LIBANO E SIRIA: LE CAUSE DELLA CRISI

di Massimo Iacopi –

 

Ragioni di tipo endogeno e connesse con la struttura statale sono all’origine delle situazioni di crisi vissute nei due Paesi fin dalla fine della Seconda guerra mondiale. Il Libano si è sempre salvato grazie al formidabile dinamismo della sua popolazione e ai suoi legami con le varie diaspore. La Siria, che per molti aspetti gli assomiglia, vive invece il punto più basso di uno sfacelo strutturale causato da un decennio di guerra civile.

Il Libano e i patti  non scritti

Il mandato francese della Siria e del Libano nel 1922

Il mandato francese della Siria e del Libano nel 1922

Il Libano sin dalla nascita si è trovato alle prese con diversi problemi. Le frontiere, tracciate dalle Nazioni Unite, delimitano uno spazio troppo vasto per le sue possibilità politico-amministrative, supremo paradosso per un paese che non è più grande di una regione italiana. In effetti, se la vecchia entità politica della Montagna (il Monte Libano, Jabal Lubnan) rispondeva, alla sua costituzione, a una qualche logica, la creazione del Libano,con l’aggiunta delle città costiere, della valle della Bekaa e della regione di Tiro, nel sud, ha posto, sin dall’inizio, evidenti problemi di omogeneità.
Nel 1943, gli 800 mila abitanti appartenenti a diverse confessioni, suddivisi in parti uguali fra mussulmani e cristiani (con una predominanza maronita pari 33% della popolazione libanese), dovettero inventare un destino comune. Sotto l’impulso del maronita Beshara el Khoury (1890-1964), presidente della Repubblica libanese, ma ostile al mandato francese, i principali uomini forti del Libano firmarono, proprio nel 1943, un patto nazionale segreto, che sarà applicato nel 1946 al momento dell’evacuazione degli ultimi soldati francesi, dopo 28 anni di mandato. Questo patto non scritto, che non figurerà mai nella Costituzione libanese, ripartiva i principali mandati politici fra maroniti (Presidenza della Repubblica), sunniti (Presidenza del Consiglio dei Ministri) e sciiti (Presidenza del Parlamento). I Drusi si erano volontariamente esclusi da questa spartizione del potere. In tal modo, il fallimento del modello libanese è, in primo luogo, quello di uno Stato fragile, costituito sulla base di compromesso aleatorio e legato a una situazione egemonico-demografica contingente. Il giornalista libanese George Naccache aveva scritto già nel 1949: «quello che viene chiamato lo Stato non è altro che questa immonda fiera, aperta alle imprese dei più insolenti avventurieri che hanno messo a saccheggio i beni della Nazione». Più avanti aggiungeva in maniera premonitoria: «Il regime attuale dell’Indipendenza è condannato, per mantenersi, ad una perpetua violenza».
In effetti, le affermazioni di Naccache facevano riferimento al rifiuto, contenuto nel famoso patto nazionale del 1943, di scegliere fra l’Oriente e l’Occidente, fra arabismo e modernità. Il Libano, nell’impossibilità di determinare la sua via, è diventato così il ventre molle dell’Oriente in ebollizione. Il nuovo Stato si trasforma, già da allora, in una sorta di paradigma della globalizzazione finanziaria, dal momento che l’attività bancaria risultava la sola risorsa del Paese e che la sopravvivenza economica era legata al successo o meno di quelle acrobazie finanziarie che ne hanno poi determinato la sua crisi (in Libano sono le banche private che forniscono alla Banca Centrale il necessario per emettere la moneta). Nonostante un ambiente regionale complicato – aggravato dalla creazione dello Stato di Israele, che dal 1948, provoca l’afflusso nel paese di ben 