LEONI D’AGOSTO: L’ESTATE 1914 DI
DE GAULLE, HITLER E MUSSOLINI
di Alessandro Frigerio -
Una storia comparata dei tre futuri leader di fronte allo scoppio della Prima guerra mondiale, dalla fine della primavera 1914 all’attentato a Sarajevo, fino ai primi scontri sul fronte occidentale.
(da “Nuova Storia Contemporanea”, n 5, 2014. Per gentile concessione dell’editore Le Lettere)
Il primo conflitto mondiale ha rappresentato un’esperienza “formativa” fondamentale per un’intera generazione di uomini nati negli ultimi due decenni del XIX secolo. Nelle trincee europee hanno trovato la morte milioni di giovani soldati coinvolti in una dimensione bellica a loro del tutto estranea e nella maggior parte dei casi subìta sotto forma di coscrizione obbligatoria. Ha aperto ferite, provocato traumi fisici, mentali e politici, tanto a livello individuale quanto sul piano collettivo. E in quelle trincee hanno fatto esperienza uomini a cui la storia avrebbe offerto nel giro di un arco di tempo variabile dai pochi anni a qualche decennio posizioni di rilievo e di leadership nei rispettivi Paesi.
Qui vogliamo prendere in considerazione l’approccio al conflitto di tre di quei giovani soldati: Charles De Gaulle, Adolf Hitler e Benito Mussolini. L’idea che ci ha mosso è sostanzialmente quella di uno studio comparato, che segua le modalità di coinvolgimento di questi tre futuri leader – il primo destinato a suoi maggiori successi a partire dal 1944-45 proprio grazie alla sconfitta degli altri due – nell’estate del 1914, praticamente dalla notizia delle pistolettate di Princip contro Francesco Ferdinando fino alla fine del mese di agosto, quando il conflitto si avvia alla sua fase di stallo divenendo a tutti gli effetti guerra di trincea. Poco più di sessanta giorni in cui però è possibile leggere, pur da prospettive diverse, alcuni elementi chiave di un quadro di riferimento esemplare dei motivi dello scoppio del conflitto: l’aumento considerevole delle spese militari, la revanche francese, l’ansia di assegnare una nuova dimensione internazionale alla Germania, la guerra che da degenerazione capitalistica può trasformarsi in un trampolino di redenzione sociale. Naturalmente senza pretendere di individuare eccessive similitudini, quanto piuttosto con lo scopo di osservare attraverso queste “vite parallele” le differenze di approccio al conflitto, così come le speranze e le ambizioni riposte in esso.
De Gaulle e Hitler hanno quasi la stessa età nell’estate del 1914 – non ancora ventiquattrenne il primo, da poco venticinquenne il secondo -, Mussolini ha quasi trentuno anni. Provengono da esperienze formative diverse. De Gaulle è soldato di professione, Hitler sostanzialmente un nullafacente frustrato, Mussolini un giornalista che non nasconde le sue propensioni all’agitazione politica. Per tutti è tre però lo scoppio del conflitto rappresenta l’occasione della vita. Lo è per il giovane ufficiale francese, per il quale costituisce l’esito naturale di un apprendistato astratto e dottrinario che finalmente è chiamato a mettere in pratica: obiettivo, porre fine alla minaccia militarista tedesca e riconquistare l’Alsazia e la Lorena. Lo è per Adolf Hitler, che dopo i fallimenti professionali in campo artistico vi vede l’opportunità di una “rigenerazione” capace di passare dal piano personale a quello dei grandi destini della sua nazione di adozione. Lo è per Mussolini, pervaso da un fervore vitalistico che troverà nel conflitto gli elementi nativi per una sua personale rivoluzione sociale, anche se in questa fase prevarrà in lui un’ambigua tentazione pacifista (antitriplicista ma non ancora filo-Intesa) che rischierà di marginalizzarlo rispetto agli eventi. Per ognuno di loro – naturalmente con modalità, prospettive e ampiezze diverse – l’obiettivo è provocare la parziale o totale dissoluzione del vecchio ordinamento politico europeo, nell’illusione di sostituirlo con un sistema che all’equilibrio armato vissuto nei quarant’anni precedenti risponda con una pace che potremmo definire di “dominio”, imposta cioè dai vincitori sui vinti, siano essi le potenze dell’Intesa o le masse proletarie.
Seguiremo quindi le vite di De Gaulle, Hitler e Mussolini mettendole una accanto all’altra in uno sviluppo cronologico quasi giornaliero. Una parte significativa della trattazione è riservata a De Gaulle. Il perché è presto detto: fu l’unico a subire il battesimo del fuoco proprio in quell’estate di cento anni fa, a Dinant, nel corso di una battaglia di cui le biografie disponibili in lingua italiana hanno sempre fornito una descrizione piuttosto succinta. E alla quale qui vogliamo porre parziale rimedio.
L’ATTESA (fino a maggio 1914)
Charles De Gaulle
Classe 1890, Charles De Gaulle entra nell’agosto del 1909 nella prestigiosa École spéciale militaire di Saint-Cyr come soldato semplice. Un anno dopo, il 1° ottobre 1910, inizia la scuola militare vera e propria. Due anni di studi e di esercitazioni (“Studiare per vincere” è il motto accademico) vissuti con il carattere fiero e laborioso di chi cerca di nascondere la timidezza con l’efficienza e l’autocontrollo. Ne esce il 1° ottobre 1912 con il grado di tenente, destinazione il 33° reggimento di Fanteria di stanza ad Arras, una cinquantina di chilometri dal confine belga, ottanta dalla Manica. Arras è dominata della cittadella fortificata di Vauban che gli arrageois chiamano ancora “la belle inutile”, perché mai usata durante un assedio. Il resto del tessuto urbano non è da meno, perché Arras è una vera e propria città-militare, con le caserme Turenne, Schramm, Levis e Montesquiou. A comandare il reggimento di De Gaulle giunge negli stessi giorni un colonnello un po’ in là con gli anni, anche lui formato a Saint-Cyr e poi brevettato alla Scuola Superiore di Guerra, dove aveva poi trascorso qualche tempo come professore. Si chiama Philippe Pétain, ha 56 anni, uno stato di servizio piuttosto buono ma non strabiliante, e nessuna esperienza di guerra combattuta. Tra i due ci saranno subito simpatia e stima reciproche. Da Pétain De Gaulle dirà di aver appreso in quegli anni «il dono e l’arte del comando»[1]. Pétain, a sua volta, in una nota di servizio lo definirà un «ufficiale di grande valore e di grandi speranze per l’avvenire (…) Molto intelligente, ama il suo mestiere con passione (…) Degno di tutti gli elogi»[2]. Pétain sarà il suo comandante fino al marzo 1914, quando il colonnello verrà destinato al comando della 4a brigata a Saint-Omer, con cui prenderà parte alle fasi iniziali del conflitto.
Adolf Hitler
Adolf Hitler è un venticinquenne ambizioso e frustrato. Vive a Monaco dal giugno 1913, come pensionante nella casa di un sarto. Spera, ma senza troppa convinzione, di dedicarsi alla pittura, un mestiere che esercita con modesto successo, sorretto da un talento di maniera ormai fuori tempo massimo rispetto alle avanguardie che si sono affacciate sul continente. Ai problemi di sostentamento, cui la vendita dei quadri non pone sufficiente rimedio, se ne aggiunge un altro. Nel febbraio del 1914, dietro convocazione del consolato austriaco, deve rientrare nei confini dell’impero austro-ungarico per sottoporsi alla visita di leva.
