LE VERITÀ INCONFESSATE DELLA STRAGE DI BOLOGNA

di Renzo Paternoster -

 

Neofascisti, servizi segreti, massoni, un corpo in eccesso tra le vittime, presenze inquietanti sul luogo della strage, la mancanza del movente e della rivendicazione, sono gli “ingredienti” di un attentato anomalo, in cui le vittime non hanno ricevuto ancora definitiva giustizia.

quotidianiÈ il 2 agosto 1980, nella sala d’attesa di seconda classe della stazione di Bologna un ordigno esplode causando il crollo dell’ala Ovest, distruggendo una trentina di metri di pensilina e il parcheggio dei taxi antistante lo scalo ferroviario, investendo anche il treno Ancona-Chiasso fermo sul primo binario. Il grande orologio esterno della stazione si ferma alle 10.25, segnando anche l’ora in cui la democrazia italiana è sospesa.
Circa ventitré chilogrammi di esplosivo (approssimativamente cinque chili di una miscela di tritolo e T4 e diciotto chili di nitroglicerina a uso civile) provocano la morte di ottantacinque persone e il ferimento di oltre duecento. La miscela esplosiva era stata posta in una valigia, poi sistemata su di un tavolino portabagagli sotto il muro portante dell’ala Ovest nella sala d’attesa di seconda classe dello scalo ferroviario.
A distanza di 48 ore, con una tempistica più che sospetta, il presidente del Consiglio Francesco Cossiga asserisce al Parlamento che gli autori della carneficina appartengono all’area neofascista. Il 13 gennaio 1981, il provvidenziale ritrovamento sull’espresso Taranto-Milano di una valigia contenente esplosivo identico a quello utilizzato a Bologna, assieme ad alcuni documenti di due neonazisti (un francese e un tedesco legati al gruppo eversivo neofascista Avanguardia Nazionale) conferma sostanzialmente la validità che ascrive a menti e mani di Estrema Destra l’attentato. Tuttavia la valigia, come scoprirà il giudice romano Domenico Sica, era stata messa sul treno da uomini del SISMI, il Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Militare.

La sala d'attesa sventrata

La sala d’attesa sventrata

L’attentato di Bologna del 2 agosto 1980 è stato indubbiamente un atto terroristico anomalo, se confrontato con i precedenti. Eliminato Aldo Moro, e con lui ogni possibilità di apertura al Partito Comunista Italiano a un governo di “alternativa democratica”, la situazione politica interna era grosso modo stabilizzata, per questo a primo acchito la strage sembra non rientrare nella cosiddetta “strategia della tensione” che ha caratterizzato gli anni precedenti. Partendo dal presupposto che il terrorismo deve sempre darsi un fine ideologico, vagheggiare e programmare un risultato politico, altrimenti è solo criminalità, questa strage non sembra avere ricadute politiche per nessuno. Già la forte e insistente attività di depistaggio prova che chi era intervenuto per sviare le indagini conosceva verità inconfessabili, che potevano minare quella stabilità politica sopraggiunta a fatica dopo altre stragi, omicidi politici e ricatti.
Allo stato dei fatti c’è innanzitutto la verità giudiziaria, con due condanne all’ergastolo (Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro) e una a trent’anni di carcere (Luigi Ciavardini). Dinanzi ai giudici sono portati anche due uomini dei servizi segreti, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte, e due faccendieri della loggia massonica P2, Licio Gelli e Francesco Pazienza, considerati tutti depistatori per quanto riguarda le indagini e per questo processati per calunnia (il depistaggio non era ancora un reato).

