LE IMPEDIMENTA DELL’ESERCITO ROMANO

di Max Trimurti -

Il termine designa i bagagli dell’esercito e deriva dal verbo impedire, ingombrare. Ma in che cosa consistevano e come influenzavano la logistica e l’ordine di marcia dei soldati?

 

Il bagaglio personale del soldato romano, sia esso legionario, che ausiliario, era denominato sarcina. Questo termine non deve essere confuso con le impedimenta, che sono, più in generale, i bagagli dell’esercito. Le impedimenta comprendono non solo i veicoli, le macchine da guerra, le officine e gli strumenti, i rifornimenti di viveri ed armi, ma anche tutti gli uomini ed animali incaricati di trasportarli e dirigerli.
I Romani, esperti dell’arte della guerra, avevano la stessa cura e voglia di ben fare quando si trattava di organizzare il loro esercito per la marcia. Si trattava di città in movimento, comprendente le legioni, le truppe ausiliarie, gli uomini di linea, i cavalieri, l’artiglieria nevrobalistica e le macchine d’assedio, come anche tutto il necessario per vivere e combattere (la logistica). Occorreva trasportare armi di ricambio, munizioni, una infermeria, laboratori/officine per fabbricare o riparare qualsiasi cosa, tutti gli archivi e la contabilità dell’esercito, la cassa militare necessaria a pagare le truppe o gli acquisti fatti presso gli alleati e presso mercanti, spesso anche battelli che, una volta assemblati, consentivano di costruire ponti flottanti. Senza dimenticare il bottino e i prigionieri che sarebbero stati venduti come schiavi o offerti ai soldati come ricompensa. Ma quando si sposta un esercito ci sono anche tanti civili che seguono a piedi, a cavallo o in carro: concubine, figli, prostitute, mercanti, miserabili che offrivano servizi per sopravvivere con i propri bagagli ma che non avevano il diritto di entrare nel campo e che dovevano provvedere a sé stessi da soli.
L’esercito aveva anche del personale non combattente che andava ad ingrossare le impedimenta: i calones (valletti), gli schiavi, i carrettieri, mulattieri o cammellieri, il personale amministrativo e curante, tutta la domesticità e i familiari degli ufficiali, i tecnici e qualche artigiano civile. In effetti, quando si evoca una legione romana ci si riferisce spesso a un effettivo di 5-6 mila uomini, ma questo dato dovrebbe essere aumentato delle diverse migliaia di anime al seguito, che occorreva comunque alloggiare e nutrire. Per concludere questo inventario non vanno dimenticati i numerosi animali, da guerra o da basto e le greggi che assicurano l’alimentazione in carne.

Il treno dei bagagli degli ufficiali

Come noto, se il soldato doveva portarsi il bagaglio sulle spalle o sospeso a una forca, gli ufficiali potevano contare su un numeroso personale specializzato. Il loro treno dei bagagli era dunque più voluminoso e proporzionato alla carica gerarchica. Il numero dei carri e delle bestie da soma devoluti a ciascun ufficiale è impossibile da definire. Alcuni di essi abusavano di questa facilitazione che, in tempo di guerra, poteva creare qualche problema. Il tribuno Avienus, membro della X Legione, fu scacciato da Giulio Cesare per aver imbarcato su una nave un baglio esagerato, con provvisioni e cavalli, senza avervi imbarcato un solo soldato. Altri ufficiali hanno subito come lui la stessa sorte; ognuno viene reimbarcato con un solo schiavo (Cesare, Bellum Africum, 54). È inoltre difficile dire quanti schiavi di assistenti e amici seguivano ogni ufficiale. Catone, celebre per il suo sobrio stile di vita, come semplice tribuno portava già come bagagli 15 schiavi, due affrancati e 4 amici (Plutarco, Vite Parallele, Catone, IX, 4). Alla fine della Repubblica e più ancora sotto l’Impero, i generali dovevano totalizzare diverse decine, e forse un centinaio di servitori e di familiari.
La Historia Augusta (Claudio, XIV, 2-14) riproduce una lettera dell’imperatore Valeriano che enumera una parte del personale annesso alla funzione di un legato agli inizi del III secolo. Essa cita: un cuciniere, un palafreniere, un segretario, il maggiordomo, due cacciatori, un carrozziere, un preposto (addetto) al pretorio, un portatore d’acqua, un addetto al pesce, un pasticciere, un bagnino, ma anche due belle donne scelta fra le prigioniere. La lista certamente non è esaustiva, perché si conosce anche un portatore di scudo, un portatore di gladio, uno strator (scudiero armato) per aiutarlo a montare a cavallo.
Spesso la sposa e la famiglia seguivano nei suoi spostamenti il comandante in capo, con evidentemente aggiunta di domestici. L’esempio più celebre è quello di Germanicus, accompagnato da sua moglie Agrippina e dal figlio Caligola. Il Senato sarà costretto a legiferare per impedire ai generali di partire con la loro famiglia. In cambio viene consentita la possibilità di portarsi al seguito due prigioniere, concesse in segno di “consolazione”.
Gli ufficiali avevano a disposizione grandi tende, sufficientemente alte per potervi indire rapporti per i subordinati. Si ha una certa difficoltà ad immaginare quelli che dovevano essere i quartieri degli ufficiali superiori, legati comandanti di una legione o governatori comandanti di un esercito in operazioni. I quartieri dovevano essere un assemblaggio di differenti moduli con spazi separati, come le stanze di una casa romana, e una corte centrale provvista di altare, circondata da camere per i capi e il loro personale, di cucine, di uffici, di scuderie e di spazi comuni. Sappiamo anche che Cesare non esiterà a portare in campagna pavimenti in mosaico per decorare i suoi “appartamenti”.