120 mila Palestinesi e l’agitazione nazionalista araba degli anni ’50 – il sistema ha apparentemente dimostrato una resilienza fuori dal comune. Ma gli Accordi del Cairo del 1969 sono stati, in realtà, l’annuncio della disintegrazione dello Stato, che sarebbe avvenuta qualche anno più tardi. La presenza palestinese dal 1948 nel sud del Libano era diventata un vero problema. Con la costituzione di un ridotto palestinese nel Libano, il Paese di Cedri viene ad essere coinvolto nel conflitto con Israele, provocando l’implosione dello Stato.
Aggravato dal comunitarismo religioso che travaglia la società libanese, lo smembramento potenziale dello Stato a vantaggio delle comunità e delle grandi famiglie che lo compongono (Gemayel, Jumblatt, Hariri) diventerà la regola, proprio nel momento in cui la dirigenza del Paese, che gestiva il sistema, si è mostrata priva di spirito civico, praticando un opportunismo selvaggio nella conquista del potere. Nel 1975, la crisi si trasforma in scontro sanguinoso, le cui prime vittime saranno proprio lo Stato e l’esercito libanese. Dopo 15 anni di guerra civile, la fine della Guerra fredda segnerà anche la fine del conflitto libanese, che ha prodotto circa 150 mila morti.
Ancora oggi, specie in Francia, si ostinano ad affrontare il problema del Libano in maniera “romantica” e soprattutto fuori dal contesto geografico e storico. Nel 2020, il Libano non è più quello delle Crociate, ma, soprattutto non ha più nulla a che vedere con quello del mandato francese: la popolazione cristiana maronita, sulla quale si appoggiava la Francia rappresentava allora il 33% della popolazione e i Cristiani il 50%. Il loro tasso di crescita risultava, a quel tempo, ancora elevato e quindi lo strato francofono della popolazioni in espansione. Oggi il Libano, nonostante l’assenza di un censimento dal 1932, risulta rappresentato da una maggioranza di sciiti (40%), da una maggioranza assoluta mussulmana e da Cristiani in perdita di spinta demografica, per effetto dell’emigrazione e di un certo malthusianesimo (1). Per quanto concerne la caratteristica francofonia del Paese, oggi si assiste a un declino profondo fra i “clienti abituali” della Francia; le classi dirigenti libanesi, sia sunnite, sia cristiane, hanno optato da più di 20 anni per il sistema anglosassone. Paradossalmente, oggi, la richiesta di studio della lingua francese proviene ancora dalla comunità sciita, ma saldamente insediata nell’Africa dell’ovest…
Attualmente, tutte le crisi hanno al centro il problema istituzionale. Sfortunatamente, la questione risulta ancora lontana dall’essere risolta. Mettere fine al confessionalismo potrebbe sembrare, in apparenza, una buona soluzione. In realtà, essa provocherebbe la fine del Libano attuale. I Cristiani diventerebbero una vera minoranza (dal momento che il presidente libanese è ancora in maniera tacita, nel sistema attuale, un cristiano). E quando si prende in considerazione il rapporto di forze demografico, l’ipotesi di uno stato controllato dagli sciiti potrebbe diventare una realtà a medio termine. Una situazione che nessuno vuole, né Israele, né gli USA, né l’Arabia Saudita.
Questo fosco quadro ha conosciuto, nondimeno, una buona notizia negli ultimi tempi: il gas offshore nel Libano non ha fornito, per il momento, i risultati sperati. I giacimenti di gas esistono effettivamente come previsto dalla sismica, ma le condizioni del “contenitore”, vale a dire la porosità e la permeabilità della formazione geologica risultano insufficienti. Insomma manca solo che il Libano, sia attaccato anche dalla “malattia olandese” (2).