Gilberto Cavallini, Francesca Mambro e Giusva Fioravanti

Gilberto Cavallini, Francesca Mambro e Giusva Fioravanti

Il curriculum dei tre personaggi condannati è di tutto rispetto. Giuseppe Valerio Fioravanti, detto Giusva, ha accumulato 134 anni e 8 mesi di carcere, oltre ad altre sei condanne per 8 omicidi tra il febbraio del 1978 e quello del 1981. Il suo curriculum parte dalla sottrazione di due casse di bombe a mano durante una guardia notturna mentre faceva il servizio militare, per proseguire con una condanna per “abbandono di posto”, sempre durante il servizio di leva; seguono la detenzione illegale di armi, l’infrazione della legge sugli stupefacenti, le rapine, la ricettazione, l’associazione per delinquere, la tentata evasione, le lesioni personali, l’associazione sovversiva, il danneggiamento e altro ancora.
Francesca Mambro ha accumulato 84 anni e 8 mesi di reclusione: dalla banale affissione abusiva alle rapine, ai sequestri di persona, alla violazione di domicilio, alla ricettazione, alla violazione delle disposizioni sul controllo delle armi, alle lesioni personali, all’associazione sovversiva, alla violenza privata, al falso, alla resistenza a pubblico ufficiale, al danneggiamento, alla contraffazione di impronte.
Luigi Ciavardini, all’epoca della strage minorenne, ha accumulato condanne per rapine e per gli omicidi dell’appuntato di polizia Francesco Evangelista e del giudice Mario Amato.
Nessuno dei tre ha mai mostrato segni di pentimento, continuando a rivendicare l’appartenenza politica alla Destra estrema e rivoluzionaria e dichiarando sempre la propria innocenza per la strage di Bologna. Fioravanti e Mambro, che non hanno avuto remore nel rivendicare e riconoscere altri omicidi, nulla avevano da perdere, viste le condanne a loro carico, nel rivendicare anche l’attentato di Bologna.
Nessuno ha mai dimostrato la loro presenza a Bologna quel giorno. Al contrario, Mambro e Fioravanti hanno sempre ripetuto che il 2 agosto erano a Treviso in compagnia di Gilberto “Gigi” Cavallini, ex terrorista dei NAR. Flavia Sbrojavacca, compagna di Gigi, e sua madre, Maria Teresa Brunelli, confermano che i due hanno dormito a casa di Cavallini e che sono usciti verso le 8,30 del mattino assieme al compagno per andare a Padova, dove avrebbero incontrato Carlo Digilio, terrorista appartenente al gruppo neofascista di Ordine Nuovo, per poi tornare all’ora di pranzo. Successivamente, però, mentre era in carcere, Maria Teresa Brunelli interrogata dai giudici riferisce di non ricordare bene i fatti di quei giorni, tuttavia non smentisce la prima deposizione ma neppure la conferma. L’alibi di Fioravanti e Mambro non è creduto dai giudici, affermando che la madre non conferma l’alibi degli imputati e che la figlia mente. Comunque i giudici non incriminano Flavia Sbrojavacca per falsa testimonianza.