Il treno dei soldati

Si conoscono abbastanza bene le tende dei soldati semplici, che si possono ammirare sulla colonna traiana e il cui piano ha potuto essere ricostituito a partire dalla scoperta di frammenti di pelli, specialmente sul vallo di Adriano e più precisamente sul sito di Bar Hill e di Vindolandia. Si può anche ricordare che un pezzo di tenda è stato recentemente ritrovato anche nel sito di Alesia in Francia. All’epoca venivano chiamate papillones, per il fatto che, una volta messe di piatto, esse presentavano una forma a farfalla. Ognuna era costituita da 80 pelli di capra, accuratamente tagliate e cucite, che occorreva regolarmente lubrificare per evitare l’essiccamento, pericoloso per gli strappi e per lo sviluppo di muffe. A titolo di curiosità, si potrebbe calcolare il numero di capre necessarie per fabbricare le tende di una legione: non meno di 55 mila, solo per l’alloggiamento dei soldati. Bisogna pertanto immaginare che nel treno dei bagagli dovessero trovare posto anche pelli di ricambio per la riparazione e la fabbricazione di nuove tende. Le tende non venivano confezionate dai soldati (piuttosto da laboratori privati, come quello del padre di San Paolo che aveva ricevuto la cittadinanza romana per i servizi resi), tuttavia alcuni erano certamente specializzati in lavori di calzolaio, selleria, cuoiame. In occasione di un assedio, centinaia di macchine da guerra venivano ricoperte di pelli d’animali, di recente abbattimento, per garantirle contro il fuoco che il nemico poteva cercare di appiccare. Le papillones, con una superficie di circa 12 m2 (le tende dei pretoriani erano più grandi), dovevano ospitare 8 soldati (ma non l’occupavano tutti allo stesso tempo, in quanto due uomini a turno erano addetti alla sorveglianza del campo) venivano trasportate ripiegate su una mula, con i rispettivi pali.
Non si conosce dove erano alloggiati i calones e quanti ce ne erano per legione. Se erano uno o due per legione potevano dormire nella tenda della camerata dei soldati, ma se erano più di due per contubernium [1], a quel punto occorre ipotizzare la possibilità di tende supplementari disposte a parte. In questo caso il numero dei muli doveva aumentare in proporzione.
Sfortunatamente si dispone di poche informazioni sulla collocazione delle impedimenta negli accampamenti. Nel II secolo a. C. Polibio scrive (VI, 27) che le tende dei tribuni erano allineate su un solo lato del praetorium (il quartier generale con la tenda del console) e distante da questo 50 piedi, al fine di lasciare lo spazio necessario per i cavalli, le bestie da soma e i bagagli degli ufficiali. Lo pseudo Igino [2] posiziona gli animali della truppa al centro dello spazio delimitato da due file di tende che si fronteggiano. In tal modo una centuria occupava una banda di terreno larga 30 piedi (circa 10 metri), di cui 10 erano riservati per le tende, 5 per le armi sistemate sul davanti e 9 per i muli. Rimaneva un passaggio di 6 piedi, sufficiente per i movimenti dei soldati. In quest’area non c’erano carri, ma ciò non significa che non ce ne fossero all’interno del campo.
Chi dice tenda dice anche effetti letterecci, anche se all’epoca ci si accontentava di poco. Gli uomini dormivano avvolti nei loro mantelli direttamente sul suolo. Ma se il terreno era freddo, umido e poco confortevole, c’era l’abitudine di stendervi uno strato di paglia (stramen). Questa paglia poteva essere recuperata sul posto, ma non sempre. È ragionevole comunque pensare che l’esercito ne trasportasse di grandi quantità sui carri, anche perché serviva anche al nutrimento degli animali. L’avena non essendo ancora consumata, gli animali venivano nutriti con il frumento, con orzo e con il foraggio (pabulum).
In campagna o in manovra, la partenza dal campo era regolata come un orologio (Polibio, VI, 40, 1-3). Alla prima suonata di tromba, i soldati svuotavano le tende e le ripiegavano per caricarle sul mulo. Questa operazione veniva effettuata sempre dopo che erano state smontate le tende degli ufficiali. Alla seconda suonata di tromba i bagagli venivano caricati sulle bestie da soma e le unità si posizionavano nell’ordine di marcia. I soldati portavano con sé la sarcina sulla spalla e lo scudo sul fianco. Al terzo segnale la colonna iniziava il movimento e il soldati facevano un grande clamore. Cesare ci dice che veniva fatto gridare “Ai Bagagli!”, per dare il segnare di ripiegare (Bello Civili, III, 37).