In realtà il mese precedente era stato arrestato dalla polizia di Monaco su mandato delle autorità asburgiche con l’accusa di renitenza alla leva. Si era giustificato dichiarando che la mancata presentazione, che risale ormai al 1909, era da imputarsi alle dure condizioni di vita a cui era costretto in quegli anni di stenti economici[3].
In ogni modo, il 5 febbraio la commissione di leva di Salisburgo decide di non sanzionare il distratto renitente. Anzi, mette una pietra sopra a tutta la vicenda emettendo una bocciatura. L’ennesima, dopo quelle per entrare all’Accademia di Belle Arti a Vienna. Troppo gracile, Hitler è inidoneo all’arruolamento sia per il servizio attivo sia per quello ausiliario e di conseguenza viene riformato. La cosa in sé non lo turba più di tanto. L’impero degli Asburgo è per lui un’entità ormai in declino. E Vienna ne è il simbolo peggiore: «Mi riusciva repellente il conglomerato razziale che la capitale dell’impero asburgico esibiva, ripugnante tutto quel miscuglio etnico di cechi, polacchi, ungheresi , ruteni, serbi, croati e via dicendo, ma soprattutto l’eterno agente patogeno dell’umanità – ebrei e ancora ebrei»[4]. Il non fare più parte di quel “conglomerato”, nemmeno come suddito destinato a difenderne storia e onore, è in fondo una nota di merito. E la conferma ultima che il suo destino deve compiersi altrove.
Rientrato a Monaco riprende a dipingere e a vagare per caffè e birrerie, dove tra discussioni politiche e previsioni sull’imminente scoppio di un conflitto, trova quella vicinanza con gli altri capace tuttavia di garantirgli l’anonimato e l’isolamento di cui si nutre il suo carattere[5]. Ma sembra che ormai anche la carriera di pittore non lo interessi più. Secondo lo scrittore austriaco Josef Greiner, che sostiene di averlo frequentato in quel periodo (ma la sua attendibilità è stata messa più volte in discussione[6]), Hitler alla domanda su quali fossero i suoi progetti futuri avrebbe risposto che non ne aveva alcuno, perché una guerra sarebbe scoppiata tra breve e allora, sotto le armi «un direttore generale vale esattamente quanto un tosacani»[7].
Benito Mussolini
Sono mesi frenetici per Mussolini quelli che precedono l’attentato di Sarajevo. Direttore dell’Avanti! dal novembre del 1912 ed esponente di spicco dell’ala rivoluzionaria all’interno del Psi, ha alle spalle un curriculum di tutto rispetto fatto di furore ideologico, spregiudicatezza politica e demagogia. Ha partecipato alle manifestazioni contro la guerra di Libia del 1911 subendo un arresto e cinque mesi di prigione. Quando assume la direzione del foglio socialista, a Milano, lancia un segnale di discontinuità riducendosi lo stipendio del 30%. E trasforma il giornale in un organo della sua personale politica, destinato a compattare l’ala rivoluzionaria del partito e a ottenerne il controllo. A dargli manforte un altro periodico, Utopia, da lui stesso fondato e diretto, che gli consente maggior libertà d’azione e di organizzare una sua personale “corrente”. Sono mesi frenetici, dicevamo. Dirige due giornali scrivendoci in modo appassionato; partecipa al congresso di Ancona dell’aprile 1914 uscendone trionfatore; a Milano tiene lezioni sulla storia del pensiero socialista che porta poi in giro per l’Italia in una serie di conferenze; lavora notte e giorno per il successo dei candidati socialisti in vista delle elezioni amministrative di giugno; partecipa alle manifestazioni che fanno da contorno alle agitazioni della “settimana rossa” (7-14 giugno), enfatizzando gli incidenti nelle corrispondenze dell’Avanti![8] e rischiando ancora una volta l’arresto. E a fine giugno ottiene l’ennesimo successo, la fiducia della direzione del Psi che lo conferma alla guida del quotidiano, nonostante i sempre più forti mugugni all’interno del partito (Turati, Bonomi).
SARAJEVO: RIVINCITA, RISCATTO E NEUTRALITÀ (giugno-luglio 1914)
Charles De Gaulle
De Gaulle non ha lasciato testimonianze sul giorno dell’attentato a Sarajevo (28 giugno) e sulle sue reazioni alla notizia. Una cosa però è certa. In quell’estate in Francia sono in molti a sperare di poter finalmente lavare l’onta del maggio 1871, quando la vittoria di Bismarck su Napoleone III aveva spostato il confine del nascente Reich tedesco verso occidente, inglobando l’Alsazia e parte della Lorena. La revanche cova sotto la cenere da quattro decenni, duranti i quali la questione militare ha continuato ad essere all’ordine del giorno tanto negli ambienti militari quanto sulle pagine delle riviste in grado di condizionare l’opinione pubblica[9]. Anche De Gaulle ne è pervaso. E’ cresciuto in un clima di «ansiosa fierezza» per il suo Paese, con un padre imbevuto di cultura storica e di senso della tradizione e una madre che «votava alla patria una passione intransigente come la sua pietà religiosa»[10]. Il risultato di quell’educazione è un’estrema precocità di passioni per tutto quanto abbia riferimento con le vicende militari del suo Paese. Ha solo quindici anni (1905) quando scrive un breve trattato in cui, immaginandosi capo di stato maggiore dell’esercito, sventa un ipotetico attacco tedesco alla Francia[11]. Nell’estate del 1908, durante una vacanza nella Foresta Nera, racconta del clima poco favorevole alla Francia che si respira in Germania; e appena rientrato in collegio si cimenta in un breve saggio storico-geopolitico sulle conseguenze della guerra franco-prussiana[12].
Nel 1913, da tenente istruttore infervora le giovani reclute del 33° reggimento ricordando loro la spoliazione delle due provincie francesi e il furto di cinque miliardi subiti a causa della sconfitta contro i tedeschi. La nostra armata, continua rivolgendosi alle reclute, deve riprendersi le provincie violate e impedire ai tedeschi di «saccheggiare le nostre campagne e di bruciare le nostre città, com’è loro abitudine»[13].
Il 1° aprile 1914 davanti agli ufficiali del 3° battaglione ad Arras tiene una conferenza appassionata. L’argomento è l’esercito tedesco, la cui forza desta in lui, così come in tutta l’armée, preoccupazione mista ad ammirazione. E’ dal 1871, spiega al suo uditorio, che il «regime di pace armata in Europa» ha avuto come effetto l’aumento considerevole delle forze militari tedesche, con un formidabile incremento di effettivi e di materiali nel corso degli ultimi dodici mesi. Ufficiali e sottufficiali tedeschi sono giovani e ben preparati, l’addestramento della truppa è buono, la logistica efficiente e moderna. Gli effettivi e l’armamento più o meno si equivalgono e come i Francesi anche i Tedeschi sostengono la teoria dell’offensiva ad oltranza. La differenza, allora, la può fare la forza morale dell’esercito. Quella forza, spiega, che è compito degli ufficiali creare[14]. Date queste premesse, non siamo troppo lontani dalla verità ipotizzando che la morte di Francesco Ferdinando abbia suscitato nel giovane ufficiale francese l’aspettativa per un’imminente resa dei conti con il temuto e odiato vicino.
