LE RADICI STORICHE DELL’ANTISEMITISMO ISLAMICO
di Daniela Franceschi -
Un luogo comune storico sostiene che l’antisemitismo arabo e musulmano non abbiano radici antiche, ma sia invece sorto solo con la nascita del sionismo. Le cose stanno diversamente e sono il frutto di una miscela di fanatismo religioso, anti-occidentalismo e irrazionalità.
Uno degli argomenti principali della propaganda anti-israeliana è che, per quanto concerne la Palestina, arabi e musulmani non sono mai stati ostili agli ebrei e all’ebraismo, ma solo al sionismo e ai sionisti. Dopo tutto, i musulmani non hanno trattato le loro minoranze ebraiche in modo di gran lunga migliore dei loro omologhi europei? Gli arabi e gli ebrei non hanno convissuto armoniosamente per secoli prima dell’avvento del movimento sionista? Come affermò Fayez A Savegh, rappresentante del Kuwait durante il dibattito all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sulla risoluzione che equiparava il sionismo al razzismo nel novembre del 1975: “noi nel mondo arabo abbiamo sempre offerto ospitalità agli ebrei che fuggivano dalle persecuzioni in Europa quando l’antisemitismo europeo li spingeva nelle nostre braccia… è stato soltanto quando è arrivato il sionismo che, nonostante la nostra ospitalità verso gli ebrei, siamo diventanti ostili al sionismo”.
Questa rappresentazione idilliaca è in contrasto con la documentazione storica. È vero, la persecuzione degli ebrei nel mondo arabo non ha mai raggiunto lo stesso livello dell’Europa cristiana. Ma questo non ha protetto le comunità ebraiche del mondo arabo da secoli di inferiorità legalmente istituzionalizzata, da restrizioni sociali umilianti e dalla rapacità dei funzionari locali e della popolazione musulmana in generale. Nella stessa Palestina pre-sionista, i contadini arabi, durante la rivolta del 1830 contro la coscrizione obbligatoria imposta dalle autorità egiziane, colsero l’occasione per devastare le comunità ebraiche di Gerusalemme e Safed, e, a loro volta, i militari intervenuti per sedare l’insurrezione uccisero gli ebrei di Hebron. Un secolo più tardi, nel dicembre del 1941, a seguito di un fallito colpo di stato filo-nazista in Iraq, gli ebrei di Baghdad furono sottoposti ad un orrendo massacro in cui morirono a centinaia.
È possibile dunque affermare, nonostante le osservazioni contrarie, che arabi e musulmani non hanno mai realmente fatto una distinzione tra sionisti, israeliani ed ebrei, e spesso usano questi termini in modo interscambiabile. Per esempio, Anis Mansur, uno dei più importanti giornalisti egiziani e consigliere del presidente Sadat, ammetteva: “Non c’è niente di simile in tutto il mondo come l’ebreo e Israele. Ogni ebreo è un israeliano. Nessun dubbio a riguardo”. In effetti, l’antisionismo arabo e musulmano riflette un odio che va ben oltre il livello “normale” di ostilità che ci si aspetterebbe in seguito a uno scontro prolungato e aspro, appare, più che una risposta all’attività sionista, come una manifestazione di pregiudizi radicati che sono stati portati allo scoperto dal conflitto in atto.
Con questo non si intende negare lo scontro tra i due gruppi nazionali. Ma è proprio perché il movimento sionista è stato interpretato come incarnazione delle peggiori caratteristiche tradizionalmente associate agli ebrei nella mente degli arabi musulmani che l’impresa sionista è descritta in una luce così nefasta da politici e intellettuali musulmani. Come Lutfi Abdel Azim, il direttore di un prestigioso settimanale egiziano, che nel 1982, tre anni dopo la conclusione di un trattato di pace tra Egitto e Israele, scrisse: “un ebreo è un ebreo, e non è cambiato per migliaia di anni. È vile, spregevole, disprezza tutti i valori morali, rosicchia la carne viva e succhia il sangue per una miseria. Il mercante ebreo di Venezia non è diverso dagli acerrimi carnefici di Deir Yasin e da quelli dei campi profughi. Entrambi sono modelli simili di depravazione disumana”.
