PIETRO, PAOLO E L’INCIDENTE DI ANTIOCHIA

di Cristian Usai –

Intorno al 50 dopo Cristo l’apostolo Pietro si reca in Asia Minore, dove incontra la nascente comunità cristiana. Ma l’atteggiamento tenuto nei confronti dei cristiani convertiti dall’ebraismo scatena una polemica con Paolo. Fu Pietro a mettere in atto un comportamento in contrasto con i dettami della sua stessa fede, con ciò sancendo, sotto il profilo storico, la fallacia del dogma dell’infallibilità del Papa.

L’incidente di Antiochia dimostra che Pietro avesse esercitato il suo supremo ufficio di Pastore e di Dottore di tutti i cristiani, con riferimento ai fatti denunziati da Paolo? In caso di risposta affermativa, si è dinnanzi alla dimostrazione storica della fallacità del dogma dell’infallibilità del Papa. La presente ricerca risponderà a siffatto quesito, utilizzando i criteri della metodologia della ricerca storica.
La trattazione storica della tesi dell’infallibilità papale rappresenta una questione contemporanea e piuttosto esigua in seno al dibattito intellettuale. Si consideri ad esempio il libro La Chiesa di P. Roberto Coggi OP che con onestà intellettuale ma con toni tendenzialmente apologetici, si limita a citare le parole di alcuni Santi e Dottori della Chiesa che corroborerebbero storicamente il dogma dell’infallibilità papale dimostrando che la Chiesa era ritenuta, fin dalle origini, “cattedra della verità”, ove non poteva albergare l’errore: «[i cristiani di Roma] sono puri da ogni estranea macchia» (Sant’Ignazio d’Antiochia); «Con questa Chiesa, a causa della sua più alta preminenza, deve accordarsi ogni altra Chiesa, poiché in essa si è conservata la fede apostolica» (Sant’Ireneo, Vescovo di Lione); «Essi non pensano che debbano trattare con i Romani, la cui fede fu lodata dalla gloriosa testimonianza dell’Apostolo, e presso i quali l’errore non può trovare alcun accesso» (San Cipriano); «Solo presso di voi [il Papa] si conserva inalterata l’eredità dei padri» (San Girolamo). In realtà tali assunti non dimostrano scientificamente che la Chiesa di Roma, con a capo il Successore di San Pietro è infallibile, poiché non sono supportati da alcuna analisi delle fonti. Nel caso dell’incidente di Antiochia è interessante notare, che esso non è mai stato utilizzato dagli storici col fine di trattare con spirito critico tale tesi, peraltro sancita come dogma con la Costituzione dogmatica Pastor Aeteruns, il 18 luglio 1870.

La consegna delle chiavi a Pietro, miniatura dell'XI secolo, Bayrische Staatsbibliothek (München)

La consegna delle chiavi a Pietro, miniatura dell’XI secolo, Bayrische Staatsbibliothek (München)

La Costituzione dogmatica Pastor Aeternus, con riferimento all’infallibilità papale recita: « Perciò Noi, mantenendoci fedeli alla tradizione ricevuta dai primordi della fede cristiana, per la gloria di Dio nostro Salvatore, per l’esaltazione della religione Cattolica e per la salvezza dei popoli cristiani, con l’approvazione del sacro Concilio proclamiamo e definiamo dogma rivelato da Dio che il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando esercita il suo supremo ufficio di Pastore e di Dottore di tutti i cristiani, e in forza del suo supremo potere Apostolico definisce una dottrina circa la fede e i costumi, vincola tutta la Chiesa, per la divina assistenza a lui promessa nella persona del beato Pietro, gode di quell’infallibilità con cui il divino Redentore volle fosse corredata la sua Chiesa nel definire la dottrina intorno alla fede e ai costumi: pertanto tali definizioni del Romano Pontefice sono immutabili per se stesse, e non per il consenso della Chiesa. Se qualcuno quindi avrà la presunzione di opporsi a questa Nostra definizione, Dio non voglia!: sia anatema».
Il prof. Brunerio Gherardini esplica il significato dell’infallibilità papale come segue: « [Il Papa] può dunque ad essa [infallibilità] appellarsi quando intende obbligare il cristiano nell’ambito della fede e della morale. È anche da aggiungere che, da tutto l’insieme dell’intervento papale e dalle parole che l’esprimono, deve risultare, unitamente al rispetto delle indicate condizioni, la volontà del Papa di definire una verità come direttamente o indirettamente rivelata, oppure di dirimere una questione “de fide vel moribus”, con cui tutta la Chiesa dovrà poi uniformare il proprio insegnamento e coordinare la propria prassi […]».
In sede di conclusione sarà dimostrato che nulla dimostra che le intenzioni di Pietro, nei fatti denunziati da Paolo ad Antiochia, non fossero quelle summenzionate.