Adolf Hitler
La guerra come suprema ambizione per chi anela a combattere l’ordine costituito, panacea per rivoluzionari e artisti falliti, occasione di rivolgimento sociale, di riscatto e fuga dalla mediocrità della propria esistenza. Queste le aspettative che si agitavano nella mente di Hitler fin dalla primavera del 1914. Il tutto infarcito di miti storico-guerreschi. Anche per Hitler, infatti, così come per De Gaulle, le letture dell’adolescenza avevano avuto come tema il conflitto franco-prussiano del 1870-1871[15]. L’idea di una imminente conflagrazione europea si era fatta strada in lui – secondo quanto raccontato nel Mein Kampf – a seguito delle ricorrenti crisi diplomatiche di inizio secolo, soprattutto in area balcanica. «Già durante i miei anni viennesi – scrive – pesava sui Balcani quella torbida depressione che annunzia i cicloni, e talvolta si alzava una fiamma più chiara che si spegneva subito dopo in una plumbea oscurità misteriosa. Poi venne la guerra balcanica, la prima ventata che passava sull’inquieta Europa. Il tempo seguente pesò sugli uomini come un incubo, infocato come un clima febbrile dei tropici, in modo che il presentimento della incombente catastrofe diventò quasi attesa di essa per uscire in tal modo dalla costante angoscia: volesse il cielo che il destino, che non si poteva più frenare, ottenesse finalmente via libera!»[16].
A trafiggere come un lampo quell’atmosfera di attesa giunge la notizia dell’assassinio a Sarajevo dell’arciduca Francesco Ferdinando, avvenuto nella tarda mattina del 28 giugno. Hitler viene a saperlo, in modo vago e frammentario, mentre si trova in casa. Diverse versioni si rincorrono sul motivo dell’attentato e sulla nazionalità degli attentatori. Hitler teme si possa trattare di studenti tedeschi ostili alla politica filoslava dell’erede al trono asburgico. Poi, quando apprende che la mano è di uno studente nazionalista serbo, si sente «agghiacciare da un sottile orrore di fronte a tale vendetta del destino imperscrutabile. Il più grande amico degli slavi era caduto sotto le pallottole di un fanatico slavo!»[17]. Due pensieri gli balenano nella mente: la guerra è inevitabile e l’Austria dovrà tener fede alla sua alleanza con la Germania[18].
Benito Mussolini
Quando la situazione internazionale precipita sotto i colpi di Sarajevo e la guerra bussa alle cancellerie europee, Mussolini capisce che non c’è più tempo da perdere. Se scoppia il conflitto, e se i socialisti tedeschi si schiereranno con il proprio paese, non si potrà fare a meno di opporsi a un intervento a fianco della Triplice alleanza e scegliere quindi di schierarsi a fianco della Francia, se questa verrà coinvolta[19]. Come scrive De Felice, non è contro la guerra ma nella guerra che Mussolini cercherà la sua rivoluzione. Una rivoluzione che non ha nulla in comune con la “settimana rossa” e le sue confuse ansie neo-quarantottesche, ma una rivolgimento che deve porsi su un piano nuovo: una guerra rivoluzionaria capace di togliere di mezzo i grandi baluardi della reazione (Germania e Russia in primis) e accendere la miccia nel resto del continente[20]. Ci vorrà però ancora qualche mese di elaborazione teorica. Anche perché Mussolini sa che il partito difficilmente lo seguirà. Saranno l’incedere degli eventi internazionali e le scelte degli altri grandi partiti socialisti europei a portarlo ad abbracciare la causa interventista.
Ma a fine giugno, quando Francesco Ferdinando cade sotto i colpi di Princip la situazione è ancora fluida. Anzi, Mussolini sembra, al pari di altri commentatori, non attribuire grande rilevanza all’assassinio del principe ereditario. Per un paio di settimane, fino alla metà di luglio, sulle colonne dell’Avanti! la crisi austro-serba occupa un ruolo marginale rispetto alle polemiche interne al partito, dove gli strascichi sulle posizioni assunte dal direttore durante la “settimana rossa”, prima appoggiata e poi in parte scaricata, continuano a tenere banco.
Mussolini torna sulla questione serba il 13 luglio, ma è solo dopo il 25 luglio, quando la Serbia rifiuta di accettare l’ultimatum austriaco, che Mussolini finalmente si accorge che la crisi è a un punto di non ritorno. Si schiera però immediatamente a favore della neutralità assoluta: «Il proletariato d’Italia permetterà dunque che lo si conduca al macello un’altra volta? Noi non lo pensiamo nemmeno. […] sorga dalle moltitudini profonde del proletariato un grido solo, e sia ripetuto per le piazze e strade d’Italia: “Abbasso la guerra!” E’ venuto il giorno per il proletariato italiano di tener fede alla vecchia parola d’ordine: “Non un uomo! Né un soldo!” A qualunque costo!». E se il governo non accetterà questa posizione il proletariato la imporrà con tutti i mezzi[21]. Una posizione che viene ribadita il giorno dopo, 27 luglio, durante la convocazione, nella sede dell’Avanti!, del gruppo parlamentare socialista. Ma la neutralità intesa da Mussolini non è statica, bensì attiva (propone uno sciopero insurrezionale nel caso di un intervento dell’Italia), mentre il resto del partito preferisce osservare ancora gli eventi prima di decidere nuove iniziative[22].
À LA GUERRE, O FORSE NO (1-14 agosto 1914)
Charles De Gaulle
Il 1° agosto 1914 il governo francese decide la mobilitazione, venendo incontro alle ripetute richieste del capo di stato maggiore Joseph Joffre. Il giorno successivo circa tre milioni di uomini si preparano alla peggiore delle eventualità e si mettono in marcia, sfilando per le strade delle città con fiori e bandierine tricolori nella canne dei fucili, diretti ai punti di raccolta e alle stazioni. Il 3 agosto la Germania dichiara guerra alla Francia. Le truppe tedesche mettono subito in atto il Piano Schlieffen, che prevede l’ingresso di sorpresa in Belgio – violandone la neutralità –, di fare perno su Metz e, attraverso un ampio movimento simile a quello della lancetta di un orologio che si muova in senso antiorario, dilagare nel Nord-Passo di Calais e sbucare sotto Parigi. Obiettivo finale è ottenere una rapida vittoria sulla Francia per concentrare il massimo sforzo sul fronte russo. L’esercito francese cerca di rintuzzare la manovra tedesca, ma con una tempistica da XIX secolo: un corpo d’armata al completo, recitano gli esperti dello stato maggiore, richiede circa una settimana per arrivare sul luogo delle operazioni[23], e cioè a difesa della propria linea di confine. Nello stesso arco di tempo l’esercito tedesco riesce invece a dilagare in Belgio, anche se l’effetto sorpresa sarà inferiore alle aspettative.
Il tenente De Gaulle comanda una sezione dell’11a compagnia guidata dal capitano Maës, nel 1° battaglione del 33° reggimento comandato dal colonnello Stirn. Ad Arras la notizia della mobilitazione viene accolta senza particolari festeggiamenti: calma assoluta tra la truppa e la popolazione. Qualche giorno per organizzare la logistica, attendere l’arrivo dei riservisti e il reggimento è pronto. Il 33° si muove[24] dai suoi acquartieramenti il 5 agosto, di prima mattina, per le strade non c’è quasi nessuno. Scrive De Gaulle nel suo diario: «Addio mio appartamento, miei libri, miei oggetti familiari. Come la vita sembra più intensa, come le piccole cose assumono importanza quando tutto forse va a finire…»[25]. Nel primo pomeriggio raggiungono l’abitato di Saint-Michel, frazione di Hirson, 150 chilometri a sudest, in prossimità della frontiera belga.
