato il suo viaggio, gli occupati nell’industria del marmo erano già diminuiti dell’11% rispetto all’anno precedente ([3]).
Giunto alla marina di Carrara, dopo aver attraversato la città, il monolito, liberato dell’armatura di protezione, acquisita la benedizione di un sacerdote in una cerimonia alla presenza di Ricci, venne imbarcato nel giugno del 1929 su un galleggiante, l’Apuano, costruito appositamente dall’Arsenale della Spezia, a bordo del quale venne rimorchiato sino alla foce del canale Fiumicino a Roma e ormeggiato al porto fluviale di San Paolo. Giunse a destinazione al Foro risalendo il Tevere, quando il fiume regalava le piene, per finire eretto nel 1932 sotto la guida dell’ingegnere Costantino Costantini.
L’estrazione, la lavorazione e il trasporto del monolito furono un’impresa nell’impresa, in cui l’industria marmifera carrarese diede conferma del suo primato mondiale. Essa seppe coniugare le tecnologie e gli strumenti moderni, come il filo elicoidale per il taglio, con la perizia della tradizione, come nella lizzatura, applicata a una esperienza straordinaria (per farsi un’idea, si tenga presente che la “carica” ordinaria della lizzatura tradizionale non superava le 30 tonnellate). Una vicenda di storia industriale del tutto eccezionale, al di là del suo scopo politico, nella storia dell’industria marmifera mondiale.

Simbolo del regime

Il cammino del monolito venne accompagnato dalle cronache dei giornali e dai filmati dei cinegiornali Luce, dalla partenza da Carrara sino al suo innalzamento al Foro, ormai divenuto “obelisco Mussolini”, alto 36 metri e mezzo con il basamento, scolpito del nome “Mussolini” e della scritta “Dux” e ornato di una cuspide di bronzo laminata d’oro di 32 chilogrammi ([4]). Sulla base dell’obelisco, quindi coperto da esso, venne deposto, assieme ad alcune monete d’oro, un manoscritto di oltre dieci pergamene, il Codex Fori Mussolini. Il testo, in latino, era stato scritto dal latinista Aurelio Giuseppe Amatucci, docente all’università di Roma, poi dal 1935 professore alla Cattolica di Milano. Il trasferimento su pergamena fu opera di Nestore Leoni, considerato uno dei migliori miniaturisti del ‘900, e di un suo collaboratore, il calligrafo Enrico Brignoli. Il testo celebrava il «nuovo Cesare», oltre all’organizzazione della gioventù fascista e lo stesso Foro, dopo una rievocazione storica che andava dalla prima guerra mondiale all’avvento del fascismo ([5]).
L’obelisco venne inaugurato, con la benedizione di monsignor Bartolomasi, ordinario dell’Opera Nazionale Balilla, alla presenza del Duce, il 4 novembre del 1932, ricorrenza della Vittoria, assieme alle prime opere del Foro: l’Accademia di educazione fisica, lo Stadio Mussolini (poi dei Marmi) e quello dei Cipressi (poi Olimpico). Lasciamo la parola alle cronache del tempo: «Il Capo del Governo, che veste l’uniforme di caporale d’onore della Milizia, è accompagnato dal sottosegretario alla Presidenza, on. Rossoni, ed è ricevuto dal Segretario del Partito e dall’on. Renato Ricci. Il Duce quindi sale la gradinata lungo la quale sono schierati i tamburini dell’Opera Balilla, un plotone d’onore formato da allievi dell’Accademia di Educazione fisica e una rappresentanza dell’accademia femminile di Orvieto. A un segnale il velario cala e il candido obelisco appare, col grande nome di Mussolini impresso in linea verticale. I labari, le fiamme, i gagliardetti si inchinano; le musiche intonano “Giovinezza”; le acclamazioni si levano da ogni parte e durano vari minuti. La tromba poi impone nuovamente il silenzio, e l’ordinario militare mons. Bartolomasi benedice l’opera gigantesca con le parole sacre della liturgia» ([6]).
Il significato politico-ideologico del Foro Mussolini fu spiegato dallo stesso Ricci: «Dal punto di vista storico-politico, un monumento che riallacciandosi alla tradizione imperiale romana, vuole eternare nei secoli il ricordo della nuova civiltà fascista, legandola al nome del suo Condottiero» ([7]). L’obelisco, simbolo del «fascismo di pietra», diventava protagonista della storia ideologica di un regime che nel culto della personalità del suo capo cercava il momento di una compattezza totalitaria.
Il fascismo era un partito di recente formazione, divenuto rapidamente regime, che proclamava la rottura «rivoluzionaria» con ogni precedente ordine politico-morale. Poiché i suoi valori, regole e misure erano ancora in formazione e la sua ideologia ancora indefinita, esso delegava al suo «condottiero» il potere di stabilire quelle regole e quei valori, in sostanza la piena sovranità. Il culto del capo e della sua infallibilità miravano a giustificare questa delega. I gerarchi stessi non avevano garanzie della loro posizione al di fuori della volontà del capo. Il riconoscimento dell’indiscutibile volontà del «condottiero» era l’unica regola che potesse tenere insieme un partito ancora in formazione della sua identità, nel quale convivevano uomini di tendenze, formazione e provenienze diverse, i quali, rotto ogni rapporto con altri ordinamenti, non avevano alternative alla sopravvivenza del regime. L’apparente irrazionalità del culto della personalità, espressione di incondizionata obbedienza al capo carismatico, trovava al contrario la funzione razionale di garantire una regola di compattezza a un partito e un regime ancora in formazione.