Siria, lo Stato fantasma

La questione istituzionale e dello Stato risulta altrettanto importante nel caso siriano che, nel caso specifico, viene indicato in Occidente come “Stato siriano” o soprattutto come “Regime siriano”. Gli uomini politici e i giornalisti che hanno preso l’abitudine di utilizzare questo termine non si rendono conto di partecipare ad una deliberata azione di delegittimazione, che si concreta spesso con la negazione di colui che incarna il potere, il presidente siriano, qualificato come “macellaio” o come “mostro”. Non si tratta di fare, in questo contesto, una difesa d’ufficio del “regime” siriano, ma, piuttosto, di presentarne una visione con molti contrasti, in un contesto che risale agli anni ’80, e nella quale lo Stato è diventato, in un certo senso, il nemico da abbattere. La Siria può essere definito una specie di “Stato zombie”, che si è mantenuto in piedi nonostante la grave rimessa in discussione delle sue prerogative, attuata attraverso l’uso sistematico della violenza armata a livelli mai conosciuti in precedenza.
Con gli anni 2000, la relativa liberalizzazione dell’economia siriana e la sua apertura alla globalizzazione hanno gravemente danneggiato una parte dei fondamenti dello Stato siriano che, in tal modo, si è alienato una fascia della sua clientela abituale. Agli inizi degli anni ’70, esso poteva appoggiarsi su una base proveniente dalle zone rurali, grazie al sistema delle cooperative agricole, ispirate al modello socialista. Ma saranno proprio queste zone – largamente sunnite – che pagheranno le spese dell’apertura alla globalizzazione e al disimpegno dello Stato. Questa evoluzione, associata ad altri fattori e al contesto di un mondo arabo in preda a inediti sussulti, innesca la ribellione del 2011. La resilienza dello Stato siriano si spiega, per contro, col sostegno delle minoranze e della borghesia urbana, che è rimasta solida e ha indubbiamente impedito il crollo brutale del sistema.
Cosa rimane oggi di questo Stato dopo 10 anni di conflitto e cosa rimane delle strutture impiantate dal partito Baath? La questione può essere esaminata secondo tre livelli di analisi: politica, militare e territoriale. Lo sconvolgimento del quadro politico è stato spettacolare e molto poco commentato all’estero: nel contesto della crisi estrema a cui è andata incontro la Siria, le evoluzioni costituzionali sono state importanti, anche se la cornice di sicurezza generale impedisce ancora di vederne tutti i suoi effetti.
In primo luogo il Partito Baath ha perso il suo monopolio sulla vita politica siriana ed è stato ufficialmente introdotto il multipartitismo nella nuova Costituzione del 2012. Dalla primavera seguente (maggio 2012), si sono tenute le prime elezioni legislative multipartitiche, durante le quali il tasso di partecipazione ha raggiunto il 52%. Due terzi dei seggi sono stati conquistati da una coalizione di partiti denominata “Unione Nazionale” (comprendente anche il partito Baath), un terzo è da deputati indipendenti. Al di là del multipartitismo, conviene segnalare un certo numero di elementi importanti: la giurisprudenza islamica acquisisce lo statuto di fonte essenziale della legislazione; l’idea di “libertà religiosa” è stata sostituita dalle formule come “benessere personale” o “protezione e rispetto dei gruppi religiosi”.
Le elezioni dell’aprile 2016 e del 2020 hanno visto tuttavia il partito Baath arrivare in testa, mentre alcuni candidati indipendenti, che gli ambienti vicini a Bashar el Assad avevano candidato nel 2012, sono stati battuti in entrambe le tornate fra la sorpresa generale. Molti hanno tuttavia espresso dubbi sulla trasparenza di queste elezioni. I partiti meglio strutturati, come il Baath o il Partito Sociale Nazionalista siriano, disponendo di una poderosa milizia, infiltrata largamente dal partito Baath, sono usciti vincitori. Bashar el Assad, che aveva tentato di trasformare il Baath in una guscio vuoto e di tagliare l’erba sotto i piedi dei suoi legami sindacali e popolari, non è ancora riuscito ad appoggiarsi su personalità o su strutture capaci di sostituirsi al suddetto partito.
Dal punto di vista militare, la situazione ha conosciuto notevoli evoluzioni intorno al problema sociale del monopolio della violenza. Certamente, la coabitazione fra gruppi paramilitari e l’esercito siriano non è un fatto nuovo. Ma questa disseminazione della forza da parte del governo, se da un lato appare necessaria al mantenimento del potere, dall’altro rischia di indebolire la forza armata ed i responsabili siriani sembrano esserne coscienti. Dalla fine del 2012, lo Stato ha voluto istituzionalizzare i gruppi armati, al fine di assicurarsi la loro fedeltà e per controllarli meglio: i comitati popolari sono diventati rapidamente unità delle “Forze di Difesa Nazionale”, con la consulenza di un generale di brigata come coordinatore nazionale, sullo stesso modello dei “Bassidjis” iraniani (3). L’arruolamento risulta più semplice ed economicamente più conveniente rispetto all’Esercito siriano e queste unità sono considerevolmente cresciute: nel maggio 2013, le Forze di Difesa Nazionale hanno toccato l’organico di 60 mila uomini (4).
In tale contesto, l’esercito siriano si batte regolarmente con discreto valore, sia a fianco degli Hezbollah (5), sia a fianco delle Forze di Difesa Nazionale. Se il fenomeno non costituisce una novità, l’esperienza sotto Hafez el Assad ha evidenziato i suoi limiti, come nel caso dell’esilio del fratello Rifaat el Assad (6). La stessa questione si è posta con maggiore attenzione quando si è trattato della presunta implicazione di ufficiali della Forza Al Quds (Corpo Speciale dei Pasdaran o Guardiani della Rivoluzione iraniana) contro Bashar e nella formazione e armamento dei comitati popolari. Il ruolo centrale di questa formazione potrebbe far pensare a una strategia militare decisa dall’Iran che, in ultima analisi, potrebbe sottintendere un problema, per la Siria, di effettiva sovranità.

