LO STELLONE SOTTACQUA: I SOTTOMARINI DELLA REPUBBLICA ITALIANA

di Giuliano Da Frè -

 

Dal divieto del 1947 alla seconda “Guerra Fredda” del 2022, l’arma subacquea ha vissuto fasi alterne, legate agli sviluppi strategico-militari e alla cantieristica nostrana, che ha raggiunto punte di eccellenza negli anni ’50 e ’60.

 

 

Alla vigilia della Prima guerra mondiale, l’Italia costruiva, anche con un buon successo di export, degli apprezzati sommergibili, grazie a un gruppo di ottimi progettisti come Curio Bernardis (1872-1941), Virginio Cavallini (1875-1944) e Cesare Laurenti (1865-1921), la cui influenza si sarebbe fatta sentire sino agli anni ’30. Tra le due guerre mondiali, pur ottenendo nuovi successi sul mercato internazionale [1], il grosso della produzione fu assorbito dalle esigenze della Regia Marina, che nel giugno 1940 schierava ben 117 sommergibili: la seconda flotta subacquea del mondo, in termini numerici. Sul piano qualitativo la situazione si presentava invece meno positiva, sebbene quasi tutti i battelli fossero stati costruiti dopo il 1925, e nemmeno i contemporanei sommergibili francesi, inglesi e sovietici fossero particolarmente validi, in un’era di transizione per questa componente. Arretratezze tecnologiche e soprattutto in materia di dottrina di impiego (e in un contesto strategico, quello Mediterraneo, mal meditato nei piani prebellici [2]), che portarono a ottenere scarsi risultati durante il Secondo conflitto mondiale, a fronte della perdita di un centinaio di unità, e di migliaia di uomini.