Opere pubbliche e politica economica del regime

Renato Ricci premia un Balilla

Renato Ricci premia un Balilla

Il Foro Mussolini aveva anche un rilevante significato economico. Esso era un esempio tra i maggiori di quei lavori pubblici e di edilizia monumentale che la storia economica ricorda come la misura privilegiata della politica economica del regime contro la crisi e la disoccupazione. Tra il 1929 e il 1933 la spesa per opere pubbliche passò da un ottavo a un quarto della spesa pubblica globale, già di per sé in forte crescita tra il 1928 e il 1932 ([8]).
I vertici del regime non erano unanimi su questa scelta: in momenti diversi il sottosegretario all’Interno Arpinati e il segretario del partito Turati manifestarono opinioni contrarie o diffidenti verso l’intervento dello Stato in campo economico, con insofferenza del Duce, che non ammetteva dissensi sulla politica economica, sua principale preoccupazione nel momento in cui imperversava la grande crisi mondiale. Non a caso, Turati e Arpinati saranno i gerarchi che subiranno l’epurazione più dura tra i vari gerarchi coinvolti nei rimpasti al vertice. Al contrario, la coerenza con le direttive economiche del duce fu una ragione non secondaria del favore di Mussolini verso le iniziative di Ricci, che aveva impostato la gestione dell’ONB sulla priorità della costruzione di una stabile e duratura struttura logistica ([9]). Dal punto di vista di Ricci, la politica di opere pubbliche, tra cui i numerosi e imponenti progetti di costruzioni edilizie, offriva anche opportunità di rilancio dell’industria marmifera carrarese.