Per comprendere la lettura che la Chiesa dà dell’incidente di Antiochia è opportuno un richiamo al concetto di “esegesi”. Il termine deriva dal greco exégesis ed è usato da Tucidide col significato di «racconto, esposizione», da Polibio col significato di «spiegazione, commento», da Platone col significato di «interpretazione». L’etimologia del termine corrisponde maggiormente all’uso dei due ultimi autori citati; infatti, il termine deriva da un verbo greco (exegéomai) che propriamente significa «condurre fuori», e metaforicamente «esporre, narrare, descrivere», ossia «interpretare, spiegare». Si può notare che il verbo ha la preposizione ek (ex davanti a vocale): da ciò si evince che nello spiegare si estrapola da un testo il suo significato (ek/ex corrisponde al nostro «da», ossia provenienza, moto da luogo).
La Pontificia Commissione Biblica, nel documento L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, afferma che «il problema dell’interpretazione della Bibbia non è un’invenzione moderna, come talvolta si vorrebbe far credere. La Bibbia stessa attesta che la sua interpretazione presenta varie difficoltà. Accanto a testi limpidi contiene passi oscuri […]Il problema è perciò antico, ma col passar del tempo si è accentuato: venti o trenta secoli separano ormai il lettore dai fatti e detti riferiti nella Bibbia, e questo non manca di sollevare varie difficoltà. D’altra parte, a causa del progresso delle scienze umane, i problemi concernenti, l’interpretazione sono divenuti nei tempi moderni più complessi. Sono stati messi a punto metodi scientifici per lo studio di testi dell’antichità. In che misura questi metodi si possono considerare appropriati all’interpretazione della Sacra Scrittura? A questo interrogativo, la prudenza pastorale della Chiesa ha per molto tempo risposto in modo molto reticente, perché spesso i metodi, nonostante i loro elementi positivi, si trovavano legati a opinioni opposte alla fede cristiana.[…]» Ciò obbliga a porsi un quesito: dunque le moderne metodologie di ricerca sono da considerarsi valide solo se confermino la dottrina ufficiale della Chiesa Cattolica?

Pietro e Paolo in una incisione del IV secolo in una catacomba

Pietro e Paolo in una incisione del IV secolo in una catacomba

Nel summenzionato documento, la Pontificia Commissione Biblica asserisce che taluni, in seno alla Chiesa, si dichiarano contrari all’esegesi scientifica asserendo che essa «[…] ha il risultato di provocare perplessità e dubbi su innumerevoli punti, fino allora pacificamente ammessi e che spinge alcuni esegeti a prendere posizioni contrarie alla fede della Chiesa su questioni di grande importanza, come la concezione verginale di Gesù e i suoi miracoli, e perfino la sua risurrezione e la sua divinità. Anche quando non porta a tali negazioni, l’esegesi scientifica si caratterizza, secondo loro, per la sua sterilità in ciò che concerne il progresso della vita cristiana. Invece di permettere un accesso più facile e più sicuro alle fonti vive della Parola di Dio, fa della Bibbia un libro chiuso, la cui interpretazione sempre problematica richiede una competenza tecnica che ne fa un campo riservato a pochi specialisti […]».
A parere di chi scrive, la risposta al quesito posto poc’anzi è: per la Chiesa Cattolica, effettivamente le moderne metodologie scientifiche se applicate all’esegesi biblica sono valide solo se confermano la spiegazione che delle scritture, fornisce la Chiesa stessa. Infatti, il documento in questione prosegue affermando che «[…] La Pontificia Commissione Biblica vuole indicare le strade da percorrere per arrivare a un’interpretazione della Bibbia la più fedele possibile al suo carattere insieme umano e divino. Non si ha qui la pretesa di prendere posizione su tutte le questioni che riguardano la Bibbia, come ad esempio, la teologia dell’ispirazione. Si propone di esaminare quei metodi che possono contribuire efficacemente a valorizzare tutte le ricchezze contenute nei testi biblici, affinché la Parola di Dio possa diventare sempre di più il nutrimento spirituale dei membri del suo popolo, la fonte, per essi, di una vita di fede, di speranza e d’amore, come pure una luce per tutta l’umanità […]». I criteri interpretativi della Bibbia sono: metodo storico-critico, approcci attraverso le scienze umane, analisi retorica, analisi narrativa, analisi semiotica, approccio canonico, approccio basato sulle tradizioni interpretative giudaiche, approccio attraverso la storia degli effetti del testo, interpretazione dipendente dalla mentalità e dalle preoccupazioni dei lettori, lettura fondamentalista.