L'orologio della stazione

L’orologio della stazione

L’ambigua testimonianza di un certo Massimo Sparti, malvivente comune gravitante nell’area neofascista, testimone principale dell’accusa nel processo di Bologna, incastra tuttavia Fioravanti e Mambro. Arrestato il 9 aprile del 1981, due giorni dopo si pente e dichiara che Valerio Fioravanti il 4 agosto del 1980 si sarebbe recato da lui a Roma per ottenere un documento falso per Francesca Mambro. In quell’occasione il terrorista dei NAR avrebbe commento l’avvenuta strage con la frase: «Hai visto che botto?», riferendo anche di essersi camuffato da turista tedesco per non essere riconosciuto. Sparti inizialmente dichiara ai giudici che il documento contraffatto è commissionato a un tal Ginesi, detto “Ossigeno”, poi si ricorda di aver consegnato la foto della Mambro a un altro falsario, Fausto De Vecchi. Sparti, pur non conoscendo Francesca Mambro, affermò anche nella sua testimonianza che la donna si era tinta i capelli per non essere riconosciuta, ma a seguito del prelievo di una ciocca di capelli dalla stessa Mambro dopo il suo arresto, non si sono trovate tracce di tintura (che solitamente rimangono in residuo).
Sparti, dopo avere accusato i due terroristi, è scarcerato nel maggio del 1982: i sanitari del penitenziario di Pisa gli diagnosticano un tumore al pancreas in fase terminale. Ricoverato all’ospedale San Camillo di Roma, Sparti è miracolato da qualche buon Dio, poiché il tumore sparisce. Nel maggio del 1997, quando i carabinieri, su ordine del pubblico ministero di Bologna, vanno al San Camillo per acquisire la cartella clinica di Sparti, scoprono che la cartella è andata distrutta a seguito di un incendio scoppiato il 20 settembre 1991 proprio nell’archivio del nosocomio.
Il supertestimone è smentito a più riprese dalla moglie, Maria Teresa Venanzi, dalla suocera, Argene Zucchetti, dalla domestica e, anche se in maniera più confusa, da due conoscenti di famiglia, Luciana Torchia e Vincenzo Tallarico (zio della collaboratrice domestica), i quali riferiscono che Sparti non si trovava a Roma 4 agosto del 1980, ma nella casa di campagna a Cura di Vetralla, vicino Viterbo. La testimonianza di Sparti cade più volte in contraddizione, tuttavia è considerato dai giudici un testimone ancora attendibile. Suo figlio Stefano, riferisce anche di una confessione di suo padre in punto di morte, in cui gli è detto di essere stato costretto a inventare la storia. Nonostante tutto Sparti è sempre creduto dagli inquirenti bolognesi, anche se a sconfessarlo ci si mette pure il secondo falsario, Fausto De Vecchi, il quale arrestato l’8 dicembre 1981, esclude in maniera categorica che le foto consegnatagli dallo Sparti «riproducessero sembianze femminili», salvo poi ritrattare dieci anni dopo la strage e raccontare, in un ambiguo ritorno di memoria, che Sparti, su richiesta di Fioravanti, gli aveva commissionato un documento falso per una donna.

La strage a Bologna è preannunciata già un mese prima da una soffiata, ma nessuno fa niente per verificare la fondatezza delle confidenze. Il 10 luglio 1980, un detenuto neofascista del carcere di Padova, Luigi Vettore Presilio, riferisce al Giudice di sorveglianza di Padova, il dottor Tamburino, di aver appreso che di lì a poco si realizzerà per mano neofascista un gravissimo attentato «di tali proporzioni per cui ne avrebbe parlato la prima pagina di tutti i giornali del mondo», precisando anche la data dell’attentato, che «si sarebbe verificato nella prima settimana d’agosto». Vettore Presilio riceve la confidenza da Roberto Rinani, un neofascista inserito nella cellula eversiva Ordine Nuovo di Massimiliano Fachini. Rinani al processo negherà di aver conosciuto e parlato con Vettore Presilio in carcere. Di tutto ciò il giudice Tamburino informò immediatamente i funzionari della Digos. Per questa rivelazione, Luigi Vettore Presilio è accoltellato in carcere da quattro uomini incappucciati. Per qualcuno l’attentato della confidenza era quello riferito alla mancata strage a Milano di Palazzo Marino della notte tra il 29 e il 30 luglio 1980 (una Fiat 132 imbottita di esplosivo deflagrò pochi minuti dopo l’uscita dei consiglieri comunali da Palazzo Marino, la strage fu evitata anche grazie al fatto che un altro tubo di piombo e una tanica contenenti altro esplosivo furono proiettati all’esterno della vettura e fortunatamente non esplosero). Tuttavia la confidenza parlava chiaro: l’attentato si sarebbe verificato nella prima settimana d’agosto.
La possibilità di un attentato di “enormi proporzioni” nei primi giorni di agosto è anche riferita il 31 luglio 1980 nel rapporto scritto al SISDE (il Servizio segreto civile) del colonnello Amos Spiazzi, che aveva ricevuto la confidenza pochi giorni prima dal neofascista Francesco Mangiameli, detto Ciccio, durante una passeggiata sul Lungotevere di Roma. A seguito di un’intervista all’Espresso, Spiazzi, pur non rivelando il nome del suo informatore, lo identifica col soprannome di Ciccio, decretando la condanna a morte di Mangiameli, che avviene il 9 settembre del 1980, a Tor dei Cenci presso Roma, per mano di un commando composto da Francesca Mambro, Valerio e Cristiano Fioravanti, Giorgio Vale e Dario Mariani.
Anche il giudice Amato, nelle audizioni del 25 marzo e 13 giugno 1980 davanti al CSM, segnala la pericolosità dinamitarda dei gruppi eversivi di Destra.
Stando a una testimonianza del camerata Mauro Ansaldi, negli ambienti della Destra armata si conosceva l’esistenza di un attentato a Bologna per il 2 agosto 1980. Ansaldi riferì a un giudice di aver saputo da Mara “Jeanne” Cogolli, la redattrice della rivista clandestina Quex, di un incontro avvenuto pochi giorni prima della strage tra lei e Massimiliano Fachini, esponente di spicco di Ordine Nuovo. Quest’ultimo le avrebbe consigliato di lasciare Bologna perché stava per succedere qualcosa di grosso. La Cogolli, in compagnia di Mario Guido Naldi, lasciò effettivamente Bologna all’alba di sabato 2 agosto.