Conflitti di potere tra Carrara e Roma

Meno noti sono i risvolti politici della monumentalità dell’ONB legati alle lotte sotterranee nel partito fascista.
L’obelisco serviva a Ricci per consolidare la sua posizione nei vertici romani e omaggiare il duce che nel 1927 aveva consentito alla costituzione di un ente statale, il Consorzio obbligatorio dei marmi di Carrara (obbligatorio per le ditte carraresi), del quale il giovane gerarca carrarese era divenuto presidente. Il Consorzio ottenne il controllo totale del commercio dei marmi carraresi ([10]). In pratica, esso ratificava la posizione dominante del distretto apuano nell’industria marmifera italiana, dato che la produzione di marmi del distretto era pari al 60% di quella italiana e il suo export il 94% dell’intero export italiano di marmo ([11]).
Il Consorzio era strumento economico, per il controllo di prezzi, quote di produzione e mercati. Ricci seguiva una politica favorevole a una base sociale formata da piccoli industriali e ceti operai: il monopolio del Consorzio garantiva i primi, specie i produttori marginali, con una politica di alti prezzi e i secondi con il mantenimento dei livelli salariali. Tuttavia, l’assunto monopolistico si rivelò errato: l’industria carrarese doveva ormai fronteggiare una concorrenza competitiva, specie dell’industria americana di marmi, che aveva messo in discussione la sua posizione di monopolio, e non aveva più la forza di imporre le proprie condizioni sul mercato mondiale.
Ma il Consorzio era anche strumento politico. Dopo aver disperso l’opposizione antifascista manu militari con la forza squadrista, dopo aver inquadrato rapidamente gli operai nei sindacati fascisti, a Ricci sfuggiva ancora il pieno controllo del ceto industriale nel quale raccoglieva consensi tra i piccoli e medi industriali, mentre i grandi, la ristretta élite dei cosiddetti “baroni del marmo”, resistevano con successo nella difesa della loro piena autonomia. Il nuovo ente aveva il potere di concludere in esclusiva contratti per conto delle ditte carraresi, tutte obbligatoriamente consorziate. Esso toglieva agli industriali, compresi i grandi, la stessa autonomia di concludere affari.
Il Consorzio serviva a Ricci per realizzare un controllo totalitario ante litteram del suo feudo apuano, subordinando alla disciplina fascista anche i suoi primi sovventori, poi acerrimi avversari, quei «baroni del marmo» che da sempre controllavano l’industria marmifera di Carrara. L’opposizione di questo ceto non era certo dettata da motivi antifascisti ma di gelosa conservazione della propria egemonia economica e sociale, basata sul controllo oligopolistico del commercio dei marmi, che gli consentiva di controllare anche gli industriali medio-piccoli, spesso affittuari di cave minori di proprietà dei grandi. I “piccoli” seguivano Ricci anche nella speranza di un affrancamento dalla subordinazione ai grandi industriali tramite la copertura del potere politico.
A Carrara si riproduceva un conflitto diffuso nel paese tra le vecchie élites economiche e le ambizioni delle nuove élites del ceto politico fascista, tese all’affermazione del primato della politica su tutte le sfere della vita civile, a cominciare da quella economica.
A Roma, nessun gerarca poteva contestare il ruolo dell’obelisco, ossia la celebrazione del Duce, espressione del culto della personalità del capo carismatico. Ma esso, simbolo delle opere del Foro e del loro significato ideologico, dava anche grande visibilità al gerarca carrarese. Questa sovraesposizione venne giudicata eccessiva anche dall’ufficio stampa del capo del governo, che nel settembre del 1932 intervenne con la direttiva alla stampa di «non parlare più del monolito del Foro Mussolini sinché non sarà alzato» ([12]).
Nei regimi e nelle culture totalitarie si combatte a colpi di scandali e sospetti più che di idee. Il controllo dell’industria marmifera di Carrara aveva attirato su Ricci nelle sorde lotte romane accuse di clientelismo e affarismo. L’arrivo della “colonna Mussolini” diede forza alle accuse: il proprietario della cava Carbonera, da cui proveniva il monolito, era Cirillo Figaia, facoltoso industriale del marmo di Carrara, suocero di Ricci. L’affare era stato ingente, calcolato dallo stesso Ricci in 2.343.792,60 lire di costo complessivo. Le inchieste e i procedimenti giudiziari del dopoguerra a carico di Ricci non riveleranno arricchimenti, ma negli anni del regime le vociferazioni alimentarono un corposo incartamento riservato della polizia ([13]).
Augusto Turati, segretario del PNF dal 1926, che aveva ereditato Ricci come vicesegretario dal predecessore Farinacci, era impegnato in un’opera di moralizzazione e disciplina del partito a scapito dei vari ras locali che, come Ricci, facevano il bello e cattivo tempo nei loro “feudi” di origine. Inoltre, Ricci era legato a Costanzo Ciano, che Turati accusava di capeggiare una «camarilla speculativa». Infine, nel suo sforzo di centralizzazione, Turati non amava gestioni autonome delle economie provinciali, di cui il Consorzio carrarese era un prototipo.
La fornitura di marmi al Foro Mussolini accresceva l’insofferenza del segretario verso il gerarca carrarese fino all’aperta ostilità. Ancora nel dopoguerra, Turati ricorderà in un suo memoriale l’ostilità verso Ricci, al punto di rifiutare un invito del Duce alla riconciliazione ([14]). All’ostilità di Turati si aggiungeva quella di Arpinati, destinatario, nel suo ruolo di sottosegretario all’Interno, di un severo rapporto del viceprefetto Guido Letta sulla gestione del Consorzio carrarese da parte di Ricci. Ma il duce bloccò sempre tentativi ostili verso il gerarca toscano ([15]). Mussolini non poteva permettere insinuazioni, vociferazioni o addirittura scandali, reali o presunti, associati al Foro che portava il suo nome. Inoltre, Ricci era un fedelissimo che aveva l’accortezza di non sconfinare dalle sue competenze di governo della gioventù, senza lasciare sospettare ambizioni ulteriori, di certo non si occupava di politica economica.