Da dove provengono tali pregiudizi? È stato giustamente osservato che la moderna ideologia antisemita è un’invenzione dell’Europa del XIX secolo, e che tradizionalmente il mondo islamico ne era in gran parte libero. Ma la facilità e la rapidità con cui i precetti dell’antisemitismo europeo sono stati assimilati da parte del mondo arabo-musulmano testimoniano la pre-esistenza di un profondo fanatismo antiebraico. Questo fanatismo risale al primo periodo dell’Islam, e in effetti al profeta Maometto stesso.
Al momento della sua migrazione dalla sua città natale, La Mecca, a Medina nel 622, Maometto lusingò la popolazione ebraica locale, sottolineando la somiglianza tra la sua nuova religione e il giudaismo, adottando una serie di pratiche e rituali religiosi ebraici. Dal momento che questi gesti non riuscirono a impressionare gli ebrei di Medina, che divennero critici verso Maometto mettendo in evidenza le lacune e le incongruenze presenti nel Corano e il suo travisamento dell’Antico Testamento, il profeta si scagliò contro le tre tribù ebree di Medina. Usando alcuni incidenti come banali pretesti, espulse la tribù Qaynuqa, la più debole delle tre, dalla città e ne divise le proprietà tra i musulmani. Tre anni dopo, nel marzo del 625, dopo che una sconfitta militare aveva intaccato il prestigio di Maometto agli occhi delle vicine tribù beduine, fu il turno della tribù Nadir di pagare il prezzo della battuta d’arresto del profeta: dopo un assedio di poche settimane, gli ebrei della tribù Nadir furono cacciati dalla città e le loro terre assegnate ai musulmani. L’ultima e più potente tribù ebraica – Quraiza – soffrì in maggior misura in seguito al fallito assedio di Medina, nella primavera del 627. Con la collaborazione del nemico, 600-800 uomini della tribù furono portati in piccoli gruppi davanti a fosse scavate il giorno precedente, fatti sedere sul bordo, poi decapitati uno ad uno e gettati dentro. Le donne e i bambini furono ridotti in schiavitù e venduti, il ricavato della loro vendita, così come i beni posseduti dalla tribù, furono divisi tra i musulmani. Questo processo è stato completato dall’ingiunzione, formulata sul letto di morte da Maometto, che ordinava l’espulsione degli ebrei (e dei cristiani) dalla penisola araba: “due fedi non vivranno insieme nella terra degli arabi”.
Questa eliminazione fisica è stata accompagnata da una crescente rottura dell’Islam con le sue origini ebraiche. La direzione della preghiera è stata cambiata da Gerusalemme alla Mecca, il sabato sostituito dal venerdì come giorno sacro del riposo, il minareto ha sostituito le trombe ebraiche (e le campane cristiane) come richiamo per la preghiera, e il Ramadan è stato designato come mese del digiuno. Inoltre, riflettendo l’indignazione di Maometto per il rifiuto del suo messaggio religioso da parte della comunità ebraica contemporanea, sia il Corano sia le successive biografie del profeta abbondano di raffigurazioni negative degli ebrei. In queste opere vengono rappresentati come un popolo ingannevole, traditori che nel suo desiderio insaziabile di dominio potrebbe facilmente raggirare un alleato e truffare un non-ebreo. Gli ebrei hanno manomesso le Sacre Scritture, disprezzato il messaggio divino di Allah, e perseguitato il suo messaggero Maometto proprio come avevano fatto con i profeti precedenti, tra cui Gesù di Nazareth. Per questa malvagità, essi saranno soggetti a una serie di punizioni, sia nella vita dopo la morte, quando bruceranno all’inferno, e qui sulla terra dove sono stati giustamente condannati ad un’esistenza di miseria e umiliazione.
Come suggerisce questa sintesi, i tratti associati agli ebrei producono una miscela paradossale: sono prepotenti e deboli, arroganti e vili. “Non ho mai visto la maledizione pronunciata contro i figli di Israele più pienamente esercitata che in Oriente”, scriveva un viaggiatore occidentale dell’Impero Ottomano all’inizio del XIX secolo, “dove sono considerati come a metà tra uomini e animali”.