La lapide nella sala d'attesa

La lapide nella sala d’attesa

Una prima grande stranezza materiale è legata al corpo di una delle vittime ufficiali della strage, Maria Fresu. Tutti i corpi delle vittime di Bologna sono riconoscibili, seppur segnati dalla deflagrazione, solo quello di Maria non è stato ritrovato integro, ma scomposto in meno di dieci reperti biologici, poi attribuiti alla donna: “un occhio con iride castana; un frammento del volto a cute glabra dal mento al labbro inferiore; un lembo di pelle corrispondente alla parte di una sopracciglia depilata verso l’esterno; un lembo di naso; alcuni denti dell’arcata inferiore; un frammento di un femore; la mano destra incompleta con solo mignolo, anulare e dito medio”. I familiari della povera ragazza riconosco Maria dai frammenti del volto, tutti comunque privi di struttura ossea; la sorella aggiunge anche che Maria si era depilata le sopracciglia il giorno prima di partire. I familiari riconoscono anche una borsa da viaggio, una valigia e una giacchetta appartenenti a Maria. La stranezza, anzi le particolarità legate a Maria Fresu riguardano il lembo facciale ritrovato e la disintegrazione quasi totale del corpo della donna.
Maria Fresu, originaria della Sardegna e trapiantata in Toscana per lavoro, si trova nella stazione di Bologna con sua figlia Angela, di tre anni, e con le amiche Verdiana Bivona e Silvana Ancillotti. Sono insieme perché attendono il treno che le avrebbe portate in ferie sul lago di Garda. A seguito dello scoppio dell’ordigno, la piccola Angela muore per la frattura del rachide cervicale, Verdiana perisce per traumatismo cranio facciale cervicale torace addominale, Silvana è gravemente ferita ma si salva. Sia il corpo di Angela sia quello di Verdiana sono intatti, seppur segnati dallo scoppio e dagli effetti del crollo della sala d’attesa. Di Maria è ritrovato ben poco.
Nel verbale d’interrogatorio del 6 agosto redatto da un anonimo funzionario della Polfer (la firma in calce dello stesso poliziotto è irriconoscibile), Silvana Ancillotti spiega che Maria, sua figlia Angela e Verdiana, al momento del botto sono tutte e tre vicinissime a lei. Le quattro donne sostano nella sala d’attesa lontane dall’area di scoppio ritenuta mortale per gli effetti della detonazione e, secondo la testimonianza di Silvana Ancillotti, Maria non si è mai allontanata dalla figlia, nemmeno per andare in bagno. Allora, perché i corpi di Angela e Verdiana non si sono disintegrati come quello di Maria e, addirittura Silvana si salva? Come mai gli effetti personali di Maria sono rinvenuti intatti (s’è salvata finanche la carta d’identità, oltre la valigia e una giacchetta) a differenza del corpo della povera vittima? È acclarato che quando c’è un’esplosione i corpi si trovano sempre, anche quando l’ordigno si trova a contatto con una persona: se pensiamo ai moderni kamikaze, è dimostrato che il loro corpo non si disintegra del tutto, qualcosa si trova sempre, specialmente le parti “pesanti” come il tronco o il cranio, anche se orribilmente mutilati.
Riguardo al lembo facciale ritrovato, il gruppo sanguigno di questo reperto biologico attribuito alla Fresu non corrisponde a quello della donna, ma nemmeno a quello di nessun’altra tra le 85 vittime che presentano danni al volto. Il lembo facciale fu attributo da un perito alla Fresu ricorrendo alla tesi delle “secrezione paradossa” (ossia la produzione nei liquidi di un individuo di sostanze “gruppo-specifiche” diverse da quelle che ha nel sangue), ma la scienza di oggi esclude questa argomentazione. A questo punto tra le vittime c’è un pezzo di corpo in più, che non appartiene a nessuna delle vittime accertate, e pezzi di corpo in meno, quelli della povera Maria Fresu che si è inspiegabilmente volatilizzata quasi del tutto.