La resa dei conti

Tra la partenza del monolito e il suo arrivo a destinazione si consumò la resa dei conti. Con l’avanzare della crisi e della disoccupazione, il fallimento del Consorzio nel fronteggiare una congiuntura più grande di esso favorì la sua liquidazione, avallata dallo stesso Mussolini dopo un burrascoso incontro a Roma, alla sua presenza, tra Ricci e i maggiori industriali carraresi. Il Consorzio venne commissariato nell’ottobre del 1929 e liquidato nel febbraio successivo. I «baroni del marmo» ripresero il controllo dei loro commerci. Ricci lasciò la vicesegreteria del partito, compensato con l’ingresso nel governo come sottosegretario al ministero dell’Educazione Nazionale. Turati sfruttò la crisi interna al fascismo carrarese, determinata dalla liquidazione del Consorzio, che aveva aggravato lo scontro tra le fazioni locali fino a un attentato al podestà di Carrara: nell’aprile del 1930 affidò il partito provinciale alla fazione degli avversari di Ricci, vicini ai grandi industriali locali, ponendo fine al dominio di un altro ras nel suo feudo storico.
Mussolini aveva affidato a Turati il compito di subordinare il partito allo Stato: in provincia ai prefetti, a Roma al governo, cioè al Duce stesso. Il segretario, succeduto a Farinacci nel 1926, aveva eseguito con impegno la direttiva del Duce, che richiedeva un ridimensionamento dei ras di provincia, che avevano la tendenza a trasformare le loro aree di origine in feudi personali. Tuttavia, anch’egli capo del fascismo provinciale (bresciano), esponente di un partito al quale era legato indissolubilmente come tutti gli altri gerarchi, perseguiva un suo disegno “totalitario” basato sul primato del partito. Il partito, accentrato e non più condizionato dai potentati locali dei ras di provincia, doveva essere il protagonista della fascistizzazione integrale della nazione, tramite il controllo delle organizzazioni in cui si articolava la vita civile, sindacati, associazioni economiche, culturali, assistenziali e sportive. Tra queste spiccavano le organizzazioni giovanili, che formavano le nuove generazioni e la nuova classe dirigente fascista. Qui emergeva un altro conflitto: quello tra il partito e l’ONB, la quale controllava la gioventù fascista ma non dipendeva dal partito, bensì dal governo (dipendeva dal ministero dell’Educazione Nazionale). Solo Starace riuscirà a sottomettere al partito le organizzazioni giovanili fasciste con la creazione nel 1937 della GIL (Gioventù Italiana del Littorio).
Ma l’epurazione dei circoli della vecchia guardia costrinse Turati, per sostituirli, a recuperare notabili locali sopraggiunti nel fascismo da altre esperienze politiche. Il compromesso con i localismi del Paese condusse in non pochi casi, come quello di Carrara, alla contraddizione di dare il potere, in alternativa ai ras, a vecchie oligarchie non del tutto allineate con le ambizioni totalitarie del ceto politico fascista, condivise dallo stesso Turati.
Quella di Turati fu comunque una vittoria temporanea. I destini dei protagonisti furono diversi. Ricci mantenne saldamente la propria posizione a Roma, protetto dal Duce, proseguì la sua fedele carriera, lascerà l’ONB confluita nella GIL nel 1937, ma resterà nel governo prima come sottosegretario poi dal 1939 come ministro delle Corporazioni, dopo il ’43 aderirà alla RSI come generale comandante della GNR. Turati lascerà nell’ottobre del 1930 la segreteria, colpito due anni dopo dalla nemesi di uno scandalo costruito dal suo spietato nemico Farinacci, e abbandonerà per sempre la vita politica. Nel 1933, toccherà ad Arpinati consumare il proprio rapporto col duce: nel maggio lascerà il sottosegretariato e l’anno successivo, scaduto il mandato parlamentare, verrà arrestato e inviato al confino. I maggiori tra i più grandi industriali del marmo verranno travolti fino al totale fallimento dalla grande crisi mondiale che avviata dalla crisi finanziaria americana dell’ottobre ’29 si abbatterà anche sull’Europa.
L’obelisco è rimasto al suo posto, dove tuttora campeggia intatto, non più ambasciatore di speranze e di miti, ma muto testimone di tanta storia, industriale ed economica, ideologica e politica.