La convergenza tra l’antisionismo arabo-musulmano e l’antisemitismo classico europeo conosce un nuovo sviluppo durante gli anni Trenta con l’ascesa dei Fratelli Musulmani in Egitto, così come nell’alleanza de facto tra il nazismo tedesco e Haj Amin el-Husseini, leader indiscusso del nazionalismo arabo palestinese. L’antisemitismo è stato un importante, addirittura un vitale, cemento di tali alleanze ideologiche e politiche. Non è stato un caso che nel corso degli anni Cinquanta, nell’Egitto di Nasser, un certo numero di consiglieri nazisti sulla “questione ebraica” trovasse non soltanto un rifugio dalla giustizia, ma contribuisse a organizzare una grande campagna di propaganda “antisionista” che raggiunse l’Europa, l’Africa, l’Asia, l’America Latina e il Medio Oriente. L’ipotesi antisemita comune dietro questo massiccio programma di indottrinamento condotto dall’ Egitto era che Israele, il sionismo e gli ebrei rappresentassero un’unica radice velenosa e mortale all’interno di un piano ebraico di dominio del mondo. I rami di questa “mafia mondiale” presumibilmente si estendevano da Gerusalemme e New York agli angoli più remoti della terra.
La guerra dei Sei Giorni del 1967 e la caduta di Gerusalemme Est nelle mani di Israele hanno esacerbato ulteriormente la militanza islamista del vecchio-nuovo antisemitismo anti- sionismo.
I biasimi coranici contro i “traditori e perfidi giudei” erano ormai ampiamente citati, trattati polemici medievali contro l’ebraismo e gli ebrei erano portati nuovamente alla luce; mentre gli scritti antisemiti di autori come Sayyid Qutb (giustiziato dal regime di Nasser nel 1966), l’ideologo dei Fratelli musulmani egiziani, erano ampiamente diffusi. La débâcle del 1967 degli Stati arabi con la congiunta umiliazione nazionale, la perdita dell’onore arabo e l’occupazione da parte di Israele di ciò che era ritenuta essere “terra islamica”, hanno affilato e intensificato la demonologia del sionismo preesistente. Sempre più spesso, lo Stato ebraico è stato visto come un reincarnazione del ventesimo secolo dell’astuto e insidioso “spirito del giudaismo”.
Anche il presidente egiziano Sadat, l’uomo che sarebbe andato più lontano di qualsiasi altro leader del Medio Orientale nell’accettazione dell’esistenza di uno Stato ebraico sovrano, ricordava al suo popolo nell’aprile del 1972 perché gli ebrei erano stati schiacciati e perché il loro potere era ancora da temere: “Erano i vicini di casa del Profeta a Medina. Essi erano i suoi vicini di casa, e ha negoziato con loro e hanno raggiunto un accordo. Ma alla fine hanno dimostrato che essi erano uomini di inganno e di tradimento, in quanto hanno concluso un trattato con i suoi nemici, in modo da colpirlo a Medina e attaccarlo dall’interno… Sono un popolo di traditori e bugiardi, di orditori di trame, un popolo nato per atti di tradimento”.
La rivoluzione di Khomeini nell’Iran sciita nel 1979 ha aggiunto un elemento ancora più radicale a questo antisemitismo teologico-politico. Il “Khomeinismo” ha combinato un orrore specificamente sciita degli ebrei come ritualmente “impuri” (najas) con l’ostilità religiosa islamica in quanto antichi nemici dell’Islam. Ciò si sovrapponeva ad una demonizzazione dell’inesistente “cospirazione satanica” tra Stati Uniti e Israele per distruggere l’Iran. Da Khomeini a Ahmadinejad, fino ad Ali Khamenei, l’antisionismo islamico iraniano (in cui gli Stati Uniti sono il “grande satana” e Israele figura come il “piccolo Satana”) continua ad attribuire tutti i mali del mondo ad una sconfinata ambiguità ebraica e ad un desiderio sionista incessante di “dominio globale.”
Questa ideologia antisemita e anti-sionista motiva non solo l’Iran, ma anche la formazione sciita libanese Hezbollah e la musulmana sunnita Hamas (un ramo della Fratellanza Musulmana egiziana) a Gaza. È importante notare che né l’Iran, né Hezbollah né Hamas si sottraggono alla richiesta genocida di una distruzione totale dello Stato di Israele. Non è certo un caso che queste formazioni che negano con insistenza la Shoah siano le stesse che esigono l’eliminazione fisica di Israele.
