L’ESPERIMENTO NELLA “PRIGIONE” DI STANFORD

di Renzo Paternoster -

 

 

Nel 1971 un giovane psicologo avvia nel seminterrato dell’Università di Stanford in California un esperimento che passerà alla storia. Dopo solo sei giorni, l’esperimento, che dovrebbe spiegare le dinamiche carcerarie, va fuori controllo e viene fermato. Inizialmente applaudito negli ambienti scientifici, è stato poi criticato per la mancanza di eticità e per i vizi procedurali che ne hanno compromesso i risultati.

 

Tra febbraio e marzo del 1963, la storica e filosofa tedesca naturalizzata statunitense Hannah Arendt scrisse cinque articoli per conto della rivista “The New Yorker” sul processo che si stava svolgendo a Gerusalemme al nazista Otto Adolf Eichmann, incriminato con quindici capi d’accusa suddivisi in quattro categorie: crimini contro il popolo ebraico, crimini contro l’Umanità, crimini di guerra e appartenenza a un’organizzazione criminale. Nello stesso anno i cinque articoli con integrazioni divennero un saggio: Eichmann in Jerusalem. A Report on the Banality of Evil.
Arendt descrisse Eichmann come una persona con incapacità di pensiero razionale che, in un’ottica di obbedienza acritica e di totale mancanza di consapevolezza riguardo le conseguenze delle proprie azioni, seguiva le leggi e i comandi incondizionatamente, ritenendoli giusti. Per questo Eichmann divenne agli occhi della filosofa l’incarnazione della “banalità del male”.

L'inserzione sul giornale.

L’inserzione sul giornale.

Sulla scia del costrutto arendtiano della “banalità del male”, nel 1971 un giovane professore di psicologia dell’università di Stanford in California, Philip Zimbardo, attraverso un esperimento cerca di comprendere in che modo potenti fattori situazionali possono condizionare il comportamento di persone comuni, a tal punto da indurle a compiere azioni malvagie.
Zimbardo, dopo aver ottenuto l’approvazione dell’Università di Stanford e un finanziamento dell’Office of Naval Research, dipartimento della Marina statunitense, crea all’interno della Stanford University una prigione fittizia, per studiare il comportamento di alcuni volontari che assumono il compito di essere guardie o detenuti.
Ricercatori dell’esperimento, oltre Philip Zimbardo, sono Craig Haney, W. Curtis Banks, David Jaffe, tutti psicologici. Per la riuscita del test, Zimbardo si avvale anche di un consulente, Carlo Prescott, ex detenuto della prigione di San Quintino.
Agli inizi di agosto è pubblicato un annuncio sul “Palo Alto Times” e sul “The Stanford Daily”: «Cercasi studenti maschi per uno studio psicologico sulla vita carceraria. 15 dollari al giorno per una o due settimane a partire dal 14 agosto».
Rispondono in 75 e tutti sono sottoposti a colloqui diagnostici e test della personalità per eliminare i candidati con problemi psicologici, disabilità mediche o con precedenti di criminalità o abuso di droghe. Sono così selezionate 24 persone, tutte bianche e tutte giudicate fisicamente e mentalmente stabili e meno coinvolte in comportamenti antisociali.
In un incontro preliminare i 24 candidati sono divisi casualmente in 10 “prigionieri”, 11 “guardie” e tre riservisti. A tutti è detto che il test avrebbe avuto una durata di due settimane.
La mattina del 17 agosto 1971, di domenica, i candidati con il ruolo di detenuti sono “catturati” come si fa con i veri criminali: finti agenti, coadiuvati da veri poliziotti della città di Palo Alto, entrano nelle loro abitazioni e, tra lo stupore del vicinato, arrestano i ragazzi. A ognuno un falso mandato d’arresto per violazione degli articoli 211 e 459 del codice penale (rapina a mano armata e/o furto con scasso). Nessuno di loro è informato dell’arresto, in modo che i ragazzi “entrino nella parte” fin dall’inizio.
Dopo aver letto loro i diritti, vengono perquisiti, ammanettati, caricati su un’auto della polizia e portati al quartier generale della polizia di Palo Alto City. Qui sono registrati, fotografati, vengono rilevate loro le impronte digitali e sono trasferiti in una cella. Dopo un po’ vengono trasportati bendati nella prigione allestita nel dipartimento di psicologia dell’Università di Stanford: un lungo corridoio, con porte e finestre sbarrate, pareti nude e piccole celle.
Poco prima degli arresti, i ragazzi col ruolo di guardie sono stati brevemente formati dall’equipe scientifica e dallo stesso Zimbardo, raccomandando loro di non usare violenza fisica e di chiamare i detenuti solo con il numero assegnato. Ognuno di loro ha ricevuto una identica uniforme color kaki, un fischietto da portare al collo, un manganello come quelli in dotazione alla polizia, un paio di occhiali da sole con lenti a specchio per rendere impossibile il contatto visivo con i prigionieri.