Note

([1]) «Il Popolo d’Italia», 5 novembre 1932.
([2]) A. Bizzarri-G. Giampaoli, Guida di Carrara, Istituto Editoriale Fascista Apuano, Carrara 1932, pp. 233-238; Il Consorzio per l’industria ed il commercio dei marmi di Carrara, Consorzio per l’industria ed il commercio dei marmi di Carrara, Carrara 1929, pp. 51-73.
([3]) Consiglio Provinciale dell’Economia di Massa Carrara, La vita economica nella provincia di Massa Carrara nell’anno 1929, Istituto Editoriale Fascista Apuano, Carrara 1929, p. 21; Id., La vita economica nella provincia di Massa Carrara nell’anno 1928, Istituto Editoriale Fascista Apuano, Carrara 1930, p. 83.
([4]) Altre fonti dell’epoca misurano in 31,60 metri l’altezza dell’obelisco, cfr. M.G. D’Amelio, L’obelisco marmoreo del Foro Italico a Roma. Storia, immagini e note tecniche, Palombi Editori, Roma 2009, p. 36 e p. 172, che cita E. Peretti, L’erezione del monolite Mussolini, in «Costruzioni civili e industriali illustrate», 1 (1932).
([5]) Il testo originario riportato dai miniaturisti in pergamena resta sigillato sotto l’obelisco. Per le edizioni a stampa dello stesso rinviamo a quella curata dall’autore, Aurelius Iosephus Amatucci, Codex Fori Mussolini, Florentiae, apud Felicem Le Monnier, 1933 (inizialmente pubblicato in «Scuola e cultura. Annali della istruzione media», n. 2 (1933), pp. 153-158. Sul Codex cfr. il lavoro di riscoperta di H. Lamers-B. Reitz-Joosse, The Codex Fori Mussolini. A latin text of italian Fascism, Bloomsbury, London [etc.] 2016.
([6]) «Corriere della Sera», 5 novembre 1932.
([7]) Opera Balilla, Il Foro Mussolini (prefazione di Renato Ricci), Bompiani, Milano 1937, p. 5.
([8]) S. La Francesca, La politica economica del fascismo, Laterza, Bari 1972, p. 50; V. Zamagni, Lo Stato italiano e l’economia. Storia dell’intervento pubblico dall’unificazione ai giorni nostri, Le Monnier, Firenze 1981, p. 38.
([9]) S. Setta, Renato Ricci. Dallo squadrismo alla Repubblica Sociale Italiana, Il Mulino, Bologna 1986, pp. 124-126; alle pp. 158-161 notizie sull’obelisco.
([10]) Ivi, pp. 101-112.
([11]) Consiglio Provinciale dell’Economia di Massa Carrara, La vita economica nella provincia di Massa Carrara nell’anno 1927, Istituto Editoriale Fascista Apuano, Carrara 1929, p. XXXV e p. 63.
([12]) ACS, Archivio Manlio Morgagni, Agenzia Stefani, scatola 69, «Corrispondenza. Rivista varia», rapporto del 1° settembre 1932.
([13]) Archivio Centrale dello Stato, Segreteria Particolare del duce, Carteggio Riservato 1922-1943, busta 48, fascicolo 242/R «Ricci Renato».
([14]) A. Turati, Fuori dell’ombra della mia vita, Centro Bresciano Iniziative Culturali, Brescia 1973, pp. 150-151.
([15]) B. Dalla Casa, Leandro Arpinati. Un fascista anomalo, Il Mulino, Bologna 2013, p. 199. Sull’intervento di Mussolini a favore di Ricci cfr. A. Iraci, Arpinati l’oppositore di Mussolini, Bulzoni, Roma 1970, pp. 172-173.

 

Per saperne di più

Il Consorzio per l’industria ed il commercio dei marmi di Carrara, Consorzio per l’industria ed il commercio dei marmi di Carrara, Carrara 1929.
M. Piacentini, Il Foro Mussolini in Roma. Arch. Enrico Del Debbio, M. Paniconi, Criteri informatori e dati sul Foro Mussolini, NdR, Organizzazione e caratteristiche tecniche dell’opera, in «Architettura», n. 2, febbraio 1933, pp. 65-105.
Opera Balilla, Il Foro Mussolini (prefazione di Renato Ricci), Bompiani, Milano 1937.
S. Setta, Renato Ricci. Dallo squadrismo alla repubblica sociale italiana, Il Mulino, Bologna 1986.
S. Lupo, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Donzelli, Roma 2005.
Le case e il foro: l’architettura dell’ONB, a cura di Salvatore Santuccio, Alinea, Firenze 2005.
E. Gentile, Fascismo di pietra, Laterza, Roma-Bari 2007.
P. Nicoloso, Mussolini architetto. Propaganda e paesaggio urbano nell’Italia fascista, Einaudi, Torino 2008.
M.G. D’Amelio, L’obelisco marmoreo del Foro Italico a Roma. Storia, immagini e note tecniche, Palombi Editori, Roma 2009.

 

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