Il 6, seguendo verso est la frontiera, il reggimento percorre una ventina di chilometri a piedi fino a Maubert-Fontaine, quindi un’altra decina, mettendo a dura prova le spalle e le gambe dei riservisti, ancora impreparati alle marce sotto il sole e con equipaggiamento completo. Fa caldo. Gli uomini si spostano a piedi, portando in spalla oltre venti chili di zaino. La divisa, giacca a un petto blu scuro con collo alto e mostrine luccicanti e pantaloni rossi bordati di blu, è ancora quella di foggia ottocentesca ereditata dalla guerra franco-prussiana di quattro decenni prima. Per ripararsi dal sole, al chepì d’ordinanza viene applicata una tela nella parte posteriore a protezione del collo. L’elmetto non esiste: la tecnologia bellica ha fatto passi da gigante, i governi si sono rincorsi nel dotarsi di armi sempre più sofisticate e letali, ma l’equipaggiamento del singolo soldato è ancora quello del secolo precedente[26]. Solo a guerra ampiamente iniziata gli stati maggiori si renderanno conto dell’importanza di proteggere la testa dei soldati da proiettili e schegge: l’elmetto modello Adrian, con la caratteristica cresta, verrà introdotto nella seconda metà del 1915. Il fucile è il Lebel modello 1886 a otto colpi, calibro 8 millimetri: secondo De Gaulle è più preciso, ha traiettoria più tesa e migliore capacità di penetrazione rispetto al pari calibro tedesco Steyr-Mannlicher modello 1898, che, però – deve ammettere – è più leggero e rapido nel tiro grazie al caricatore sostituibile[27]. Quel giorno si decide di requisire alcune automobili per trasportare gli zaini. Sosta per la notte a Bourg-Fidèle, vicino Rocroi.
Il 7 agosto il generale Franchet d’Esperey, comandante del 1° corpo d’armata alle cui dipendenze è il 33° reggimento, segnala una forte presenza di cavalleria tedesca a Beauraing, a sud di Dinant, ancora in territorio belga, ma a poco meno di una trentina di chilometri dal reggimento di De Gaulle. Di conseguenza è necessario «occupare al più presto i passaggi sulla Mosa per evitare che la ricognizione nemica si porti sulla riva sinistra del fiume»[28]. Il reggimento si sposta quindi ancora di una manciata di chilometri a est, a Les Mazures, dove la Mosa disegna una serie di anse. Il suo compito è disporsi tra Laifour e Vireux, in direzione sud-nord, a presidiare il corso del fiume in quell’estremo lembo di Francia che si incunea in Belgio, con un’avanguardia a Haybes e Fumay, mentre un distaccamento terrà i ponti di Revin e di Anchamps.
Il 9 agosto giunge la notizia che Mulhouse, strappata dai tedeschi alla Francia nel 1870, è stata conquistata dalle forze francesi comandate dal generale Louis Bonneau. L’entusiasmo è alle stelle. La notizia è però vecchia di due giorni, nel frattempo i tedeschi hanno contrattaccato e ripreso il controllo della città. Nonostante il reggimento di De Gaulle sia in posizione avanzata nessuna contatto si registra con i Tedeschi. Due, fino ad ora, gli avversari più temibili, il caldo agostano e le salite delle Ardenne, a cui i giovani soldati di pianura non sono abituati. La notte, a Hiraumont, le sentinelle sparano qualche colpo di fucile, «nel vuoto, naturalmente» aggiunge De Gaulle[29]. La guerra rischia di farsi noiosa, c’è solo la Mosa da guardare, che scorre in direzione del nemico.
Dopo qualche giorno di sosta a Haybes il reggimento riceve l’ordine di muoversi. Si teme uno sfondamento tedesco tra Givet e Namur. Ma per ora l’unico nemico in carne e ossa in cui si sono imbattuti è a bordo di un velivolo da ricognizione che osserva gli spostamenti della prima armata francese.
Il 13 agosto il 33° entra in Belgio, a Treignes, accolto dall’entusiasmo della popolazione: al passaggio del confine hanno fatto il presentat-arm ai doganieri belgi. Si attendono nuove disposizioni. Che puntualmente arrivano e portano a un progressivo avvicinamento a Dinant, dove la Mosa scorre tagliando in due la città. Bisogna impedire assolutamente l’attraversamento del fiume ai Tedeschi, che altrimenti potrebbero dilagare a sud verso le pianure e le valli dell’Aisne e dell’Oise e trovare la strada aperta verso Parigi.
Il 14 agosto il reggimento è distribuito tra le cittadine di Anthée e Morville, una quindicina di chilometri a ovest di Dinant. La compagnia di De Gaulle è a Ostricourt, dove arriva dopo una scarpinata di trenta chilometri. Sono sette giorni che zigzagano alla ricerca di un avversario inafferrabile. La guerra è iniziata da due settimane e De Gaulle non ha ancora sparato un colpo.
Ma ormai è solo questione di tempo, forse solo di ore. In zona stanno già arrivando le avanguardie dell’esercito tedesco. Dopo aver occupato Liegi, le prime pattuglie si sono affacciate nel settore meridionale delle Ardenne. I Francesi rispondono occupando con il 148° reggimento la riva sinistra della Mosa, davanti a Dinant, la cittadina della vallonia nota per aver dato i natali ad Adolphe Sax, l’inventore del sassofono. Poche migliaia di abitanti, tutti francofoni, distribuiti lungo un esile reticolo urbanistico che si stende parallelamente alle sponde del fiume. Sulla riva sinistra poche case, chiuse tra la riva e la vicina ferrovia. Sulla riva destra il vero centro cittadino, con l’inconfondibile collegiata di Notre-Dame, munita di uno scuro campanile a bulbo centrale, addossata, o meglio, praticamente chiusa, tra il corso della Mosa e uno sperone roccioso. Cento metri più in alto, sullo sperone, la cittadella fortificata. I francesi presidiano massicciamente però la riva sinistra. Solo pochi uomini e una postazione di mitragliatrice vengono inviati nella cittadella.
Adolf Hitler
Il 1° agosto la Germania annuncia la dichiarazione di guerra alla Russia. A Monaco, in Odeonsplatz, il giorno dopo una folla giubilante si raduna per festeggiare l’evento, al suono di fanfare militari che intonano Die Wacht am Rhein (“La Guardia al Reno”) e il Deutschlandlied (“Canto dei Tedeschi”). In una foto, divenuta poi famosa, si vede Hitler che gioisce confuso tra la folla, tra la Feldherrenhalle e la facciata della Theatinerkirche. E’ una delle sue poche immagini – insieme a quelle scattate dopo la resa della Francia nel giugno di ventisei anni dopo – in cui sorride. E poco importa che in tempi recenti si sia mossa qualche perplessità su quello scatto, da taluni ritenuto parzialmente contraffatto nel 1932 dal suo fotografo personale Heinrich Hoffmann, che avrebbe messo il viso del futuro dittatore in maggiore evidenza al centro della scena rispetto alla realtà[30]. Quel che è certo che l’entusiasmo di Hitler per la guerra è vero, genuino, spontaneo. Come milioni di tedeschi crede giunto il momento di porre termine a quello stato di incertezza che attanaglia una società ormai stanca. Nessuno aveva creduto alla finzione dell’ultimatum austriaco alla Serbia, tutti sapevano che era nulla più di uno strumento per arrivare a un decisivo e risolutivo confronto con il piccolo Stato balcanico. Per Hitler quelle ore segnano, come scriverà nel Mein Kampf, una liberazione dalle fastidiose incertezze della giovinezza. Travolto da un tempestoso entusiasmo si inginocchia a terra, ringraziando il cielo di avergli concesso la gioia di vivere in un’epoca simile[31].