Dai divieti alla ricostruzione

Il sommergibile Calvi ex Bario in ricostruzione nel 1960

Il sommergibile Calvi ex Bario in ricostruzione nel 1960

Nel 1947 la componente subacquea italiana, pesantemente decimata durante la guerra e poi cancellata dalle limitazioni imposte con il Trattato di Parigi, si era ridotta a due battelli usurati dal servizio, inizialmente destinati alla Francia come riparazione di guerra, ma poi rimasti in Italia: Giada (del 1941, classe “Platino”) e Vortice, classe “Tritone”, completato nel 1943. Unità con caratteristiche simili, che avrebbero dovuto essere radiate: ma aggirando le clausole del trattato furono riclassificate “pontoni di ricarica batterie” V1 e V2, e impiegate con vari trucchi per mantenere un minimo di livello addestrativo per quadri ed equipaggi, sebbene solo con brevi uscite notturne poiché di giorno i battelli venivano camuffati con sovrastrutture posticce. Il loro impiego occulto (ma tollerato nel crescente clima che già dal 1947-1948 stava portando al confronto Est-Ovest) era d’altra parte indispensabile anche per permettere alle navi di superficie specializzate nella lotta antisommergibile di esercitarsi.
Dopo l’adesione alla NATO, le clausole punitive furono rapidamente superate e nel 1950 autorizzati radicali ammodernamenti sui due battelli riesumati dal servizio ridotto: tra 1952 e 1954 su Giada e Vortice furono sostituiti i motori, eliminata l’artiglieria e ampiamente modificate le sovrastrutture, standardizzando ulteriormente le caratteristiche di questi due superstiti, destinati a restare in servizio per ancora tre lustri.
Inoltre fu deciso il recupero di un terzo battello (sempre classe “Tritone”) rimasto incompleto in cantiere dal 1945: ribattezzato Pietro Calvi, nel 1953 fu trasferito presso i Cantieri Tosi di Taranto per esservi ricostruito. Il Calvi infatti non sarebbe stato sottoposto a uno dei classici interventi di radicale “chirurgia navale” in corso all’epoca sulle unità più moderne ereditate dalla Regia Marina, compresi Giada e Vortice. Il sommergibile fu infatti interessato da una ricostruzione totale simile a quanto avvenuto per l’incrociatore Garibaldi e i due caccia classe “San Giorgio”. L’unità fu allungata, le sovrastrutture completamente modificate, eliminati cannone e lanciasiluri poppieri, l’intero apparato motore diesel ed elettrico sostituito e integrato con un apparato di navigazione silenziosa e lo snorkel. Il Calvi entrò in servizio nel 1961, per poi essere assegnato – come Giada e Vortice – ad attività addestrative a doppio scopo: per la nuova leva di sommergibilisti, e per le unità antisom della flotta. Contemporaneamente, veniva realizzata una nave appositamente dedicata al supporto e salvataggio dei sommergibili, destinata a sostituire la vecchia Anteo costruita nel 1914, e radiata nel 1954. Il Proteo, la cui costruzione iniziata nel 1943 era stata a lungo bloccata dalle vicende belliche, fu completato nel 1955, e sarebbe rimasto in servizio sino al 2001, per poi essere ceduto alla Marina bulgara, che ancora lo impiega come nave appoggio.
Erano tuttavia battelli di prestazioni limitate, sebbene la ricostruzione del Calvi avesse ridato fiato alle capacità progettuali della cantieristica italiana, alla quale però sarebbe occorso tempo per iniziare a realizzare una nuova classe di battelli. Giada e Vortice sarebbero stati radiati nel 1966-1967, e anche il Calvi già nel 1971 veniva passato in riserva per poi essere radiato nel 1973. A questo punto, contrariamente a quanto avveniva per il naviglio combattente di superficie, l’apporto americano si sarebbe per un ventennio dimostrato indispensabile, col trasferimento tra 1954 e 1974 di nove battelli, tutti di seconda mano ma decisamente più prestanti e aggiornati dei tre “veterani” nazionali.
I primi a essere ceduti all’Italia furono due battelli classe “Gato”, costruiti nel 1941-1943 e radicalmente ammodernati col programma GUPPY-IB prima del loro trasferimento nel 1954-1955, coi nomi di Enrico Tazzoli e Leonardo Da Vinci. Nel 1959 fu poi ceduto un primo battello classe “Balao”, ribattezzato Evangelista Torricelli, costruito nel 1944. In riserva dal 1946, era stato tolto dalla naftalina per essere sottoposto al programma di aggiornamento denominato “Fleet Snorkel”; fu consegnato alla Marina Militare nel gennaio 1960. Nel 1966 sarebbe stato affiancato dalle unità gemelle Alfredo Capellini e Francesco Morosini, completati nel 1944-1945 e pure ammodernati prima del trasferimento, permettendo la radiazione di Giada e Vortice.
Nel 1964-1969 erano stati come poi vedremo costruiti i quattro “Toti”, mentre il programma relativo a due battelli di medio tonnellaggio (i futuri “Sauro”) presentato nel 1967, veniva congelato. Col Calvi e i “Tazzoli” radiati nel 1973, mentre tra 1975 e 1977 anche i tre “Torricelli” passavano in disarmo, la componente subacquea italiana si sarebbe presto ridotta ai quattro eccellenti ma piccoli “Toti”, mentre solo nel 1974 inizierà la costruzione dei primi due “Sauro”. Pertanto tra 1972 e 1974 la US Navy trasferì all’Italia altri quattro battelli: quelli consegnati nel 1973 e ribattezzati Primo Longobardo e Gazzana Priaroggia erano anch’essi classe “Balao” (il che permetteva la cannibalizzazione dei “Tazzoli”); ma impostati nel 1944 e ancora in cantiere alla fine del conflitto, erano stati completati solamente nel 1948-1949 già integrando le modifiche GUPPY-I, per poi essere aggiornati allo standard GUPPY-II nel 1952-1954 e infine al più avanzato GUPPY-III nel 1961-1963, oltre a subire una revisione col trasferimento alla Marina italiana, dove sarebbero rimasti in servizio sino al 1981. Nel 1974 infine entrarono in servizio Livio Piomarta e Romeo Romei, appartenenti alla classe “Tang”, la prima post-bellica di sommergibili americani; costruiti tra 1949 e 1952 incorporavano le innovazioni introdotte coi programmi GUPPY, e un ulteriore upgrade relativo a sistemi di sicurezza e sonar fu effettuato nel 1966-1968: sarebbero rimasti in servizio sino al 1986-1988.