Per quanto concerne il contesto palestinese, sia Fatah che Hamas hanno pienamente abbracciato tale negazionismo radicale e il suo programma. Nell’accordo originale per la fondazione dell’OLP nel 1964, così come nelle sue edizioni successive, tutto il sionismo è considerato un “movimento illegale”, la Dichiarazione Balfour è considerata “nulla”, e viene categoricamente negato qualsiasi legame storico tra il popolo ebraico e la terra di Israele. Non c’è da stupirsi che il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton sia rimasto profondamente frustrato per la totale intransigenza del leader dell’OLP Yasser Arafat nell’estate del 2000 durante il negoziati con il premier israeliano Ehud Barak. L’errore di Clinton è stato quello di presumere che la “questione palestinese” riguardasse in ultima analisi il territorio e non l’esistenza stessa di Israele, come stato ebraico sovrano in Medio Oriente. Il doppio linguaggio di Arafat ha senza dubbio reso molto più facile tale auto-inganno occidentale circa le intenzioni palestinesi.
Questo livello di dissimulazione in una certa misura è cambiato. Il controllo draconiano di Gaza da parte di Hamas dal 2006, la subordinazione del nazionalismo palestinese alla fede islamica militante, il suo incitamento palesemente antisemita, rendono tali pretesti futili. Come ha detto uno storico israeliano senza mezzi termini, per Hamas, “la distruzione dello Stato ebraico è il comando di Allah”.
È certamente significativo che arabi e musulmani giudeofobi – malgrado il loro odio per l’Occidente – abbiano scelto di annettere i simboli e le espressioni dell’antisemitismo europeo senza alcuna esitazione, tra cui la negazione della Shoah come parte integrante della loro guerra contro Israele. Si riscontra una disponibilità crescente tra i musulmani a credere, per esempio, che gli ebrei abbiano consapevolmente inventato la “menzogna Auschwitz”, la “bufala” del proprio sterminio, come parte di un piano diabolico per sopraffare l’Islam e dominare il mondo. In questo surreale, scenario machiavellico, l’archetipo del “satanico ebreo” – autore e destinatario del più grande “mito” del XX secolo – raggiunge una vera e propria apoteosi.
Uno dei motivi di attrazione della negazione della Shoah per gli arabi antisemiti risiede nel fatto che interpretano la negazione come una sfida radicale ai fondamenti morali dello Stato ebraico. Leader e intellettuali arabi e palestinesi sono stati particolarmente attivi nel promuovere questo sforzo. Così, il leader palestinese Hamas Khalid Mashaal su Al-Jazeera TV (16 luglio 2007) ha voluto “far capire all’Occidente e al popolo tedesco che venivano ricattati” a causa di ciò che il nazismo aveva fatto ai sionisti. Per Mashaal, era evidente che ciò che Israele aveva fatto al popolo palestinese era molto peggio di quello che il nazismo aveva fatto agli ebrei. Questa convinzione era condivisa anche da Mahmoud Abbas (meglio noto come Abu Mazen), l’architetto degli accordi di pace di Oslo, a capo dell’Autorità palestinese, che abbracciò la negazione della Shoah più di trentacinque anni fa. Infatti, scrisse un saggio tratto dalla sua tesi di dottorato, discussa a Mosca nel 1982, sui Rapporti segreti tra il Nazismo e il Movimento Sionista. Facendo riferimento al negazionista Faurisson, affermava che la cifra di sei milioni di morti era falsa, poiché gli ebrei morti nei lager erano meno di un milione.
In Iran, la negazione del genocidio ebraico si è diffusa a partire dai primi anni Ottanta, a fianco delle caricature naziste dell’ebreo “talmudico”, la promozione dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion, e gli appelli ripetuti per sradicare il “cancro” sionista dal pianeta. Questa escalation è stata un passo logico per il radicalismo in stile Khomeini che, dal 1979, ha completamente demonizzato il sionismo come nemico del genere umano. Quindi, non sorprende che la Guida Suprema dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei, abbia potuto annunciare al suo popolo che: “ci sono prove che dimostrano che i sionisti avevano stretti rapporti con i nazisti tedeschi e esageravano le statistiche sugli omicidi degli ebrei. Ci sono anche le prove che un gran numero di teppisti non ebrei e teppisti dell’Europa orientale sono stati costretti a emigrare in Palestina come ebrei (…) installare nel cuore del mondo islamico uno Stato anti-islamico con il pretesto di sostenere le vittime del razzismo”.