Di tali criteri interpretativi, gli ultimi tre non appaiono fondati su alcuna base scientifica e anzi, sono completamente opinabili e inutili per la ricostruzione della verità storica, il cui concetto sarà esplicato più avanti. Si tratta, infatti, di criteri che si basano fondamentalmente sulle reazioni provocate nei lettori e su una comprensione del testo biblico che ignora i riferimenti storici. Se dunque la Chiesa utilizza tali criteri per corroborare la tesi secondo la quale l’incidente di Antiochia non dimostrerebbe la fallibilità di Pietro e quindi dei suoi successori, qualunque tesi scaturisse da tale argomentazione, sarebbe dubbia e imprecisa. Riguardo, invece, il metodo storico-critico, il documento L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa spiega che esso consiste in un insieme di principi e criteri, propri della filologia e dell’esegesi (o ecdotica) che si adopera per risalire all’originale forma e significato di un testo (esempio, biblico) che, eventualmente, si presenti nei diversi manoscritti in forme non uguali. Esso si appella a diverse scienze e spesso richiede la collaborazione di esperti di diverse discipline. Esso non elude la problematica della scientificità dell’esegesi biblica secondo la prassi cattolica, giacché rappresenta comunque, soltanto un criterio di interpretazione del testo, finalizzato a permettere all’esegeta, soprattutto nello studio critico della redazione dei testi, di meglio comprendere il contenuto della rivelazione divina e dunque di corroborare una specifica tesi teologica.
Il medesimo documento magisteriale prosegue esplicando gli altri criteri interpretativi come segue. L’approccio attraverso le scienze umane, tra cui la storia, non fornisce mai verità definitive. La verità non è da ritrovare, quasi fosse nascosta da qualche parte, perché il passato storico non è un oggetto definito, che è possibile “scoprire”, come si scopre una statua compiuta, ma ancora nascosta da un velo. Il passato storico, la storia, è una pluralità, una molteplicità di processi – concatenazioni di eventi, trasformazioni materiali, storie vissute, idee e sentimenti – da ricostruire, da conoscere interrogando le fonti. La sua conoscenza potrà farsi via via più ricca e ravvicinata, quanto meglio siamo in grado di conoscere e interrogare le nostre fonti. Ma quella conoscenza non avrà mai un punto di arrivo definitivo. Non ci porterà a scoprire il passato “come veramente è stato”, non ci restituirà la totalità del passato. Ma ci permetterà di costruire un racconto del passato, che per quanto relativo nella sua valenza conoscitiva, sarà il meno lontano possibile alla realtà del passato.

L’analisi retorica e l’approccio canonico hanno lo scopo di persuadere il lettore ad apprendere gli insegnamenti teologici del testo biblico. L’approccio narrativo, invece, propone un metodo di comprensione e di comunicazione del messaggio biblico che corrisponde alla forma del racconto e della testimonianza, modalità fondamentale della comunicazione tra persone umane, caratteristica anche della Sacra Scrittura. Tale criterio, secondo la prassi ecclesiastica, deve evitare di escludere ogni elaborazione dottrinale dei dati contenuti nei racconti della Bibbia, nel quale caso si troverebbe in disaccordo con la stessa tradizione biblica, che pratica questo genere di elaborazione, e con la tradizione ecclesiale, che ha continuato in questa strada.
Infine, le tradizioni giudaiche antiche permettono, in particolare, di meglio conoscere i Settanta, Bibbia giudaica, divenuta poi la prima parte della Bibbia cristiana almeno durante i primi quattro secoli della Chiesa e in Oriente fino ai nostri giorni. La letteratura giudaica extra canonica, chiamata apocrifa o intertestamentaria, abbondante e diversificata, è una fonte importante per l’interpretazione del Nuovo Testamento.