Tra velleità nucleari e nuove costruzioni

Il Toti primo sottomarino italiano costruito nel dopoguerra e in servizio dal 1968

Il Toti primo sottomarino italiano costruito nel dopoguerra e in servizio dal 1968

Facciamo un passo indietro. Il settore sommergibili della cantieristica italiana, sino al 1940 vivace anche in campo internazionale, tra 1952 e 1961 aveva ripreso fiato con gli interventi di “chirurgia navale” su Vortice e Giada, e la lunga ricostruzione del Calvi, in vista di obbiettivi più ambiziosi. Già nel 1956 furono avviati progetti relativi sia a unità costiere, sia a due battelli medi diesel-elettrici di nuova generazione battezzati Marconi e Toti, con la costruzione del capoclasse avviata nel giugno 1957 realizzando un anello dello scafo resistente presso i Cantieri Navali di Taranto. Il nuovo battello convenzionale avrebbe dovuto rilanciare la produzione di sommergibili in Italia dopo un gap di 15 anni, facendo tesoro di quanto appreso con l’acquisizione dei “Tazzoli” della US Navy. Ma nel 1959, mentre già la Marina era impegnata a realizzare o progettare unità di superficie altamente innovative, i suoi tecnici diedero il nome di Marconi a un sottomarino decisamente più rivoluzionario: a propulsione nucleare e basato sulla avanzata classe americana “Skipjack”, in costruzione tra 1956 e 1961, e all’avanguardia rispetto al prototipico Nautilus completato nel 1955. Un progetto quindi doppiamente ambizioso quello italiano, poiché non solo puntava sul nucleare, allo studio sin dal 1949 e che nel 1956 aveva visto l’attivazione di un reattore sperimentale all’interno del comprensorio dell’Accademia Navale di Livorno del CAMEN (Centro per le Applicazioni Militari dell’Energia Nucleare). Gli “Skipjack”, infatti, terzo gruppo di SSN dopo Nautilus e “Skate”, che erano però strutturalmente ancora simili ai battelli convenzionali dell’epoca, presentavano al contrario un innovativo scafo a goccia che favoriva velocità sino 30 nodi, e una grande manovrabilità grazie ai piani di manovra spostati ai lati della vela e agli impennaggi cruciformi a poppa. La volontà di realizzare un battello nucleare alla fine si schiantò sul diniego americano di cedere il necessario know-how tecnologico, soprattutto nucleare, e sulle crescenti perplessità relative ai costi dell’operazione.
Del “programma Marconi” resta comunque l’ambiziosa volontà degli ammiragli dell’epoca di ricostruire la flotta decimata dalla guerra su basi nuove e altamente innovative: la cosiddetta “flotta di qualità”, anche a costo però di mettere in mare pochi prototipi. Il progettato SSN Marconi sarebbe stato davvero un unicum probabilmente, visti i costi di acquisizione (30 miliardi di lire dell’epoca) e già affiancarlo con una seconda unità risultava complicato, per non parlare di una terza [3]: senza contare i costi legati all’intero ciclo di vita, al supporto logistico, alle ricariche del reattore. Va altresì detto che il modello scelto dalla Marina era un progetto maturo; e nella US Navy, che aveva radiato i primi battelli nucleari dopo 25 anni di servizio, gli “Skipjack” (completati nel 1959-1961) restarono in linea sino al 1990.
Sebbene il Marconi confermasse l’attenzione e la spinta verso l’innovazione espressa da una nuova generazione di ammiragli che avevano fatto la guerra in prima linea, non aver portato a termine il progetto (poi definitivamente cancellato nel 1964) evitò pertanto alla Marina di incatenarsi a una scelta troppo costosa e complessa. D’altra parte, se gli studi effettuati non andarono perduti, passarono anni prima che venisse finalmente contrattualizzata la costruzione della prima classe di sommergibili italiani del dopoguerra, iniziata nel 1964: ossia quattro piccoli SSK (Submarine Submarine-Killer) che, consegnati nel 1968-1969, andarono a formare la classe “Toti”. Benché entrati in linea con almeno cinque anni di ritardo sui programmi originari, questi piccoli battelli costieri lunghi 46 metri e con un dislocamento di 535/590 tonnellate si dimostrarono essere dei veri gioielli, benché con dimensioni e prestazioni ridotte e ottimizzate per missioni brevi e mirate. Al di là delle considerazioni che si possono fare sui coevi primi battelli costieri tedeschi degli anni ’60 Type-201/-205, decisamente mal riusciti (i primi dovettero essere ricostruiti e i “205” largamente modificati), sono entrate nella leggenda le capacità di occultamento e