Presenze inquietanti e reperti appartenenti a personaggi legati ad altro terrorismo, diverso dunque da quello neofascista, sono presenti sul luogo della strage.
Tra le macerie generate dall’esplosione è ritrovato un passaporto intestato a un certo Salvatore Muggironi. Era un professore di origine sarda il cui nome risultò legato alla Sinistra extraparlamentare del periodo. Lo smarrimento del documento non venne mai denunciato dal proprietario. Come mai quel passaporto finì nella stazione di Bologna proprio il giorno dell’attentato?
Le schede personali di Salvatore Muggironi indicano la sua affiliazione a un gruppo della Sinistra extraparlamentare operante in Sardegna. All’interno di questo gruppo risultavano militanti anche Giovanni Paba e Franco Secci, due personaggi arrestati nel 1976 poiché ritrovati su un treno per Amsterdam proveniente dalla Repubblica Federale tedesca con armi ed esplosivo, quest’ultimo molto simile a quello utilizzato a Bologna nel 1980. Oltre alla santabarbara itinerante, i due avevano con sé un elenco di nominativi di terroristi italiani e palestinesi detenuti nelle carceri italiane.
Muggironi, confermò la sua presenza a Bologna nell’estate del 1980 per effettuare una visita oculistica (il professore aveva effettivamente seri problemi alla vista), riferendo di aver alloggiato alla Pensione Fusari e all’Hotel Apollo. Lo smarrimento del documento fu giustificato da una involontaria dimenticanza dello stesso presso un suo amico pizzaiolo di origini sarde, tale Franco Fulvio Berardis, che successivamente si rifiutò di restituirlo. Nessun riscontro concreto fu trovato alle dichiarazioni di Salvatore Muggironi circa i luoghi dove aveva alloggiato e neppure alla visita oculistica e all’amico pizzaiolo. Le indagini su Muggironi furono comunque archiviate dalla magistratura bolognese, dopo che un provvidenziale rapporto dei Carabinieri della città emiliana attribuiva le lacune alla volontà del professore di mascherare indicibili frequentazioni sessuali.