Il presidente iraniano Ahmadinejad ha definito nel 2005 la Shoah un mito e “una spregevole propaganda sionista”. Molti giornalisti iraniani, prendendo spunto da queste affermazioni sconsiderate, hanno ripetuto fino alla nausea che la “lobby sionista” usava il genocidio degli ebrei. Nel dicembre del 2006 l’Iran ha ospitato una conferenza molto pubblicizzata accogliendo i più noti negazionisti. Il Ministro degli Esteri, Manouchehr Mottaki, aprì i lavori affermando che, “se la versione ufficiale dell’Olocausto è messa in dubbio, allora l’identità e la natura di Israele saranno messi in dubbio.” I partecipanti hanno in effetti messo in dubbio il fatto storico della Shoah. Il punto su cui convenivano tutti i partecipanti era che lo sterminio degli ebrei era stato grossolanamente manipolato per servire gli interessi finanziari e politici di Israele. La conferenza di Teheran può essere vista come esempio di una politica antisemita.
Nel caso iraniano, la negazione della Shoah è apertamente legata all’estremo antisionismo, ad un letale antisemitismo, e alla sponsorizzazione del terrorismo globale, guidato dal culto della jihad islamica, che cerca senza sosta l’eliminazione del “tumore chiamato Israele”.
Il collegamento più noto tra negazionisti occidentali e mondo arabo si è creato in risposta al processo contro Roger Garaudy nel 1998 in Francia. È importante ricordare che in Francia vige dal 13 luglio del 1990 la Legge Gassot che con un emendamento, l’articolo 24bis alla legge del 1881 sulla libertà di stampa, rende perseguibile chiunque contesti “l’esistenza di uno o più crimini contro l’umanità”, così come definiti dall’articolo 6 del tribunale di Norimberga.
Garaudy, ex comunista convertitosi al cattolicesimo ed in seguito all’islam, nel novembre del 1995 pubblicò per la casa editrice la Vieille Taupe un pamphlet intitolato Les mythes Fondateurs de la Politique Israélienne, in cui sosteneva che lo Stato d’Israele, con la connivenza delle potenze occidentali e sovietiche interessate a distogliere l’attenzione dai propri crimini di guerra, avrebbe sfruttato il “mito dell’Olocausto” per legittimare la propria politica espansionistica agli occhi dell’opinione pubblica mondiale. A corredare l’accusa, l’insinuazione che i miti fondativi di cui al titolo fossero delle costruzioni fittizie. Di qui l’accenno alla possibilità che gli ebrei non fossero stati sistematicamente uccisi nei lager, e che le camere a gas fossero un’invenzione della propaganda sionista. Garaudy scriveva che “l’unica soluzione finale consisteva, dunque, nello svuotare l’Europa dagli ebrei, allontanandoli sempre più, fino a che la guerra (supponendone la vittoria) avesse permesso di sistemarli tutti in un ghetto fuori dall’Europa (come suggeriva il progetto Madagascar). Questo Shoah Business non utilizza che “le testimonianze” sulle diverse maniere di “gasare” le vittime, senza che mai ci vengano mostrate le modalità di funzionamento di una sola “camera a gas” (di cui Leuchter ha dimostrato l’impossibilità fisica e chimica)”. Da notare che la frase “camere a gas” nelle pagine del lavoro di Garaudy è sempre virgolettata, in modo da sottolinearne la caratteristica di falsità.
Garaudy fu processato e condannato ad una multa di 120.000 franchi. Nel corso del processo fu venerato come eroe e ricevette una vasta attenzione mediatica in Arabia Saudita, Qatar, Egitto, Iran, Siria, Libano, Giordania, e territori palestinesi.
L’affaire Garaudy ha evidenziato la vitalità della negazione antisemita e antisionista della Shoah in Iran e nel mondo arabo. Le traduzioni delle opere di Garaudy in arabo sono diventate best-seller in molti paesi del Medio Oriente, anche se in Francia è stato condannato per incitamento all’odio razziale. Il cemento ideologico dietro l’effusione di solidarietà verso Garaudy è stato un antisemitismo che ha definitivamente bollato la Shoah come una cospirazione ebraica e una diabolica “invenzione sionista”. Quindi, la reazione favorevole alle tesi di Garaudy da parte di giornali e politici arabi, come lo sceicco Muhammad al-Tantawi, leader politici libanesi, come il defunto presidente Rafiq Hariri, o noti intellettuali come Mohammed Hassanin Haikal, acquisisce una diversa dimensione.