L'arresto.

L’arresto.

Arrivati nel finto penitenziario, i detenuti sono nuovamente perquisiti. A ognuno di loro è dato un numero, in sostituzione del proprio nome, un camice, un berretto stretto per simulare la rasatura dei capelli, dei sandali larghi in gomma. Per aumentare il grado di umiliazione a nessuno è permesso indossare biancheria intima e a ognuno è legata con lucchetto una catena attorno alla caviglia.
Dopo aver presentato loro le regole della prigione, tra cui la norma che ogni prigioniero deve essere chiamato solo con il suo numero identificativo e può riferirsi a se stesso e agli altri prigionieri solo tramite numero, i detenuti sono rinchiusi nelle celle per il resto del primo giorno dell’esperimento.
Tre guardie lavorano su tre turni di otto ore ciascuna. Tutte le guardie sono deputate con qualsiasi mezzo, escluso la violenza fisica, a mantenere la legge e l’ordine nella prigione, esigendo il rispetto dai prigionieri. I prigionieri sono liberi di comportarsi come ritengono opportuno e anche per loro vale la regola del divieto dell’uso della forza fisica.
Già durante il secondo giorno di detenzione, le guardie si immedesimano nella loro mansione e un terzo di loro si dimostra crudele, abusando del potere e disumanizzando il gruppo contrapposto: i prigionieri sono scherniti con insulti e ordini meschini, sono affidati loro compiti inutili, le flessioni sulle braccia diventano una forma comune di punizione imposta dalle guardie, la sveglia nella notte a suon di fischietto per il “conteggio”.
Così, già al secondo giorno i detenuti inscenano una protesta, strappandosi il numero identificativo, insultando le guardie, rifiutando di lasciare le celle per mangiare insieme.
Per controllare la protesta, le guardie spruzzano i detenuti con gli estintori, li fanno spogliare, eliminano i materassi dalle celle.
Dopo aver individuato i promotori della protesta, e per evitare ulteriori ammutinamenti, le guardie dividono i detenuti in “bravi” e “cattivi” e, utilizzando la strategia del “bastone e della carota”, puniscono i leader della protesta privandoli del cibo e dei materassi, mentre agli altri è permesso mangiare e usare i propri letti.
A seguito della protesta le guardie diventano sempre più severe, aumentando le umiliazioni nei confronti dei detenuti, attraverso l’obbligo di flessioni sulle braccia, vietando a qualcuno l’accesso ai bagni e costringendo a usare un secchio presente nella cella.
Il secondo giorno il detenuto numero 8612, tale Douglas Korpi, ha una forte crisi di nervi ed è subito estromesso dall’esperimento. Zimbardo sfrutta la reazione di Korpi per attestare gli effetti dei trattamenti subiti dai carcerati per mano delle guardie. Si scoprirà più tardi che Korpi stava fingendo.
Il quarto giorno dell’esperimento un altro finto detenuto, Peter Mitchell, “prigioniero 819”, abbandona l’esperimento, questa volta per un vero crollo emotivo. Mentre si preparava per lasciare la finta prigione, le guardie hanno istigato gli altri detenuti a gridare frasi offensive contro il “cattivo prigioniero 819”.
Per simulare la vita carceraria Zimbardo ha pianificato anche le visite dei familiari, permesse il quinto giorno: solo due visitatori possono incontrare un prigioniero e solo per dieci minuti alla presenza di una guardia. A seguito delle visite, molti genitori si preoccuparono per le condizioni dei loro figli, chiedendone il rilascio.
In quello stesso giorno a due osservatori esterni fu permesso di entrare nel finto carcere. Sono Gordon Howard Bower, psicologo cognitivo, e Christina Maslach, psicologa sociale. Entrambi hanno fortemente criticato l’esperimento ritenendolo eticamente immorale e viziato per l’eccessiva intromissione dei ricercatori (e dello stesso Zimbardo) sul comportamento delle guardie.
Venerdì 20 agosto, il sesto giorno, l’esperimento che avrebbe dovuto durare due settimane viene interrotto: le preoccupazioni dei genitori per le condizioni dei loro figli, le forti obiezioni di Gordon Howard Bower e Christina Maslach, il comportamento estremo e patologico emerso in entrambi i gruppi (condotta crudele delle false guardie e forte deindividuazione dei falsi prigionieri), scrivono la parola fine all’esperimento. Zimbardo riunisce i suoi collaboratori e tutti i partecipanti comunicando la cessazione del test. Una serie di incontri per condividere le esperienze, prima separati per gruppo (ricercatori, guardie e prigionieri), poi tutti insieme, completa l’esperimento.
Successivamente Zimbardo stila le sue conclusioni sotto forma di saggi brevi, poi racchiusi nel 2007 nel libro The Lucifer Effect: How Good People Turn Evil.
Nelle deduzioni finali sull’esperimento, Zimbardo e i suoi collaboratori, hanno rivelato come le persone abbiano dimostrato di essere conformi ai ruoli sociali imposti, soprattutto se questi ruoli sono fortemente standardizzati come quelli delle guardie carcerarie.