Il 3 agosto Hitler invia una richiesta scritta al re Luigi III di Baviera per ottenere la possibilità di servire come volontario austriaco in un reggimento bavarese. Incredibilmente, dopo sole 24 ore giunge la risposta affermativa. Anche in questo caso sorge qualche dubbio sul fatto che la segreteria del sovrano abbia dimostrato tanta sollecitudine nei suoi confronti, soprattutto in un caotico clima di mobilitazione generale. Tanto più che a occuparsi di questi aspetti era il ministero della Guerra non la segreteria del sovrano. Probabilmente il grande afflusso di volontari ha messo in crisi la teutonica efficienza degli uffici di reclutamento e nessuno si accorge della sua nazionalità austriaca o ne chiede conto, evitando così di dirottarlo verso le forze armate asburgiche. Insomma, l’esperienza di guerra di Hitler nelle file dell’esercito tedesco è probabilmente il risultato di un errore o di una svista[32].
Del tutto credibile è invece la reazione dell’interessato: «Quando ebbi aperto con mani tremanti la lettera e vi ebbi letto l’accoglimento della mia domanda, e l’ordine di presentarmi a un reggimento bavarese, il mio giubilo e la mia riconoscenza non conobbero limiti»[33]. Cominciava così quella che avrebbe sempre ricordato come «la più grande e indimenticabile ora della mia carriera umana»[34].
Il 5 agosto – proprio quando De Gaulle lascia Arras – Hitler raggiunge il 1° reggimento di fanteria bavarese; viene però rimandato temporaneamente a casa in attesa di ordini più precisi.
Benito Mussolini
Nel tardo pomeriggio del 3 agosto – lo stesso giorno in cui Hitler invia la richiesta di arruolamento – si riunisce a Milano la direzione socialista. L’Italia, con Sonnino, in quelle stesse ore dichiara la neutralità e Mussolini ne prende atto, compiaciuto il giorno dopo sull’Avanti!: il Governo ha dato, «per una strana ironia delle cose – la parola d’ordine al proletariato». Ma sono solo i socialisti italiani a compiacersene, perché il grosso dei movimenti socialisti europei stanno invece o tacitamente approvando la mobilitazione dei propri governi o addirittura appoggiando, su posizioni patriottiche, la difesa nazionale contro il nemico.
E’ da questo momento che Mussolini si trasforma per il Psi in una mina vagante. La sua neutralità non è fatta di attesismo. La guerra può scatenare in lui gli istinti più bassi. Lo scrive a chiare lettere, in un articolo che si rivelerà profetico, un esponente dell’ala riformista del partito, Giovanni Zibordi, apparso su Critica Sociale nei primi giorni di agosto. Profetico nel rivelare la forma mentis mussoliniana e il suo irruento agire politico, condito, spiega Zibordi, da un ideologismo di facciata utile a sostenere le sue esplosioni passionali. Mussolini, scrive, «ha istituito una dittatura, che ha basi individuali e collettive, psicologiche o meglio sentimentali. Col prestigio irresistibile della sua combattività aspra, ma elevata, che trascina le folle senza essere – in barba alla etimologia – volgarmente demagogica; con alcune doti di credente e di milite, egli fa ingoiare alle masse tutto quello che vuole». E conclude: «Quanta psicologia del nazionalismo v’è nel mussolinismo! In parte perché violenza esige violenza che la fronteggi; in parte per una pura ragione epidemica»[35].
Quando la Germania viola la neutralità del Belgio, il neutralismo di Mussolini sull’Avanti! diventa sempre meno equidistante. Il militarismo brutale inizia la sua gesta di sangue, titola il quotidiano il 5 agosto. Prendendo le difese di Gustave Hervé – socialista francese antimilitarista appena arruolatosi volontario –, Mussolini scrive che il suo comportamento non è da “guerrafondaio” ma è quello di un «cittadino che deve d’un tratto ricorrere alla browning per difendersi dall’attacco del bandito. Il militarismo prussiano e pangermanista è, dal ’70 a oggi, il bandito appostato sulle strade della civiltà europea»[36].
Sono però i repubblicani i primi a schierarsi ufficialmente contro la neutralità, organizzando comitati interventisti e studiando l’opportunità di dare vita a legioni garibaldine di volontari da inviare in Francia, seguiti poi da radicali, socialisti riformisti e sindacalisti rivoluzionari che interpretano la neutralità non in senso assoluto ma come possibilità di scegliere quando entrare in guerra e con chi. E certo non a fianco degli Imperi centrali.
Mussolini invece sembra tentennare. La “pancia” della grande base proletaria, di cui è abilissimo a cogliere umori e passioni, sembra ancora tenacemente attaccata all’idea della neutralità assoluta. Il 13 agosto scrive sull’Avanti!, a proposito della guerra , che «Il proletariato può “subire” questa tragica necessità finché sia impotente a liberarsene, ma non può accettarla e tanto meno esaltarla o invocarla»[37]. E rispondendo a Salvemini, che qualche giorno prima sull’Unità gli aveva chiesto come mai i socialisti, così favorevoli all’uso della violenza rivoluzionaria sul piano interno non lo fossero altrettanto su quello internazionale, scrive che l’appoggio a un intervento militare contro l’Austria avrebbe reso i socialisti simili ai guerrafondai, costringendoli a mettere in discussione i propri principi; oltretutto, sarebbe stato difficile far digerire agli italiani, già “salassati” dalla guerra di Libia, un nuovo sacrificio economico. «La guerra all’Austria sarebbe dunque – a prescindere da tutto il resto – la suprema delle follie». Tanto più che la neutralità che il Partito Socialista ha caldeggiato, aggiunge, si risolve già in un vantaggio per la Triplice Intesa e in un danno per il blocco austro-tedesco. Quindi la parola d’ordine è una sola: «Neutralità sino alla fine della guerra, neutralità che permetterà – al momento buono – un intervento dell’Italia a favore della pace: neutralità che dev’essere mantenuta ad ogni costo. Il proletariato stia vigilante; ascolti la voce profonda dei suoi interessi e non si lasci raggirare dagli alchimisti di politica estera o mistificare dalle correnti reazionarie e guerrafondaie che vogliono la guerra, prima di tutto, per ridurre al silenzio o per cacciare al muro il “nemico interno…”»[38].
FERRAGOSTO A DINANT, FANTERIA DI RISERVA E PRIMI “TURBAMENTI” (15-31 agosto 1914)
Charles De Gaulle
La sera del 14 agosto il reggimento di De Gaulle viene messo in stato di allerta. Destinazione Dinant, dove pare che i tedeschi abbiano sferrato già un primo attacco. E’ ancora buio quando nelle prime ore del 15 agosto arrivano a Dinant, distrutti da una lunga marcia a piedi. La situazione sembra meno compromessa del previsto: il nemico non ha ancora occupato la città. Il 3° battaglione, quello di De Gaulle, bivacca nelle strade. Gli uomini, sfiniti, si addormentano sul pavé. De Gaulle e il capitano Bosquet trovano ospitalità in una casa: per giaciglio solo una sedia. La Mosa sembra ben presidiata: pochi chilometri a nord il 9° battaglione è a Bouvignes, mentre il 2° battaglione tiene il ponte ad Anseremme, 2-3 chilometri a sud di Dinant; un battaglione, il 1°, è di riserva a ovest di Dinant. La città è però indifendibile se non si controlla la cittadella.
All’alba del 15 agosto, alle 6 del mattino, proprio quando la 10a e la 12a compagnia del 3° reggimento stanno prendendo posizione nella cittadella, inizia il finimondo. Preceduti da un intenso fuoco di artiglieria due battaglioni tedeschi (il 12° cacciatori Freyber e il 13° Garde-Jäger) lanciano da est un attacco verso la cittadella. Una valanga di colpi da 77 mm si abbatte sulle mura. De Gaulle, sulla sponda opposta del fiume, annota nel suo diario[39]: «La danza comincia. […] Sono i primi colpi che riceviamo dall’inizio della campagna. Quale impressione su di me? Perché non dirlo? Due secondi di emozione fisica: gola chiusa. E poi basta».