Un’altra presenza inquietante a Bologna nei giorni della strage è quella di Thomas Kram, un tedesco esperto in esplosivi con un passato nelle Revolutionäre Zellen (Cellule Rivoluzionarie), una organizzazione eversiva della Sinistra estrema attiva nella Germania occidentale, e poi schedato dalla STASI, il servizio segreto della Repubblica Democratica Tedesca, come elemento del gruppo terroristico filo-palestinese del venezuelano Ilich Ramírez Sánchez, meglio conosciuto come Carlos. Kram era a Bologna, forse accompagnato anche una donna, Christa Margot Frohlich, anch’essa esperta in esplosivi e legata al gruppo di Carlos. Quest’ultima nel 1982, sarà arrestata all’aeroporto romano di Fiumicino con del tritolo T4 al plastico, esplosivo molto simile a quello usato per il depistaggio sul treno Taranto-Milano e, quindi, anche a quello utilizzato a Bologna. Di certo il tedesco ha trascorso la notte del 1° agosto 1980 nell’albergo Centrale, stanza n.21, per poi allontanarsi da Bologna nella tarda mattinata del 2 agosto.
Queste presenze a Bologna hanno aperto nuovi scenari, indirizzando verso una “pista palestinese”. Alla base di questa ipotesi, la strage è stata o un atto ritorsivo da parte del “Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina di George Habbash, oppure uno scoppio accidentale legato al trasporto di esplosivo legato ad altri scopi relativi sempre alla pista palestinese.
In pratica tra il governo italiano e i guerriglieri palestinesi esisteva un tacito accordo di non belligeranza, di cui si era fatto garante Aldo Moro con l’intermediazione del colonnello Stefano Giovannone, uomo dei SISMI in medioriente. L’accordo stabiliva grosso modo che ai palestinesi era concesso il trasporto di armi, esplosivi e munizioni sul suolo italiano, astenendosi però da qualsiasi azione terroristica in Italia. Dal 1973 in effetti i palestinesi non attuarono attentati in Italia. Un evento fortuito interruppe questo accordo: il 7 novembre 1979, a bordo di un furgone che trasportava due missili Sam-7 Strela provenienti dal Libano, furono arrestati tre militanti dell’autonomia operaia romana. A Bologna fu arrestato anche Abu Anzeh Saleh, giordano, responsabile in Italia del “Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina”. Nella sua agenda fu rinvenuto un numero di telefono accanto al nome di un certo “Stefano”. Quel numero corrispondeva all’utenza telefonica romana del colonnello Stefano Giovannone.
L’arresto di Saleh a Bologna non piacque al leader palestinese George Habbash, che si sentì tradito dal governo italiano. L’8 marzo 1980 la questura di Bologna segnalò al Viminale un certo nervosismo negli ambienti della resistenza palestinese per la detenzione di Saleh, mentre l’11 luglio il prefetto Gaspare De Francisci, capo dell’UCIGOS, l’Ufficio Centrale per le Investigazioni Generali e per le Operazioni Speciali della Polizia, inviò un’informativa al SISDE, il servizio segreto civile, e al questore di Bari (Saleh era detenuto nel carcere speciale di Trani), lanciando l’allarme di possibili ritorsioni da parte dei palestinesi. Ventidue giorni dopo la bomba esplose nella stazione di Bologna. Nonostante Abu Anzeh Saleh sia stato condannato a sette anni di reclusione, l’8 agosto 1981, dopo aver scontato appena ventuno mesi di reclusione, fu scarcerato su ordine della Cassazione. Più tardi il giordano smentirà le pressioni dell’FPLP per la sua scarcerazione, negando di aver avuto rapporti con Carlos e la sua organizzazione, ma non spiegando come mai il suo indirizzo bolognese, “via S. Pio V 13, secondo piano a sinistra”, fu ritrovato nei documenti di Mourkabal Michel Walid, luogotenente dello stesso Carlos, a seguito di una perquisizione in Francia.