Il numero di animali

Ogni contubernium della Repubblica o dell’Alto Impero doveva possedere almeno una mula per portare la sua tenda. Calcolando una sessantina di centurie, si ottengono almeno 600 muli e altrettanti mulattieri. Ma che fare degli altri affari personali ingombranti e del materiale di uso collettivo? Si può immaginare che i più pesanti e i più voluminosi erano trasportati sui carri: macine, grandi marmitte, razioni per diversi giorni, attrezzatura. La colonna traiana e quella aureliana mostrano barili per l’acqua, il vino, la posca [3] caricati sopra i carri. L’ipotesi di una seconda mula per camerata non è a priori da scartare. In definitiva, il calcolo ci darebbe complessivamente un totale di 1.200 bestie, destinate solo per la truppa. Come dire che siamo ancora lontani dal conto finale. Ricordiamo che Silla aveva condotto con sé in Grecia, per fare la guerra, 20 mila mulattieri (Plutarco, Vite parallele, Silla, 12) ovvero 20 mila muli (un uomo da solo può curare due muli ma è molto più difficile condurne due). Non si sa per quante legioni, ma comunque un numero veramente enorme, tenendo conto che si trattava di altrettante bocche da sfamare e dell’appesantimento del treno logistico che tutto ciò comportava.
Lo stesso problema riguarda il valletti dell’esercito, gli schiavi, il personale dello stato maggiore, gli infermieri, i vivandieri, i cammellieri (dromadarius, più tardi camelarius) ecc. Sebbene non militari, questi uomini dovevano in ogni caso soggiacere a una disciplina. Dobbiamo immaginare che questa folla non combattente non sia stata severamente inquadrata, perché, se lasciata a sé stessa, essa si sarebbe potuta rivelare ingombrante e incontrollabile. Vegezio (III, 6) dice che i comandanti avevano l’abitudine di inquadrarli in sezioni: “Essi avevano l’attenzione che gli equipaggi non fossero troppo vicini ai combattenti, temendo, a ragione, che valletti, spaventati e feriti, non turbassero l’ordine di combattimento e che gli animali da basto inferociti non ferissero i soldati; questo è il motivo per cui era invalso l’uso di dare insegne ai valletti per facilitare loro il posizionamento, scegliendo quelli fra di loro che avevano più buon senso ed esperienza, dando loro a ciascuno una specie di comando, che non si estendeva mai su più di duecento valletti. Questi erano obbligati, al momento opportuno, di riunirsi con le loro bestie da soma sotto le loro insegne, al primo ordine di questi comandanti particolari”.
Per precauzione, nel contingente degli animali dovevano anche essere previste molte bestie di rimpiazzo, evidentemente di difficile quantificazione. Possiamo in ogni caso farci un’idea dalla lettura dello pseudo Igino (De Munitionibus castrorum, 16). Secondo lui, un’ala di cavalieri milliari (1.000 uomini ripartiti in 24 turmae) aveva 96 cavalli supplementari (specialmente per i gradi superiori, che ne possedevano diversi), e un’ala quingenaria (500 uomini articolati in 16 turmae) ne contava 64. Cioè circa un 10-11% di bestie supplementari. Non è sicuro, tuttavia, che questa percentuale sia stata applicata anche alle bestie da soma, in quanto le ragioni che portavano a un aumento del bestiame erano legate a considerazioni diverse.