Gli uomini prendono il caffè tra i colpi e gli scoppi delle granate, qualche attimo di smarrimento e poi una sorta di incosciente allegria sembra pervaderli. De Gaulle con la sua compagnia si appiattisce nella trincea dove passa la ferrovia che corre parallela al fiume, in prossimità di un passaggio a livello, confidando nella protezione offerta dalle basse case che si interpongono tra i binari e la Mosa. Le granate tedesche continuano a martellare le due rive del fiume ma gli uomini sembrano non farci troppo caso, permane un senso di euforia. Tant’è che De Gaulle ostenta il suo coraggio sedendosi su una panchina a osservare gli sviluppi e scherzando con gli altri soldati. Dalla cittadella arrivano rumori di scoppi e di fucileria: tra quelle mura si sta combattendo accanitamente.
I primi feriti arrivano sulla sponda sinistra, caricati da barellieri che attraversano incessantemente il ponte nelle due direzioni, sotto un fuoco d’inferno. E’ ormai chiaro che la cittadella è persa. «Ma caspita! Cosa fa la nostra artiglieria?», si lascia sfuggire De Gaulle. In effetti l’artiglieria francese – sono passate un paio d’ore dall’inizio dell’attacco – non è ancora entrata in azione, di fatto lasciando campo libero all’avanzata nemica. E così in tarda mattinata[40] la scarna guarnigione francese è costretta a ripiegare, dopo aver perso metà dei suoi effettivi. Sugli spalti della cittadella di Dinant i tedeschi possono appostarsi e prendere di mira tutto ciò che si muove un centinaio di metri sotto di loro. Da lì colpiscono la zona del passaggio a livello, dove una compagnia arriva di supporto dalla strada di Philippeville, così come i soldati francesi che attraversano il ponte di ferro per rifugiarsi sulla riva sinistra. Dall’alto della cittadella i fantaccini francesi in divisa blu e rossa spiccano sul grigio delle case e delle vie di Dinant come bersagli a una esercitazione di tiro. Alla prima compagnia viene ordinato di apprestare una linea di fuoco lungo il parapetto sull’argine del fiume. Sono poche decine di metri, da coprire correndo rasenti le case, che però non offrono grande protezione da un fuoco nemico che cade sulle loro teste quasi in verticale. Poi bisogna svoltare a destra esponendosi al breve tratto aperto che separa dal parapetto. «Non andremo lontano!», osserva un soldato della prima compagnia rivolgendosi a De Gaulle, «ma ci andremo lo stesso». Esce allo scoperto, arriva alla svolta e improvvisamente alza le braccia: appena il tempo di dire «Avete visto! Ve l’avevo detto» e cade a terra morto.
De Gaulle osserva gli eventi e li registra con rabbia[41]. Il suo plotone è tenuto di riserva, al riparo nella trincea della ferrovia. Vede gli uomini andare all’attacco, i feriti tornare, e non può sparare un colpo. E l’artiglieria francese continua a tacere. La cosa è decisamente demoralizzante per la truppa. I resti della 10a e 12a compagnia, che presidiavano la cittadella, ripiegano disordinatamente verso il ponte, dopo aver percorso a rotta di collo i 400 gradini che li separano dalla parte bassa della città. La 1a compagnia, sospinta anche da questi uomini in ritirata, deve ritornare indietro.
Bisogna però quantomeno evitare di perdere il controllo della posizione e prepararsi a respingere un attacco di slancio attraverso il ponte che porterebbe i tedeschi all’attraversamento della Mosa. Tocca a De Gaulle e ai suoi uomini, insieme a due sezioni del 148° reggimento, metterci una pezza. E allora, zaino sulle spalle e baionetta in canna. Ma con il nemico che domina il campo di tiro l’operazione è militarmente un suicidio. Non è un balzo fuori da una trincea davanti alle mitragliatrici nemiche, come questa guerra imporrà drammaticamente nei mesi successivi, ma un suo succedaneo metropolitano: una lunga corsa in campo aperto alla ricerca di un riparo poco più avanti. Alla guida dei suoi uomini, sciabola alla mano[42] come un soldato napoleonico, De Gaulle attraversa il passaggio a livello e punta verso l’imbocco del ponte. All’estremità opposta si affacciano già i soldati tedeschi, che però sembrano stupiti dalla carica francese e in parte indietreggiano. Allora avanti. «Mi lancio, cosciente che la nostra sola possibilità di riuscita sia di portarsi più velocemente in avanti del nemico, che vediamo rifluire precipitosamente […]. Ho come l’impressione che il mio io si sdoppi immediatamente: uno che corre come un automa e un altro che l’osserva con angoscia». Ma percorsi pochi metri, quasi in prossimità dell’imbocco del ponte, vengono investiti da una grandine di proiettili. Uno lo colpisce al ginocchio destro[43]. Gli uomini accanto a lui vengono falciati. Un sergente gli cade addosso, privo di vita. Sente i colpi secchi dei proiettili che battono sul selciato e quelli più sordi che penetrano nelle carni dei cadaveri e dei feriti. Forse è la fine. «Quando dovrò morire, vorrei che fosse su un campo di battaglia», aveva scritto in una poesia appassionata all’età di diciott’anni, «quando in sé / l’anima è ancora tutta avvolta / dal tumulto inebriante che spira dalla battaglia, / e dall’aspro brivido che dà a chi si batte / il colpo virile e chiaro della spada…»[44]. Ma ora occorre trovare una soluzione. L’unica è rinculare e conquistare il riparo costituito da una abitazione pochi metri più indietro. Si libera dei corpi che lo circondano e, sotto la stessa pioggia di proiettili, riesce a trascinarsi fino alla porta aperta di una casa. Per tutta la vita De Gaulle non riuscirà a spiegarsi come sia stato possibile scampare a quella situazione senza essere ridotto a un colabrodo.
Dentro è pieno di feriti. Fuori l’artiglieria tedesca ha ripreso a colpire. Dentro si scatena il panico. Alcuni ufficiali, racconterà De Gaulle, sono terrorizzati e la paura si diffonde rapidamente alla truppa. I tedeschi potrebbero arrivare da un momento all’altro e in prima linea di solito non si fanno prigionieri. Solo la fermezza di qualche ufficiale e un provvidenziale ordine di ritirata riescono a evitare il fuggifuggi generale. Ma uscire dalla casa è impossibile, continuano a piovere colpi. Nell’attesa vengono bruciate carte e documenti che potrebbero tornare utili al nemico, che però, incredibilmente, non ha sfruttato l’occasione ed è ritornato sui suoi passi, sulla sponda destra.
Finalmente, con ore di ritardo, l’artiglieria francese entra in azione. Lo scontro si accende nei dintorni di Dinant. Da Philippeville arriva di rinforzo il 73° reggimento, che raggiunge la sponda sinistra. De Gaulle si trascina fuori di casa con una manciata di uomini salutando i camerati. Nel primo pomeriggio, supportati dall’artiglieria, i francesi organizzano il contrattacco. Alle 14 lo scontro riprende. Un battaglione dell’8° reggimento francese ha attaccato più a sud la cittadella e riesce infine a espugnarla, facendo una ventina di prigionieri. Il nemico si ritira intorno alle 16[45]. La battaglia, salvo alcuni colpi sporadici, è pressoché finita. Uno squadrone di cacciatori a cavallo si mette all’inseguimento dei tedeschi, in ritirata verso la linea Sovet – Lisogne – Foy-notre-Dame – Achène. De Gaulle, malconcio, viene dirottato, con quel che resta del 33°, verso la vicina cittadina di Antée: lo sgombero avviene con mezzi di fortuna, utilizzando vetture private messe a disposizione dai cittadini di Dinant. La diagnosi è frattura del perone con schegge nell’articolazione del ginocchio. Il giorno dopo, il 16 agosto, viene evacuato dalla prima linea. Si ferma qualche ora a Charleroi, dove vive la sorella Marie-Agnès, sposata a un ingegnere minerario, e poi prende il treno che lo porterà all’ospedale militare di Arras.