Il numero e lo spazio

Il sistema al potere a Damasco si trova vittima, sin dalla sua origine, di due importanti contraddizioni: quella del numero e quella dello spazio.
Lo Stato baathista, proveniente da una comunità confessionale minoritaria, gli Alawiti, e governando con l’appoggio di altri gruppi minoritari, ivi compresa la borghesia sunnita, è carente di una base popolare. In tale contesto, esso è spesso costretto a negoziare oppure a colpire brutalmente quando esiste una minaccia di sopravvivenza, vale a dire per una buona parte del tempo. Questa fragilità congenita è una tradizione della storia della stabilità dello Stato siriano fin dagli anni ’60, dopo due decenni di colpi di stato e di quasi anarchia. Di fatto, da diversi anni, la contestazione avrebbe potuto soffiare da tutte le direzioni: da vecchi dirigenti emarginati, così come dall’embrione della società civile attratta dalle riforme democratiche. La contestazione proviene, in effetti, dalle popolazioni dei piccoli villaggi rurali e dalle campagne, attori sacrificati sull’altare delle riforme economiche. E tutto ciò, paradossalmente, rispetto a un partito Baath che aveva fondato il suo successo proprio sull’ambiente rurale. Quella che si è sollevata brutalmente è proprio la Siria periferica, quella dei borghi rurali abbandonati dallo Stato e sacrificata a vantaggio delle metropoli.
Questa fragilità è però anche di tipo geografico: la Siria è forse il paese del Medio Oriente peggio configurato all’interno delle sue frontiere, conseguenza del periodo mandatario. Oltre ai contrasti fra la stretta regione litoranea e la maggior parte desertica (badia) ma ricca di risorse, la situazione della maggior parte delle regioni siriane è quella di via di passaggio e di logiche territoriali che lo Stato tenta a tutti i costi di delimitare e di captare. Quanto al caos iracheno, che aveva fatto da assicurazione sulla vita per la Siria, questa situazione si è ritorta contro Damasco. Già dalle prime settimane della costituzione del califfato, Damasco aveva perduto il controllo di tutte le sue frontiere, ad eccezione di quella con il Libano, ma esso dovrà fare affidamento sull’intervento degli Hezbollah libanesi nella primavera del 2013 per salvarle in extremis.
Tutto accade come se la Siria utile, ancora controllata dal governo siriano (40% del territorio e 60% della popolazione) coincidesse quasi con il progetto politico degli anni 2000, quello di una Siria più urbana, ancorata alla globalizzazione. Ma l’attività economica è completamente ferma a causa delle sanzioni occidentali. Rimane pertanto una Siria, in cui la verticale del potere si è considerevolmente indebolita: la disseminazione dello strumento militare, le milizie di autodifesa e il funzionamento autonomo di questi territori costituiscono altrettanti elementi che giocano da forze centrifughe contro la perpetuazione degli ideali unitari Baathisti.
Per quanto concerne la repressione che si è esercitata sui territori o nei quartieri ribelli, essa ha fatto in qualche modo la cernita fra quelli che accettano questo ordine “ingiusto” e quelli che gli preferiscono l’ordine “giusto”. Una cernita impietosa, che per alcuni significa che non potranno più fare ritorno alle proprie abitazioni. Tutto sommato, una situazione che non dispiace a Damasco, che non ha alcuna interesse di vederli rientrare. Le elezioni del maggio 2021 hanno riconfermato al potere Bashar el Assad.