x1080L’esperimento carcerario della Stanford University è stato ampiamente contestato da alcuni ricercatori, sia per motivi metodologici sia etici. Oltre al fatto che oggi, in quelle condizioni, tale esperimento non avrebbe mai potuto essere effettuato, anche le conclusioni raggiunte dagli esaminatori non sono chiare, anzi possono risultare viziate dalla procedura adottata in corso d’opera.
Secondo alcuni la falsa prigione era un ambiente pesantemente manipolato dai ricercatori. Lo stesso Zimbardo si era trasformato in una rigida figura autoritaria, un vero e proprio sovrintendente della prigione, piuttosto che un analizzatore. Questa confusione dei ruoli ha compromesso la spontaneità del comportamento dei protagonisti dell’esperimento, pregiudicando così i risultati del test. In molte occasioni, quando la violenza psicologica di alcune guardie aveva superato i limiti, nessuno degli analizzatori è intervenuto, facendo credere a queste guardie che si poteva continuare così, dando in questo modo una tacita approvazione.
Inoltre, nessuno ha tenuto conto di due fattori: la sensazione di essere osservati potrebbe anche aver incoraggiato gli attori a dare il meglio di sé; come anche il fatto che, ricevendo una remunerazione giornaliera per il test, la maggior parte dei protagonisti probabilmente cercò di svolgere il compito assegnato con diligenza.
Anche il sistema di reclutamento è stato contestato. In primis c’è la non corrispondenza del campione degli attori alla realtà. Un test, per essere il meno possibile contestabile deve utilizzare campioni di partecipanti più grandi e diversificati (per cultura, provenienza geografica, età, titolo di studio, ambiente familiare, religione), mentre a Stanford è stato utilizzato un campione piccolo e, soprattutto, omogeneo.
Ancora. È stato contestato anche il modo del reclutamento: nell’annuncio per l’ingaggio dei partecipanti si faceva chiaramente riferimento a uno “studio psicologico sulla vita carceraria”, e questo potrebbe aver focalizzato l’attenzione di alcuni soggetti piuttosto che altri.
Thomas Carnahan e Sam McFarland, due psicologici statunitensi hanno fatto un test nel 2007: hanno ripubblicato l’annuncio originale con la frase “studio psicologico sulla vita carceraria”, poi ne hanno pubblicato un altro omettendo “vita carceraria”. Ebbene entrambi hanno dimostrato che le risposte di adesione sono risultate completamente diverse. I test psicologici che hanno compiuto su entrambi i gruppi, hanno evidenziato che chi ha risposto al primo annuncio, quello con la scritta “vita carceraria”, si è dimostrato avere livelli più alti di narcisismo, aggressività e dominanza sociale, avendo i punteggi più bassi rispetto all’altro gruppo nelle misure di empatia e altruismo.

Briefing finale con i partecipanti.

Briefing finale con i partecipanti.