di manovrabilità dei “Toti”: nel 1978 proprio il capoclasse, all’epoca al comando di Gianni Vignati [4], per due volte penetrò nel fitto schermo antisom della super portaerei americana Nimitz, emergendo al suo fianco dopo averla silurata virtualmente nel corso di esercitazioni congiunte. Negli anni ’70 i battelli furono aggiornati con nuovi sonar e l’integrazione del siluro A-184 della WASS, ma le limitate dimensioni impedirono upgrade più radicali. Ciononostante i “Toti” hanno avuto una lunga vita operativa, e se due battelli sono stati passati in riserva nel 1990-1992, Toti e Dandolo furono radiati solamente nel 1999, pur restando negli ultimi anni attivi solo per attività addestrativa o in disarmo [5].
Per superare i limiti operativi di questi validi ma piccoli SSK, nel 1967 fu presentato il progetto per due battelli medi, sempre a scafo singolo e diesel elettrici, ma con maggiore autonomia operativa e capaci di superare i 19 nodi in immersione contro i 15 dei “Toti”. Difficoltà tecniche ed economiche ne posposero tuttavia a lungo la costruzione. Solo nel 1974 infatti fu finalmente avviata la realizzazione di Nazario Sauro e Fecia di Cossato, consegnati nel 1979-1980; primi battelli di medio tonnellaggio post-bellici lunghi quasi 64 metri e da 1.456/1.630 tonnellate, scafo realizzato con l’innovativo acciaio ad alta resistenza HY-80 (che permetteva l’immersione sino a 300 metri), sensoristica avanzata e armati con 12 nuovi siluri A-184 WASS per 6 tubi da 533 mm. Con in vista ulteriori radiazioni tra le unità ex americane, e la volontà di disporre di almeno 10 battelli (contro i 14 ritenuti in piena Guerra Fredda necessari, e comunque coi due “Tang” già oltre i 25 anni di vita e i “Toti” non più di primo pelo), la Legge Navale del 1975 autorizzò altri due “Sauro”, realizzati tra 1978 e 1982 e identici ai precedenti. La flotta tornò così a 10 battelli: due con 30 anni di età, quattro a mezza vita e altrettanti nuovissimi, benché al centro di critiche per alcuni difetti e tecnologie superate. In effetti la Marina avviò in quel periodo il programma “S-90”, relativo a un grande battello da 3.000 tonnellate che includesse – ma la questione era complessa – anche un sistema di propulsione diesel/AIP, in base a uno studio di Maritalia che prevedeva di imbarcare un apparato sperimentale sul Bagnolini (classe “Toti”). Nel frattempo, ed eliminando i difetti iniziali, nel 1983 veniva ordinata una terza serie di battelli classe “Sauro” (Giuliano Prini e Salvatore Pelosi) di mezzo metro più lunghi, velocità massima di 20 nodi e con sensoristica migliorata, costruiti nel 1985-1989 mandando in pensione gli ultimi due battelli ex US Navy. Migliorie poi in parte introdotte sui primi quattro “Sauro” durante i lavori di ammodernamento effettuati tra 1990 e 1995.
Non va inoltre dimenticato che nel 1977-1980 la nave appoggio e salvataggio sommergibili Proteo veniva affiancata da un’unità più moderna, l’Anteo, dotata di ponte di volo con hangar telescopico per elicottero, e una sofisticata attrezzatura di supporto, comprendente mezzi subacquei speciali a controllo remoto ROV e un mini-sommergibile di salvataggio Breda MSM-1 USEL, sostituito nel 2002 da un SRV-300 della DRASS-Livorno.
Il progetto S-90 tuttavia stava incontrando crescenti difficoltà tecniche [6], legate al fatto che, dopo le ambizioni degli anni ’50 e le valide realizzazioni dei ’60, la cantieristica italiana, pur guadagnando importanti riconoscimenti nella costruzione di fregate, corvette, navi anfibie e cacciamine, andava perdendo colpi in un settore un tempo validamente presidiato. Si decise quindi di dare il via nel 1988 a una quarta serie di “Sauro” ulteriormente migliorati soprattutto nel loro silenziamento, e più grandi, con consegne avvenute nel 1993 (Primo Longobardo) e 1995 (Gazzana Priaroggia), mentre si procedeva al graduale ritiro dal servizio dei “Toti”, lasciando così alla vigilia del XXI secolo la componente subacquea italiana incentrata su una sola classe di otto battelli (in tre varianti). Quindi, definitivamente cancellato il progetto S-90, nel 1995 fu autorizzato l’avvio di un programma del tutto nuovo: rivoluzionario sul piano tecnico ma sconfortante su quello industriale, poiché di fatto per la nuova generazione di “delfini” italiani dopo un secolo di originali capacità progettuali [7], apriva la strada alla realizzazione su licenza di un modello straniero.