Una scoperta nel 1982 riapre la pista massonica collegata alla P2 di Licio Gelli. Al momento del suo arresto a Ginevra è sequestrato al venerabile un documento scritto di suo pugno con l’intestazione “Bologna” seguita da un numero di conto corrente di una banca svizzera. In questo promemoria è probabilmente riportato un finanziamento avvenuto subito prima e dopo la strage di Bologna di 13.970.000 dollari in favore di più persone, tutte indicate da sigle. Questo documento assegnerebbe a Gelli e al suo entourage il ruolo di mandante e di finanziatore della strage. Tuttavia per i giudici non ci sono elementi concreti per fondare l’ipotesi di un finanziamento da parte di Gelli. Quindi, non si può dimostrare sia una sua erogazione economica sia una sua collaborazione all’esecuzione della strage correlata a un progetto di rivolgimento istituzionale violento legato alla strategia della tensione.
Una ultima ipotesi, suffragata anche dal giudice in pensione Rosario Priore e dal giornalista e avvocato Valerio Cutonilli, riguarda sempre la pista palestinese, ma con destinazione finale diversa da quella di Bologna. In pratica lo scoppio nella stazione del capoluogo emiliano fu casuale, mentre doveva essere il carcere di Trani la destinazione finale dell’esplosivo, per far evadere Abu Anzeh Saleh lì detenuto. Questa ipotesi è fortemente rigettata dal presidente dell’“Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna del 2 Agosto 1980”, che ha finanche sbandierato il reato di depistaggio per il giudice.
Sospesa la condanna a Saleh, anche le posizioni di Thomas Kram e di Christa Margot Frohlich sono archiviate dai giudici nel febbraio 2015. Abbandonata definitivamente la pista palestinese, quella neofascista si riapre nel marzo 2017, con la notifica, a seguito di un dossier presentato nel luglio 2015 dell’“Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna del 2 Agosto 1980”, all’ex NAR Gilberto Cavallini di concorso nella strage di Bologna, nell’ipotesi che abbia partecipato alla preparazione dell’attentato e a aver fornito i covi in Veneto alla latitanza di Fioravanti e Mambro.

Il quadro di Guttuso dedicato alla strage

Il quadro di Guttuso dedicato alla strage

Dopo trentasette anni gli italiani e i familiari delle vittime hanno solo una verità giudiziaria alla quale molti faticano a credere, perché monca di mandanti, finanziatori e, soprattutto, movente. Nonostante la magistratura abbia concluso il suo percorso individuando gli esecutori materiali dell’orribile mattanza, la strage di Bologna – come abbiamo visto – resta uno degli episodi più tristi della storia italiana, con molte verità condite da un mix di disinformazione, depistaggi, cadaveri scomparsi, presenze straniere ed eversive inquietanti, mancanza apparente di un risultato politico.
Dopo la bomba alla stazione Renato Guttuso realizzò un quadro dando all’opera lo stesso titolo di un’incisione di Francisco Goya: Il sonno della ragione genera mostri. L’artista aggiunse in calce la data della strage, il 2 agosto 1980 appunto, e la sua firma. La tavola, ora esposta nel Museo Guttuso, raffigura un uccello-mostro con il corpo umano con denti aguzzi e occhi di fuoco, che tiene una bomba a mano nella sinistra e un pugnale nella mano destra e colpisce alcuni corpi sopra i quali sta a cavalcioni. L’immagine suggerisce perfettamente l’idea che “il sonno della ragione politica” rende vulnerabili e diviene la causa dell’origine di mostri che uccidono e di mostri che, nel “sonno della loro ragione politica”, allontanano le verità nascondendo un substrato di inconfessabili verità che, sicuramente, delegittimerebbero i Palazzi del potere. Questi ultimi non sono meno mostri dei primi.

Per saperne di più

Chiocci G.M., Passa C., Ustica e Bologna, prima delle stragi gli arabi lanciarono un ultimatum, “il Giornale”, 21 settembre 2005.
Bocca R., Tutta un’altra strage, BUR, Milano 2007.
Colombo A., Storia nera. Bologna, la verità di Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, Cairo, Milano 2007.
Provvisionato S., Strage di Bologna, il controdossier di Sandro Provvisionato, «Miccia corta», 2007, http://www.micciacorta.it/archivio/articolo.php?id_news=648
Cutonilli V., Priore R., I segreti di Bologna. La storia mai raccontata della diplomazia parallela italiana, Chiarelettere, Milano 2016.
Bolognesi P., Alto tradimento. La guerra segreta agli italiani da Piazza Fontana alla strage della stazione di Bologna, Castelvecchi, Roma 2016.
«Segreti di Stato», http://www.segretidistato.it.
«Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna del 2 Agosto 1980», http://www.stragi.it/.