Il fine del presente contributo è l’analisi storica dell’incidente di Antiochia col fine di dimostrare l’infondatezza scientifica del dogma dell’infallibilità del Papa. Per far ciò si ricorrerà alla metodologia della ricerca storica, la quale richiede la neutralizzazione di qualsivoglia giudizio di valore ed espressione di emotività o sentimento religioso. Tale neutralizzazione non viene operata dai criteri interpretativi del testo biblico summenzionati e utilizzati dalla Chiesa, inoltre questi criteri non sono in grado, per la loro stessa natura, di fornire verità definitive e incontrovertibili, come del resto la metodologia della ricerca storica, tuttavia ciò significa che nemmeno la Chiesa è in grado di dimostrare al di là di ogni ragionevole dubbio l’infallibilità del Papa.

Pietro e Paolo, di El Greco

Pietro e Paolo, di El Greco

La fonte primaria dell’Incidente di Antiochia è la Lettera ai Galati di Paolo. La lettera fu scritta tra il 54 e il 57 d.C., successivamente alla conferenza di Gerusalemme datata 49 d.C. Al tempo del terzo viaggio missionario di Paolo, probabilmente Efeso o a Corinto, taluni missionari cristiani convertiti dall’ebraismo predicavano in Galazia una spiritualità legata all’osservanza della Legge mosaica e della circoncisione. Tale osservanza era adottata dai membri di molte chiese. Ciò rese necessario un intervento epistolare di Paolo, la Lettera ai Galati per l’appunto.
Dopo alcune righe introduttive, Paolo inizia a narrare l’episodio di Pietro che era venuto a trovarlo ad Antiochia: « Ma quando Cefa (Pietro) venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché evidentemente aveva torto. Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. E anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione, al punto che anche Barnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia. Ora quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del Vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: “Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?”» (Gal 2.11–14).
La Chiesa, nell’anno 2008, tramite il pontefice allora regnante Benedetto XVI, diede la seguente spiegazione del suddetto episodio: «[…] Pietro condivideva la mensa con gli uni e con gli altri; ma con l’arrivo di alcuni cristiani legati a Giacomo, “il fratello del Signore” (Gal 1,19), Pietro aveva cominciato a evitare i contatti a tavola con i pagani, per non scandalizzare coloro che continuavano ad osservare le leggi di purità alimentare; e la scelta era stata condivisa da Barnaba. Tale scelta divideva profondamente i cristiani venuti dalla circoncisione e i cristiani venuti dal paganesimo. Questo comportamento, che minacciava realmente l’unità e la libertà della Chiesa, suscitò le accese reazioni di Paolo, che giunse ad accusare Pietro e gli altri d’ipocrisia: “Se tu che sei giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei giudei?” (Gal 2,14) […]».

Siffatta spiegazione è viziata da un evidente giudizio di valore e travalica i dettami della metodologia della ricerca storica, pertanto si ritiene opportuno evidenziarne l’inaffidabilità scientifica.
Sostanzialmente, la metodologia della ricerca storica si articola in quattro fasi che dovrebbero portare a una conclusione:
1 fase – definizione del campo di ricerca, titolo dell’argomento da trattare, formulazione della domanda.
2 fase – ricerca di documenti originali e non, ricerca bibliografica la più possibile completa, ricerca di testimonianze scritte o orali in caso di testimoni viventi. Si dovrà cercare di costruire un quadro quanto più completo e chiaro possibile. In questa fase si farà visita a biblioteche pubbliche e private, archivi e musei.
3 fase – analisi, interpretazione del materiale raccolto. Prestare attenzione al materiale falso o non attendibile. In questa fase occorre un pressante ricorso alla critica.
4 fase – stesura e pubblicazione dei risultati della ricerca. Il risultato di una ricerca storica non è mai definitivo, ma semplicemente provvisorio, sempre pronto a essere rivalutato, corretto e aggiornato, giacché la storia è una continua esplorazione. In una ricerca storica è imperativo citare sempre note, fonti e dati reperibili affinché altri possano ricostruire le tappe che hanno portato lo studioso alle conclusioni alle quali è giunta con la propria ricerca.