Nella battaglia di Dinant, in un solo giorno, il 33° reggimento ha perso 605 uomini tra morti e feriti; 1097 le perdite complessive da parte francese. Circa 3000 quelle subite dai tedeschi.
Ma un nuovo massacro deve ancora venire. La posizione francese è infatti meno salda di quanto appaia. Di fatto la cittadina di Dinant vivrà una “liberazione” di brevissima durata. La notte tra il 21 e il 22 agosto la cavalleria tedesca sostenuta da blindati entra nel cuore della città, sulla sponda destra. Incendia le abitazioni nella centrale Rue Saint-Jacques, mentre il quartier generale francese dà l’ordine di ritirata. Il 23 agosto i Tedeschi, sospettando la presenza di cecchini tra la popolazione, procedono alla fucilazione di 674 civili tra uomini, donne e bambini[46].
Tredici anni dopo, l’11 settembre 1927, il maresciallo Pétain, vice presidente del Consiglio superiore della Guerra, parteciperà a Dinant all’inaugurazione di un monumento dedicato ai caduti del 33° reggimento. Nelle foto lo si vede seguito come un’ombra da un ufficiale spilungone. E’ il suo pupillo: l’uniforme è perfetta, i guanti bianchi. La spada, nel fodero, pende al fianco sinistro, come da regolamento[47].
Adolf Hitler
Hitler viene definitivamente chiamato sotto le armi a metà agosto. Ha seguito con attenzione l’evolvere dell’avanzata tedesca e probabilmente viene a conoscenza dei fatti di Dinant, della sanguinosa battaglia di ferragosto e della successiva riconquista tedesca. Il 16 agosto – quando De Gaulle abbandona, ferito, la prima linea – Hitler si presenta presso la sesta sede di reclutamento di Monaco per essere equipaggiato. Verrà poi assegnato alla 1a compagnia nel 16° reggimento di fanteria della riserva, noto come reggimento List, dal nome del suo comandante Julius von List. Hitler non è l’unico austriaco nel reggimento, che è composto in gran parte da coscritti e solo da una minima quota di volontari. Più del 70% di quegli aspiranti soldati non ha mai ricevuto un’istruzione militare[48]. Una quarantina di giorni dopo saranno inviati al fronte.
Benito Mussolini
Il 21 agosto, in una lettera a Costantino Lazzari, segretario del PSI, Mussolini denuncia il «turbamento» che ha suscitato in lui la posizione assunte da «moltissimi socialisti, sindacalisti e persino anarchici», pronti a marciare in guerra contro l’Austria. Si tengono manifestazioni di simpatia per la Francia, si parla di socialisti e repubblicani che varcano il confine per arruolarsi nel paese transalpino. Grande impressione ha provocato in lui e in tutta la sinistra una conferenza di Alceste De Ambris, che un paio di giorni prima in un comizio milanese dei sindacalisti rivoluzionari, evocando la rivoluzione francese, il 1848 e l’appello di Auguste Blanqui ai socialisti nel 1870 per la difesa della patria dal nemico, aveva auspicato un «nostro intervento per impedire il trionfo della reazione feudale, militarista, pangermanica»[49]. E’ ormai evidente, la guerra è scoppiata da tre settimane e il vento, tra le file della sinistra radicale italiana, soffia in direzione dell’Intesa. La parola d’ordine della neutralità assoluta è superata. Eppure Mussolini, che in cuor suo capisce di rischio connesso a questa posizione – essere cioè scavalcato a sinistra dalle masse -, fatica a liberarsene. «Data questa situazione complessa io credo che in caso di mobilitazione o di guerra all’Austria – continua nella lettera a Lazzari – la Direzione del Partito debba con un manifesto al Paese scindere la propria responsabilità mentre i deputati socialisti negheranno il voto ai crediti militari richiesti per la guerra»[50].
Altra soluzione immediata non vede, oltre a quella di un generico pacifismo. Su cui peraltro la direzione del partito concorda pienamente. Ma il dibattito, sulle pagine dell’Avanti!, si fa più intenso, a dimostrazione della difficoltà a sostenere una difesa intransigente della linea. Una difesa che Mussolini cerca di puntellare mettendo a tacere il sempre più ampio diffondersi di «bellicose impazienze». E lo fa, da un lato, esaltando oltre il lecito il ruolo del partito nell’aver indotto il governo a evitare di schierarsi con l’Austria-Ungheria, sotto la minaccia di una presunta insurrezione. Dall’altro sbilanciandosi in ardite valutazioni storiche e geopolitiche, tese a rintuzzare gli interventisti pro-Intesa: attaccare Austria e Germania senza «un motivo decente» dopo un’alleanza trentennale trascorsa senza particolari dissensi? «Ma l’Italia è pur sempre la terra del diritto e ripugnerebbe alla coscienza italiana […] la pugnalata alle spalle». E poi per fare cosa? Conquistare Trento e Trieste? «Già l’abbinamento di questi nomi denota l’ignoranza, politica, storica e geografica dei professionali dell’irredentismo». Trento si potrebbe ottenere per via diplomatica, ma il Trentino no, perché militarmente inespugnabile. Mentre Trieste, anche ipotizzando la sconfitta della monarchia austro-ungarica, «è dubbio che […] possa restare lungamente italiana, premuta com’è dall’ondata slava…»[51]. Un soprassalto si pacatezza e di rispetto delle regole che non può che stridere rispetto a tutto il vissuto politico mussoliniano. Ma che preannuncia la scaltrezza e la capacità di improvvise accelerazioni e altrettanto repentine frenate del politico in fase di gestazione.
Parallelamente Mussolini accoglie una raccolta di opinioni anche sul suo periodico “personale”, l’Utopia, che peraltro a metà del mese di settembre cesserà le pubblicazioni. Sergio Panunzio, sindacalista rivoluzionario e suo grande amico, scrive sul penultimo numero a proposito del socialismo: «Se sarà necessario imporlo al mondo con la forza, ben venga la guerra»[52]. Guerra e socialismo d’ora in poi non saranno più termini antitetici[53].
EPILOGHI
Le vicende belliche di De Gaulle, Hitler e Mussolini seguiranno percorsi diversi nei mesi e negli anni successivi. Tutti e tre resteranno feriti in battaglia più o meno gravemente. Ma le similitudini finiscono qui. De Gaulle, una volta ristabilito dalla ferita di Dinant ritornerà in prima linea, verrà colpito altre due volte e sarà catturato dai Tedeschi a Douaumont nel marzo 1916, trascorrendo il resto della guerra in prigionia in Germania. Hitler ebbe il suo battesimo del fuoco il 29 ottobre del 1914 nei pressi di Comines, sul confine franco-belga; svolse il suo ruolo di portaordini sempre sul fronte delle Fiandre; subirà una ferita nel 1917 e resterà ustionato agli occhi dai gas nell’ultimo mese di guerra. Per la vicenda bellica di Mussolini – resa possibile dopo i primi “turbamenti” dell’agosto 1914 – occorre invece attendere il settembre 1915, quando come volontario prenderà parte ai combattimenti sul Monte Nero e sul Carso; una ferita da scoppio nel febbraio 1917 porrà fine alla sua esperienza in trincea.