Nel 2018 Thibault Le Texier, un ricercatore nel campo delle scienze sociali, contesta i risultati del test di Zimbardo. Nel suo libro Histoire d’un mensonge: enquête sur l’expérience de Stanford elenca una serie di criticità, tra cui quella riferita al fatto che all’inizio ai partecipanti è stato detto che erano liberi di lasciare l’esperimento in qualsiasi momento, mentre, in una trascrizione ritrovata da Le Texier su una discussione tra Zimbardo e i suoi collaboratori pochi giorni dopo l’inizio dell’esperimento, si legge che lo stesso Zimbardo affermava a due dei prigionieri che non avrebbero potuto lasciare il luogo se non per cause mediche.
Anche il giornalista americano Ben Blum, dopo aver studiato la storia dell’esperimento, in un articolo della raccolta Trust Issues pubblicato sulla rivista “Medium”, critica le modalità e l’esito del test.
Blum riferisce infatti le vere motivazioni della crisi di nervi di Douglas Korpi per abbandonare il test, spiegazioni rivelate dallo stesso soggetto nel 2017. Infatti Korpi, che nel frattempo è divenuto psicologo, rivela di aver finto per uscire dalla prigione per poter continuare a studiare. Si era infatti offerto volontario per partecipare all’esperimento perché credeva che nella finta prigione avrebbe avuto il tempo di studiare per sostenere un esame universitario.
Sempre Blum, in una relazione conservata negli archivi della Stanford University, rivela che le guardie, durante una riunione iniziale, furono istigate a “fare i secondini”, suggerendo loro i modi per comportarsi.
Quest’ultimo fatto è rivelato anche da Carlo Prescott, un ex detenuto afroamericano del carcere di San Quintino che nell’esperimento è un consulente esterno. Nel 2005 lo stesso Prescott testimonia sullo “Stanford Daily” che molte delle cose che i secondini avevano fatto per tormentare i carcerati erano basate sulla sua esperienza in carcere, essendo state suggerite dai ricercatori alle finte guardie. Lo stesso Prescott riferisce che durante l’esperimento spinse le guardie meno dure a essere più severe. Dunque, le guardie sono diventate “prigioniere” dell’autorità degli analizzatori, poiché il loro comportamento non è mai stato del tutto spontaneo, dunque non dettato unicamente dalla situazione, come invece ha indicato Zimbardo.
Infine, Dave Eshelman, una delle guardie più feroci, soprannominatosi “John Wayne”, in una intervista del 2011 riportata dal periodico degli ex allievi di Stanford, riferisce che il suo comportamento non fu spontaneo, ma programmato e costruito: avendo lui partecipato dalle scuole superiori a molte rappresentazioni teatrali come attore, ha riferito che era in grado di immedesimarsi in un’altra personalità prima di entrare sul palcoscenico.

Indubbiamente l’esperimento ha evidenziato genericamente che cambiamenti relativamente piccoli nelle circostanze potrebbero trasformare persone “normali” in mostri violenti e vittime ubbidienti. Tuttavia non siamo in presenza di una “banalità del male”, come ha esplicitato la filosofa Hannah Arendt, ossia di un vuoto cognitivo che trasforma le persone in zelanti esecutori del male, ma in una “banalità del bene”, ossia un pieno ideologico conforme alle aspettative personali preconcette. È questo quello che determina l’adesione al male.

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Per saperne di più
The Stanford Prison Experiment – BBC Documentary, https://www.youtube.com/watch?v=F4txhN13y6A.
The Stanford Prison Experiment. A Simulation Study of the Psychology of Imprisonment conducted August 1971 at Stanford University, (descrizione dell’andamento dell’esperimento), https://web.archive.org/web/20150906035518/https://web.stanford.edu/dept/spec_coll/uarch/exhibits/spe/Narration.pdf.
H. Arendt, Eichmann in Jerusalem. A Report on the Banality of Evil, Viking Press, New York 1963; trad. it. La Banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 2004.
P. Zimbardo, C. Haney, C. Banks, Interpersonal Dynamics in a Simulated Prison, «International Journal of Criminology and Penology, 1973, pp. 69-97.
C. Prescott, The lie of the Stanford Prison Experiment, «The Stanford Daily», April 28, 2005, https://archives.stanforddaily.com/2005/04/27?page=4&section=MODSMD_ARTICLE16#article.
T. Carnahan, S. McFarland, Revisiting the Stanford prison experiment: could participant self-selection have led to the cruelty?, «Pers Soc Psychol Bull», 33(5), pp.603-614, May 2007.
P. Zimbardo, The Lucifer Effect. Understanding how Good People Turn Evil, Random House, New York 2007.
H. Knowles, Unchaining the Stanford Prison Experiment: Philip Zimbardo’s famous study falls under scrutiny, «The Stanford Daily», November 13, 2018.
B. Blum, The Lifespan of a Lie, «Medium», Jun 7, 2018, https://gen.medium.com/the-lifespan-of-a-lie-d869212b1f62.
T. Le Texier, Histoire d’un mensonge: enquête sur l’expérience de Stanford, Éditions La Découverte, Paris 2018.
R. Paternoster, La banalità del bene. Dalla pena capitale agli stermini: la morte come progetto politico, Tralerighe, Lucca 2023.