La svolta tedesca e le nuove minacce

Il Salvatore Todaro primo di quattro battelli AIP di nuova generazione e progettazione tedesca costruiti nel 1999-2017

Il Salvatore Todaro primo di quattro battelli AIP di nuova generazione e progettazione tedesca costruiti nel 1999-2017

Si trattò tuttavia di una scelta eccellente: il Type-212A, sottomarino allo studio dal 1988 e che il colosso Howaldtswerke-Deutsche Werft-HDW iniziò a costruire in quattro esemplari per la Marina tedesca 10 anni più tardi. Nel 1996 fu firmato un accordo preliminare, seguito dal contratto del valore di 1.742 miliardi di vecchie lire per la costruzione di due battelli (più due in opzione) customizzati per le esigenze italiane, ad esempio per quanto riguarda il sistema di combattimento, l’integrazione di siluri della WASS di nuova generazione “Blackshark”, scafo rafforzato per l’impiego in Mediterraneo, a una maggiore profondità rispetto al Baltico. La realizzazione di Salvatore Todaro e Scirè, avviata nel 1999 con consegne effettuate nel 2006-2007, ha comportato un importante trasferimento di know-how tecnologico, poi riversato nel 2005 sul progetto italo-russo S-1000 [8]. Nonostante i lunghi tempi di costruzione (sei-sette anni in media per i Type-212, contro i tre raggiunti con gli ultimi “Sauro”) legati al notevole salto tecnologico e alla realizzazione di innovativi scafi pressurizzati in acciaio austenitico e amagnetico, il fatto di aver cantierizzato un sottomarino già in costruzione per la Marina tedesca ha di molto ridotto i margini di rischio legati a un sistema complesso e avanzato. Inoltre, a costo di creare un vuoto costruttivo si è atteso il 2008 per esercitare l’opzione su una seconda coppia di unità, non solo per ragioni di bilancio ma anche per arricchire un’esperienza operativa iniziata nel 2004, quando il Todaro ha effettuato le prime prove in mare.
I nuovi battelli, estremamente silenziosi e compatti – 56 metri per 1.450/1.830 t –, dal design stealth di nuova generazione e forse capaci di toccare (il dato è classificato) i 450 metri di profondità, raggiungono i 20 nodi di velocità massima, con un’autonomia operativa in immersione più che doppia rispetto ai “Sauro”. L’armamento è incentrato su sei tubi da 533 mm per 12 siluri o 24 mine, gestito con un’avanzata sensoristica che ha quasi dimezzato l’equipaggio grazie a un elevato livello di automazione. I due U-212A in opzione, realizzati a partire dal 2009 e consegnati nel 2016-2017 coi nomi di Pietro Venuti e Romeo Romei, sono leggermente più lunghi della prima coppia, con autonomia incrementata e alcuni apparati più avanzati, e l’integrazione dei nuovi siluri “Black Shark Advanced”.
Nel frattempo dal 2002 avveniva il passaggio in riserva dei quattro “Sauro” iniziali, col capoclasse destinato a essere esposto nel nuovo Museo del Mare di Genova, Fecia di Cossato e Guglielmo Marconi disarmati per cannibalizzazione, e il Da Vinci impiegato sino al 2010 per attività sperimentali e addestrative. Tra il 1999 e il 2003 i “Sauro” 3ª e 4ª serie venivano invece sottoposti a un radicale upgrade con la sostituzione di sensori e sistema di combattimento, prolungandone la vita sino ai giorni nostri, con dismissioni previste tra 2023 e 2030.