Dal 1990, la negazione della Shoah è diventata un fenomeno molto più ampio e diffuso in tutto il Medio Oriente. Dal 2000 si riscontra un aumento del numero di funzionari palestinesi, di Hamas e Hezbollah, iraniani e siriani, che fanno pubblicamente dichiarazioni negazioniste. Nei media egiziani, giordani e sauditi, dove l’antisemitismo è stato a lungo dilagante, la retorica negazionista relativa allo sterminio degli ebrei europei è diventata un tema molto comune. Ciò è importante per la nostra analisi, perché la negazione è particolarmente insidiosa e rappresenta una forma di incitamento all’odio antiebraico. Questo è il motivo per cui i negazionisti sono stati chiamati “assassini della memoria”, fanatici impegnati in un nuovo tipo di genocidio simbolico del popolo ebraico. Dove le folle una volta gridavano “morte agli ebrei,” ora è come se i negazionisti proclamassero cinicamente che “gli ebrei non sono mai morti”.
Più di recente i palestinesi e i loro sostenitori hanno ampliato la campagna di delegittimazione attraverso una negazione totale della storia ebraica e del legame tra ebrei e terra di Sion. I nemici di Israele cercano sempre più di minare le radici della storia, della religione, della memoria culturale e nazionale, e dell’identità ebraica ponendo un accento particolare sull’univoco carattere arabo di Gerusalemme. Già a Camp David nel 2000, il leader palestinese Yasser Arafat ha insistentemente negato che gli ebrei avessero costruito il primo e il secondo Tempio a Gerusalemme. Allo stesso modo, l’allora muftì di Gerusalemme Ikrama Sabri, nel 2001, ha dichiarato pubblicamente che il Muro del Pianto nella Città Santa non aveva alcun collegamento con il passato ebraico ed era semplicemente una truffa organizzata da ebrei “ingannatori” per imbrogliare i musulmani e l’intero mondo gentile. Da allora, vi è stato uno sforzo sistematico per distruggere eventuali tracce materiali o resti archeologici dell’antica presenza ebraica a Gerusalemme, all’interno di una più ampia strategia di delegittimazione di Israele.
Il fatto che i Templi di Gerusalemme siano menzionati non meno di 534 volte nella Bibbia ebraica e ben 70 volte nel Nuovo Testamento, non scoraggia, naturalmente, coloro che nutrono sentimenti antiebraici e anti-israeliani. Il negazionismo palestinese ha comunque trovato un terreno fertile, che attinge ai miti nazionali arabi, al fanatismo islamico e alle radicate correnti anti-ebraiche presenti nella teologia cristiana. Ancora una volta, l’antisemitismo e l’antisionismo convergono facilmente nel loro obiettivo comune: smantellare lo Stato ebraico e restituire il popolo di Israele a una condizione di esilio e impotenza, quella di “ebrei erranti” in balia dei loro aspiranti persecutori.
Data la profondità del sentimento anti-ebraico nel mondo arabo, non sorprende che alcuni dei temi più bizzarri dell’antisemitismo europeo abbiano toccato delle corde sensibili quando si sono diffusi nel corso dei secoli in Medio Oriente.
Per questa ragione, la concezione biblica del popolo eletto è soggetta a particolare scherno: Anis Mansur la qualifica come “la quintessenza del giudaismo degli ebrei… padroni dell’Universo- dei suoi popoli, delle terre e delle cieli… ai quali tutti gli altri popoli sono servi, immeritevoli della fede nel Dio ebraico”. Secondo questa dottrina, è attribuita agli ebrei la licenza di maltrattare i non ebrei, facendo esplicito riferimento all’accusa del sangue, la calunnia antisemita di età medievale secondo cui gli ebrei userebbero il sangue dei gentili, e in particolare il sangue dei bambini cristiani, a scopo rituale. Importata nell’Impero Ottomano dai cristiani nel Quattrocento, questa menzogna ha acquisito uno status mitico, raggiungendo un picco di popolarità nel XIX secolo. L’accusa del sangue è stata rapidamente interiorizzata dall’immaginario musulmano, dove ha messo salde radici.