La vita di De Gaulle correrà parallela a quelle di Hitler e Mussolini ma senza mai intersecarle, sopravvivendo loro di un quarto di secolo. Se vogliamo invece individuare un’ultima analogia tra i tre personaggi, naturalmente al netto delle profonde diversità delle convinzioni politiche e degli esiti cui portarono, questa la si può trovare nella vocazione a una leadership personalistica, decisionista e poco tollerante rispetto ai compromessi. Il tutto sorretto da un forte nazionalismo che li spronò, con tempi, modi e risultati diversi, a cercare di trasferire nella realtà quella certaine idée – mitizzata se non addirittura travisata – del proprio Paese, della sua storia e del suo ruolo nel mondo.
Note
[1] C. De Gaulle, Memorie di guerra, L’appello (1940-1942), Milano, Garzanti, 1959, p. 7.
[2] Così Pétain: “s’affirme, dès le début, comme un officier de réelle valeur qui donne les plus belles espérances pour l’avenir (…) Très intelligent, aime son métier avec passion (…) Digne de tous les éloges”, in http://www.marechal-petain.com/officier.htm.
[3]J. Fest, Hitler, 1994, p. 67.
[4]Citato da J. Fest, op. cit., p. 66.
[5]J. Fest, op. cit., p. 68.
[6]Robert G. L. Waite, The Psychopathic God: Adolf Hitler, p. 431.
[7]Citato da J. Fest, op. cit., p. 69.
[8]Cfr. R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, p. 211 nota 1.
[9]“La question militaire dans l’espace public. Le débat sur l’Armée dans la Revue des Deux Mondes et la Revue de Paris à la fine du XIXe siecle”, di C. Prochasson, in AA.VV. Charles de Gaulle, la jeunesse e la guerre 1890-1920, Plon, 2001.
[10] C. De Gaulle, Memorie di guerra, L’appello (1940-1942), Milano, Garzanti, 1959. p. 5-6.
[11]“Campagne d’Allemagne”, in C. De Gaulle, Lettres, notes et carnet 1905-1918, Plon, 1980, p. 13 e sgg. D’ora in avanti questo volume è abbreviato in LNC.
[12]“Le Traité de Francfort et les conséquences européennes de la guerre de 1870-1871”, in LNC, p. 38 e sgg.
[13]“Aux nouvelles recrues”, in LNC, p. 60 e p. 63.
[14]“L’Armée Allemande”, in LNC, p. 77-78.
[15]J. Fest, op. cit., p. 71.
[16]H. Hitler, Mein Kampf, Kaos edizioni, 2002, p. 179. D’ora in avanti questa edizione del Mein Kampf è abbreviata in MK.
[17]MK, p. 179.
[18]MK, p. 181.
[19]Secondo P. Monelli, Mussolini piccolo borghese, Milano 1959, pp. 93 e sgg., Mussolini giunse a queste conclusioni il giorno stesso dell’attentato a Francesco Ferdinando; secondo De Felice sono invece da riferirsi ai giorni immediatamente successivi. Cfr. De Felice, op. cit., p. 224.
[20]R. De Felice, op. cit., pp. 217-218.
[21]B. Mussolini, “Abbasso la guerra!”, in Avanti!, 26 luglio 1914.
[22]Cfr. R. De Felice, op. cit., p. 226.
[23]Jean Mallouy, La mobilisation, da “Armée et Marine”, n. 24, 14 giugno 1914.
[24]Per gli spostamenti del 33° reggimento tra agosto e settembre 1914 si veda Parcours du 33e R.I. (Arras) in http://www.sambre-marne-yser.be/article=9.php3?id_article=139
[25]LNC, p. 81.
[26]Per queste e altre notizie su elmetti ed equipaggiamenti si veda R. Poggi, Elmi chiodati e calzoni rossi, https://www.storiain.net/arret/num155/artic2.asp
[27]“ L’Armée Allemande” in LNC, p. 78.
[28]Parcours du 33e R.I. (Arras) in http://www.sambre-marne-yser.be/article=9.php3?id_article=139
[29]LNC, p. 81.
[30]Cfr. Thomas Weber, Hitler’s First War, Oxford University Press 2010, p. 17, e Hitler and the Outbreak of World War I: A Forged Photo? in http://www.history.ucsb.edu/faculty/marcuse/projects/hitler/articles/HitlerWW1outbreakPhotoForgery.htm. In tempi recenti è emerso un filmato che sembra confermare la presenza di Hitler nella piazza di quel giorno http://www.youtube.com/watch?v=MxP9ekjWzTM
[31]MK, p. 181.
[32]Cfr. I. Kershaw, Hitler, Bompiani, 2003, pp. 131-132.
[33]MK, p. 182.
[34]Ivi.
[35]Citato da R. De Felice, op. cit., p. 216-217.
[36]Citato da De Felice, op. cit., p. 229.
[37]Citato da De Felice, op. cit., p. 240.
[38]B. Mussolini, “In tema di ‘neutralità’ italiana”, Avanti!, 13 agosto 1914.
[39]De Gaulle scriverà queste annotazioni circa un mese più tardi, durante la convalescenza all’ospedale militare di Lione.
[40]Secondo De Gaulle erano le 8 di mattina (cfr LNC p. 85) ma in realtà l’ordine di ritirata dalla cittadella, dopo un inutile tentativo di contrattacco, viene ordinato alle 11 e 15, cfr. Parcours du 33e R.I. (Arras) in http://www.sambre-marne-yser.be/article.php3?id_article=139
[41] Dottrinarismo, esasperata astrazione, incapacità di riconoscere all’azione di guerra il carattere essenzialmente empirico che essa deve rivestire, così nel 1932 De Gaulle definirà lo spirito militare francese dell’epoca. Cfr, C. De Gaulle, Il filo della spada, Il Borghese, 1964, p. 90.
[42]Ligio alle disposizioni del regolamento militare, De Gaulle registrerà con pedanteria di aver affidato il fodero della sciabola a un ciclista, per avere più agio nei movimenti nell’imminenza dell’attacco, e di non aver più ritrovato né lui né il fodero – alla fine della battaglia; LNC, p. 90.
[43] Nel 1975 l’amministrazione cittadina renderà omaggio a questo episodio con una targa commemorativa su una spalletta del ponte: “Qui il tenente Charles De Gaulle fu ferito il 15 agosto 1914 all’alba di una vita interamente consacrata alla difesa dell’uomo e delle sue libertà”.
[44]«Je voudrais!… / Quand je devrai mourir, j’amerais que ce soit / Sur un champ de bataille; alors qu’on porte en soi / L’âme encot tout enveloppée / Du tumulte enivrant que souffle le combat, / Et du rude frisson que donne à qui se bat / Le choc mâle et clair de lépée. [...]», LNC, pag. 50.
[45]Combat de Dinant (15 août 1914) in http://www.sambre-marne-yser.be/article=7.php3?id_article=21
[46]La mort de Dinant. Résumé des massacres d’août 1914, di Michel Hubert, http://www.genedinant.be/site/article.php3?id_article=14
[47]Le immagini in De Gaulle soldat 1914-1918, Martelle éditions, 1999, pp.20-21.
[48]Cfr. Thomas Weber, Hitler’s First War, Oxford University Press 2010, p. 18.
[49]Citato da De Felice, op. cit., pp. 236-237.
[50]Citato da De Felice, op. cit., p. 243.
[51]B. Mussolini, “Al passo!”, Avanti!, 23 agosto 1914.
[52]Citato da De Felice, op. cit., p. 243, nota 2.
[53] E «… questa guerra, fatta dai popoli non dagli eserciti di caserma, segna la fine del militarismo di casta o professionale», dovrà riconoscere Mussolini ne Il mio diario di guerra, Roma s.d., p. 31.