Anche alla luce del rafforzamento delle flotte subacquee di altre realtà mediterranee come Algeria, Egitto e Turchia, la Marina Militare ha dapprima deciso di confermare in otto esemplari il proprio fabbisogno di sottomarini: dopo lo scoppio della guerra in Ucraina e col crescere delle tensioni internazionali, si è tornati a puntare a 10 unità, come confermato nelle audizioni parlamentari dello Stato Maggiore Difesa, tenutesi nel febbraio-marzo 2023 [9].
Nel 2017 è così stato firmato un accordo con Berlino per mettere a fattor comune il più possibile il supporto dei 10 Type-212 in servizio nelle rispettive flotte, e nel 2018 è stato approvato un piano per acquisire altri quattro sottomarini per sostituire nell’arco di un decennio i restanti “Sauro”.
Il 26 febbraio 2021 è stato firmato il contratto da 1,35 miliardi di euro per realizzare due sottomarini nella nuova versione riprogettata da Fincantieri U-212 NFS-Near Future Submarine, con altri due in opzione; la prima unità è stata impostata l’11 gennaio 2022, e sarà seguita a breve dalla seconda, con consegne previste nel 2027-2029, mentre le altre due unità andranno completate entro il 2031. Rispetto ai “Todaro/Venuti” saranno allungati a oltre 58 metri (e col dislocamento salito a 1.550/1.750 t), con un ampliamento di falsatorre e camera di manovra, migliorando gli spazi per personale e apparati; l’autonomia sarà incrementata con l’adozione di un impianto AIP di nuova generazione, alimentato con batterie al litio-ferro-fosfato di produzione nazionale. Più avanzato e customizzato il sistema di combattimento gestito dal SADOC-4, mentre i sei tubi da 533 mm oltre ai siluri potranno impiegare missili di tipo cruise/land attack: in prima battuta un sistema già operativo come il “Tomahawk” americano o lo “Scalp-Naval” europeo, e in prospettiva il missile multiruolo anglo-francese Future Cruise/Anti-Ship Weapon (FS/ASW) in fase di sviluppo da 10 anni.
Come accennato, da un paio d’anni si è tornati a dibattere su un potenziamento della flotta subacquea; dibattito reso più attuale dalla guerra russo-ucraina, con i suoi aspetti navali “ibridi” legati alla difesa (o attacco) alle reti sottomarine di comunicazione, internet ed energetiche, soprattutto alla luce dell’ancora misterioso danneggiamento dei gasdotti “Nordstream” del Baltico, nel settembre 2022. Si è parlato nel 2022 di un possibile nuovo lotto di quattro sottomarini derivati da una ulteriore customizzazione e sviluppo degli NFS in costruzione; ma questa sembra più una prospettiva a lungo termine, in vista della sostituzione nel 2040 dei primi quattro U-212, di cui peraltro nel 2028 sarà avviato l’ammodernamento per portarli vicini agli standard dei battelli di nuovo modello. Nel febbraio 2023 lo Stato Maggiore Marina ha invece ribadito l’interesse per altri due U-212 NFS-Near Future Submarine da realizzare in coda ai quattro già previsti, presumibilmente entro il 2035.
Nel frattempo, nell’ambito della costruzione di una nuova nave appoggio per sommergibili, denominata Special & Diving Operations-Submarine Rescue Ship (SDO-SuRS), contrattualizzata nel 2021 e destinata nel 2026 a sostituire il vecchio Anteo, è stato ordinato a DRASS un nuovo sottomarino di salvataggio “Serie-100”, che assieme a una flottiglia di droni subacquei potrà operare anche a protezione delle infrastrutture strategiche subacquee.