Orbene, trattare secondo siffatta metodologia l’incidente di Antiochia significa trattarlo come la semplice narrazione di un episodio tralasciando cosa esso insegna teologicamente. In tal modo si risponderà al quesito iniziale. In altre parole: non ha nessuna importanza cosa Dio voglia insegnare ai fedeli con la trasmissione dell’episodio biblico in questione, giacché occorre procedere dall’assunto dell’inesistenza di Dio poiché non scientificamente provata. Da ciò si deduce come sopra esposto, che l’esegesi biblica altro non è che un criterio interpretativo fra i tanti, di un testo letterario al pari di qualsiasi opera ad esso contemporanea.
Per rispondere al quesito iniziale della presente ricerca, il testo in analisi va interpretato tenendo presente che rappresenta l’unica fonte circa l’incidente di Antiochia ed è scritto in lingua corrente. Ciò significa che non necessità di interpretazione filologica o semantica. Dalla lettura dell’episodio narrato da Galati 2.11–14 si evince quanto segue:
a – Pietro aveva torto, ponendo in essere un comportamento in contrasto con i dettami della sua stessa fede, poiché fino all’arrivo di Giacomo e del gruppo dei cristiani che ancora seguivano le leggi ebraiche, aveva condiviso la mensa con i pagani. Dopo questo momento smise la condivisione di cui sopra per paura;
b – Pietro pose in essere un comportamento ipocrita e opportunista;
c – gli altri giudei lo imitarono in siffatto comportamento;
d – Paolo lo rimproverò davanti all’assemblea, così come il Cristo aveva prescritto di fare in caso di correzione dell’errore di un fratello nella fede (cfr. Matteo 18,15-17).

Se il Papa è infallibile quando intende obbligare il cristiano nell’ambito della fede e della morale e la volontà del Papa dev’essere quella di definire una verità come direttamente o indirettamente rivelata, oppure di dirimere una questione “de fide vel moribus”, con cui tutta la Chiesa dovrà poi uniformare il proprio insegnamento e coordinare la propria prassi; stante il tema in argomento, occorre stabilire se il comportamento di Pietro fu attuato con le suddette intenzioni. A parere di chi scrive, il comportamento di Pietro fu attuato con tali intenzioni, giacché dalla lettura del passo biblico narrante l’incidente di Antiochia appare che i giudei presenti seguirono l’esempio fornito da Pietro. Nulla fa supporre che considerassero errato un tale comportamento, il che rende plausibile che Pietro, ivi presente, non solo non fece nulla per correggere siffatto comportamento ma, stante la ragione che lo aveva portato a comportarsi in tal modo è probabile che avesse egli stesso incoraggiato i giudei ad imitarlo, magari mentendogli e dicendo loro che un simile comportamento era conforme all’evangelo. Ergo: egli potrebbe aver voluto obbligare costoro ad attuare un comportamento nell’ambito della fede giustificandolo con la divina rivelazione. Il problema è che tale comportamento era erroneo. La chiesa non può affermare al di là di ogni ragionevole dubbio il contrario. Il che significa che la tesi dell’infallibilità del Papa è totalmente infondata. In caso contrario, Pietro non avrebbe potuto errare come fece ad Antiochia. Ciò fornisce la dimostrazione storica della fallacità del dogma dell’infallibilità del Papa fino a quando non sarà dimostrato, fonti alla mano, il contrario.

 

 

Per saperne di più

La storia contemporanea e le sue fonti; 2003 (consultato 29 agosto 2015). Disponibile all’indirizzo http://www.archiviodistato.firenze.it

Mons. Brunero Gherardini, su canonizzazione e Infallibilità; 2012 (consultato 29 agosto 2015). Disponibile all’indirizzo http://chiesaepostconcilio.blogspot.it

Coggi, Roberto,  La Chiesa - Bologna ESD, 2002.

Concilio Vaticano I, Cost. dogm. Pastor Aeternus, c. 4: DS3074

La Bibbia di GerusalemmeBologna EDB, 2009

Benedetto XVI, Udienza Generale Aula Paolo VI Mercoledì, 1° ottobre 2008 (consultato 29 agosto 2015). Disponibile all’indirizzo http://www.vatican.va

L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa; 1993 (consultato 29 agosto 2015). Disponibile all’indirizzo http://www.vatican.va

Vidotto, Vittorio, Guida allo studio della storia contemporanea – Roma, Editori Laterza, 2009