Note

(1) Il malthusianesimo è una dottrina economica che, rifacendosi all’economista inglese Thomas Malthus, attribuisce principalmente alla pressione demografica la diffusione della povertà e della fame nel mondo, cioè, in sostanza, allo stretto rapporto esistente tra popolazione e risorse naturali disponibili sul pianeta. In questo contesto le società toccate dal benessere assumono un atteggiamento di autodifesa, limitando le nascite.

(2) L’hanno chiamata la “malattia olandese” o “malattia delle risorse”. Si manifesta nel processo di deindustrializzazione, che può derivare dall’improvvisa fortunata scoperta di una risorsa naturale. L’hanno battezzata così in Olanda negli Anni Sessanta, dopo il rinvenimento di enormi giacimenti di gas naturale. Il termine viene utilizzato per descrivere una condizione in cui l’economia di un paese viene danneggiata, proprio a seguito dell’aumento del suo reddito. Questo termine prende in effetti il nome da un evento nei Paesi Bassi negli anni ’60 in cui furono scoperte grandi quantità di gas naturale. La malattia olandese, in fin dei conti, porta a una mancanza di competitività in altri mercati ed il paese inizia a fare affidamento sulle importazioni. In definitiva, l’espressione si applica ad ogni situazione in cui un paese diventa improvvisamente più ricco ed a causa della nuova ricchezza, lo stesso paese inizia a soffrire in altre setori economici.

(3) Il Niruyeh Moghavemat Basij (« forza di mobilitazione della resistenza »), correntemente chiamato il Bassidj (trascritto anche in Basij, il termine persiano significa « mobilitato »), costituisce una forza paramilitare iraniana che è stata fondata dall’ayatollah Khomeini nel novembre 1979, per rinforzare con giovani volontari popolari le truppe d’élite durante la guerra Iran-Iraq.

(4) Penfentenyo, Cedric de, Survivre c’est vaincre. Les milices loyalists en Syrie - Editions de l’Ecole de guerre, Parigi 2018.

(5) Hezbollah o Ḥizb Allāh (in arabo: lett. “Partito di Dio”) è un’organizzazione paramilitare islamista libanese, nata nel giugno del 1982 e divenuta successivamente anche un partito politico islamista sciita del Libano. Ha la sua sede nel Libano ed il suo segretario generale è Hassan Nasrallah (1960 – ), succeduto ad Abbas Al-Musawi (1952, morto a 39 anni), a causa della morte di quest’ultimo nel 1992. Grazie al supporto iraniano, la forza dell’ala paramilitare di Hezbollah è cresciuta a tal punto nel corso degli anni, tanto da essere considerata più potente dell’esercito regolare libanese ed è stata testata in maniera continua a partire dall’inizio della guerra civile siriana, dove Hezbollah è sceso in campo come alleato fondamentale per il governo di Bashar al-Assad.

(6) Rifaat al Assad (nato nel 1937, fratello di Hafez) è stato alla testa di un gruppo paramilitare denominato Saraya al Difaa (Compagnia di Difesa). Egli ha dovuto, in seguito, prendere il largo, dietro lauto compenso finanziario, al fine di non minacciare il potere di suo fratello.