 

 


Note

[1] Furono realizzati 11 sommergibili per Argentina, Brasile, Turchia e Spagna, mentre fu cancellato un contratto già firmato col Portogallo per 4 battelli.
[2] I sommergibili italiani si comportarono invece molto bene in Atlantico, dopo aver subito modifiche suggerite dai colleghi tedeschi.
[3] Indispensabile, alla luce della “regola del 3” imperante in Marina: su tre unità dello stesso tipo, infatti, si ipotizza che in tempi normali una sia pienamente operativa, una impegnata nell’addestramento dell’equipaggio, e la terza ai lavori per manutenzione. In caso di emergenza ovviamente si tende a schierarne il più possibile.
[4] Poi ammiraglio, a lungo “rivoluzionario” responsabile di “Rivista Marittima”, sommergibilista tra i più capaci nelle leve post-belliche (era nato nel 1944); e mentore e amico, scomparso il 4 maggio 2022.
[5] Dal 2005 il Toti è visitabile “in secco” al Museo della Scienza e della Tecnica di Milano, mentre il Dandolo dal 2002 è conservato all’Arsenale di Venezia. Un’occasione mancata fu la loro esportazione, benché non fosse mancato l’interesse di potenziali acquirenti.
[6] Ed economiche: si stimava che il costo del primo battello sarebbe stato di 1.000 miliardi di lire, ossia quanto stanziava l’intera Legge Navale 15 anni prima. A questo si aggiunse la chiusura di Maritalia, del gruppo Micoperi.
[7] Va anche ricordato che tra anni ’70 e ’80, se fallivano i tentativi di piazzare sul mercato “Toti” e “Sauro”, la ditta COSMOS di Livorno otteneva ottimi risultati nell’esportazione di mini-sommergibili venduti a Taiwan, Pakistan, Corea del Sud e Colombia, oltre a piccoli mezzi speciali diffusi in vari paesi. Prodotti e tecnologie trasferite ad altre aziende tuttora sul mercato, come GSE/M-23 che ha realizzato 2 mini-battelli per il Qatar, e DRASS di Livorno, che offre un’intera famiglia di battelli, anche costieri o di salvataggio.
[8] Progetto rimasto sulla carta: Fincantieri ne ha tuttavia ricavato un nuovo modello, S-800, un battello AIP costiero presentato ufficialmente sul mercato internazionale nel febbraio 2023, con buone prospettive di export.
[9] Numero massimo di battelli schierati durante la Guerra Fredda, cui a volte potevano aggiungersi 2 battelli in disarmo/riserva, sui 14 considerati quale standard ottimale.

Per saperne di più
M. Cosentino, La Marina Italiana 1945-2015, 3 voll, Storia Militare-Dossier 2014-2015
G. Da Frè, Almanacco Navale del XXI secolo, Odoya 2022
G. Giorgerini, Uomini sul fondo. Storia del sommergibilismo italiano dalle origini ad oggi, Mondadori 1994