Il tema antisemita di maggior successo importato nel mondo arabo è sicuramente quello che fa riferimento alla teoria di un complotto ebraico organizzato per ottenere il dominio del mondo, come viene enunciato nel famigerato libro I Protocolli dei Savi Anziani di Sion. Questo libro di virulento antisemitismo, fabbricato dalla polizia segreta russa a cavallo del ventesimo secolo, fece la sua comparsa in Europa occidentale durante e subito dopo la prima guerra mondiale. Già nel 1918, a Chaim Weizmann, in viaggio in Palestina con la Commissione Sionista, si presentarono alcuni interlocutori arabi con le copie dei Protocolli. Tradotto in arabo a metà degli anni Venti, il libro ha mantenuto il suo fascino popolare fino ad oggi, pubblicato in numerose edizioni e in diverse traduzioni, tra cui una per il fratello del presidente egiziano Gamal Abdel Nasser (Nasser stesso consigliò l’opuscolo come utile guida per capire la ‘mente ebraica’, come avrebbero fatto il suo successore Anwar Sadat, il re Faisal dell’Arabia Saudita e Muammar Gheddafi, tra i tanti).
Come per l’accusa del sangue, la popolarità stupefacente dei Protocolli è direttamente correlata al disprezzo millenario verso gli ebrei in quanto infidi e traditori. Secondo un filone di pensiero arabo-musulmano in materia, ciò che si cela dietro il concetto della supremazia del popolo eletto è, infatti, un perverso complesso di inferiorità che risale ai tempi biblici. Quando gli antichi regni ebraici furono distrutti, questo complesso di inferiorità fu trasformato in una volontà di occupare le terre confinanti per ottenere un controllo finanziario, economico, e politico dovunque gli ebrei avessero vissuto. Il sionismo è considerato una risposta a questo impulso – la volontà di occupare le terre straniere, assoggettandone le popolazioni, giustificandosi con le promosse bibliche.
Quando, inoltre, i sionisti sono riusciti a sfruttare il sostegno internazionale per la loro impresa – nella forma della Dichiarazione Balfour e con l’approvazione delle sue promesse da parte della Società delle Nazioni – hanno utilizzato (così viene esplicitato l’argomento) gli stessi metodi ripugnanti usati contro il profeta Maometto.
Durante gli anni Venti e Trenta, le percezioni tradizionali islamiche si fusero con i temi articolati nei Protocolli per creare una versione decisamente mediorientale della teoria di un complotto ebraico finalizzato a dominare il mondo.
Le teorie della cospirazione anti-israeliane e antisemite, cresciute nel mondo arabo e musulmano dopo l’11 settembre, non sono dunque nuove. Rivelano una miscela altamente infiammabile di anti-occidentalismo, fanatismo ideologico, odio, e irrazionalità che sta alla base di un filone significativo del pensiero musulmano contemporaneo. L’atteggiamento verso gli ebrei, in particolare, con il suo linguaggio veemente e l’accento sulle “soluzioni radicali” è inquietante dato che ricorda gli anni Trenta e Quaranta della storia europea. Gli stereotipi antisemiti sono frequenti in Giordania e in Egitto, che hanno sottoscritto trattati di pace con Israele, ma anche in Siria, nei territori soggetti all’Autorità Palestinese, in Arabia Saudita, o in altri Stati del Golfo. Gli esempi abbondano e potrebbero essere moltiplicati fino alla nausea.
Una caratteristica centrale dell’antisemitismo arabo è stato e rimane il rifiuto categorico di accettare il diritto di Israele ad esistere e la sua legittimità morale. Questa premessa fondamentale è stata aggravata da un’educazione inesorabilmente diretta verso l’odio per Israele e per gli ebrei. In questa propaganda, Israele è il capro espiatorio per la continua incapacità araba di raggiungere l’unità politica, lo sviluppo economico, o altri obiettivi nazionali. La frustrazione per la mancata modernizzazione ha portato ad uno spostamento di rabbia verso gli ebrei e lo Stato ebraico come “agente dell’imperialismo occidentale, della globalizzazione, e di una cultura modernista invasiva nella regione”.
Gli israeliani sono semplicemente una accozzaglia di senza radici, ebrei nomadi che illegalmente hanno usurpato una terra che non era propria al fine di creare uno Stato “nazificato” sulla base di sogni di dominazione del mondo come stabilito nei Protocolli. Israele è un’entità “artificiale” e uno Stato malvagio, che sfrutta la religione giudaica “imperialista” e il suo concetto di “popolo eletto” per strappare sempre più terra araba; è simile alla diffusione di un cancro che deve essere rimosso chirurgicamente.
L’antisemitismo arabo e musulmano ha sempre avuto un caratteristica politica molto forte che deriva dalla intensità del conflitto arabo-israeliano. Ma la dimensione territoriale del conflitto israelo-palestinese non deve farci dimenticare il fatto che l’antisemitismo ha una dinamica autonoma. Sussiste una distintiva struttura sottostante l’ideologia antisemita arabo-musulmana, al di là delle circostanze politiche immediate, della propaganda dei governi, del conflitto territoriale con Israele e dell’uso strumentale di stereotipi e simboli anti-ebraici importati dall’Occidente.
Il risentimento storico contro il colonialismo e l’imperialismo occidentale, così come l’amarezza provocata dalla sconfitte consecutive per mano degli israeliani, hanno notevolmente peggiorato il contesto culturale e politico; le teorie del complotto che postulano un “sionismo internazionale” bloccato in un’eterna inimicizia verso la nazione araba sono sempre più diffuse tra i nazionalisti arabi come nei circoli fondamentalisti. I nazionalisti pan-arabi, già prima del 1967, consideravano l’esistenza e il consolidamento di Israele come una “sfida di civiltà”, un sintomo patologico della debolezza degli arabi e della loro arretratezza. Quello che era particolarmente incomprensibile era che la precedenza impotenza e debolezza ebraica avessero lasciato il posto ad uno Stato ebraico indipendente in grado di sconfiggere diversi eserciti arabi sul campo di battaglia. Si può forse meglio spiegare la peculiare rabbia emotiva dietro l’antisemitismo arabo-musulmano come un tentativo di deviare i traumi irrisolti inflitti sulla psiche araba dal valore militare e tecnologico di Israele.
La guerra dei Sei Giorni ha intensificato notevolmente la demonologia del sionismo e degli ebrei, soprattutto tra i fondamentalisti islamici. Vi era un profondo senso di umiliazione per la perdita di terra islamica nel 1967 e la conquista di Gerusalemme da parte degli israeliani; non a caso, i fondamentalisti ora considerano il conflitto nei termini di una lotta tra l’Islam e gli ebrei-una battaglia di cultura, di civiltà e di religione. Le vittorie israeliane sono diventate per loro un sintomo del malessere dell’Islam e del suo degrado, della sua incapacità di recuperare le fonti religiose della sua gloria passata e superare le sfide poste da una “decadente”, anche se apparentemente potente, modernità occidentale.
Un rifiuto radicale di tutte le caratteristiche occidentali e la convinzione che solo l’Islam sia la soluzione si sono uniti ad una visione di Israele come nemico e minaccia mortale. La paura esistenziale che sta dietro gran parte dell’antisemitismo islamico e arabo ricorda il paradigma nazista dell’odio antiebraico e lo fa sembrare particolarmente dinamico, volatile e persino genocidario nelle sue implicazioni.
Israele e gli ebrei sono percepiti non solo come una minaccia militare, politica, e economica per gli arabi e l’Islam, sono anche un simbolo di tutte le fobie provocate dal secolarismo e dai “veleni” della cultura occidentale, AIDS, prostituzione, musica rock, Hollywood, il consumismo di massa, la criminalità, la droga e l’alcolismo.
Una delle caratteristiche più evidenti del contemporaneo antisemitismo arabo-islamico è la staticità dei suoi stereotipi. Gli ebrei sono costantemente denigrati come irrimediabilmente malvagi, corrotti, immorali, intriganti, ingannevoli, creature avide, vilipesi come razzisti, colonialisti e fascisti, “vampiri” che succhiano sangue arabo.
In conclusione, è possibile affermare che rimangono ancora drammaticamente attuali le parole del compianto Robert Wistrich nel saggio Antisemitism: The Longest Hatred: “un’ideologia araba anti-ebraica si è cristallizzata e ha acquisito un proprio slancio nel corso degli ultimi decenni, uno slancio che ha distorto l’immagine dell’Ebreo in modalità storicamente senza precedenti per il mondo islamico”.
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