Il rifornimento

Quando le campagne militari si limitavano a spostamenti di qualche chilometro o qualche decina di chilometri dalle mura dell’Urbe (abbastanza vicini perché si attendesse un segnale visuale emesso dall’alto del Capidoglio per ingaggiare la battaglia), non c’era bisogno di un pesante treno di bagagli. Quello degli ufficiali superiori non doveva essere molto più grande di quello dei semplici soldati, ai quali erano sufficienti le armi ed eventualmente le loro razioni di viveri e di munizioni. Ma coll’allontanarsi dei teatri d’operazioni da Roma, diventa necessario aumentare le capacità del treno e questo sempre di più a misura dell’estensione dell’Impero. Beninteso, l’esercito viveva soprattutto sul paese dove stazionava, confiscando tutto quello di cui aveva bisogno: bestiame, cereali preso dai granai nemici o mietuto direttamente nei campi dagli stessi soldati o dai loro valletti. La presenza di questi mietitori viene evocata molte volte negli scritti antichi, specialmente nel De Bello Gallico di Giulio Cesare. Essi sono regolarmente l’obiettivo dei Galli, dei Germani e dei Bretoni, che cercano di affamare gli invasori. In Africa, terra di cereali per eccellenza, Cesare dichiara che i suoi foraggieri si fecero seguire da tutti i carri requisiti nel paese (Cesare, Bellum Africum, 9).
Riempire lo stomaco dei propri uomini: questo è un precetto conosciuto sotto ogni tempo e latitudine e sul quale un buon generale doveva vigilare. Un soldato affamato non si batte ma parte per la razzia. La disciplina non può che patirne e, con essa, la fedeltà delle truppe al comandante. Vegezio (III, 3) scriveva che la carestia distruggeva un esercito più della stessa guerra, poiché la fame è più terribile del ferro. In tale contesto, risultava prudente per un generale accorto anticipare i problemi di rifornimento, disponendo a intervalli regolari depositi di viveri lungo gli itinerari percorsi dall’esercito. Venivano scelti luoghi abbastanza sicuri, soprattutto presso gli alleati. Cesare sceglie di stabilire un importante centro di rifornimento presso gli Edui a Noviodunum (Nevers), con una importante guarnigione per proteggere anche il denaro destinato alle paghe dei legionari, così come gli ostaggi forniti dalle città della Gallia. Una parte degli Edui si sono rivoltati contro il loro alleato romano e hanno fatto man bassa di queste riserve, infliggendo un duro colpo al morale dei romani, che poi pagheranno a carissimo prezzo.
I viveri non venivano lasciati nelle retrovie. Grandi quantità seguivano l’esercito nei suoi spostamenti e per questo venivano trasportati a spalla dagli uomini, nell’equipaggiamento del soldato, come una forma di razione giornaliera. Ma la maggiore quantità viaggiava nei carri tirati da muli. La carne, se possibile, viaggiava sulle proprie gambe. Si preferiva, in effetti, spostare le greggi sotto la scorta e la cura di personale competente, piuttosto che in quarti macellati che non si sapeva poi come conservare. Gli animali venivano abbattuti in funzione delle necessità. Non bisogna credere alla favola che il soldato romano mangiasse solo gallette o zuppe di cereali o lardo. Venivano firmati contratti fra l’esercito e negozianti privati che rifornivano le truppe di ogni sorta di provvisioni complementari. Ad esempio, un Romano non poteva fare a meno del formaggio o del garum (salsa di pesce fermentato con la quale condiva quasi tutto). Secondo Vegezio (III, 3), il minimo vitale era composto, in inverno, da legna e foraggio, in estate dall’acqua, per tutto il resto dell’anno da frumento, vino, aceto e sale.

Il pericolo dell’ingombro o dell’intasamento

Cicerone, nella sua arringa contro Verre, che governava la Sicilia alla fine della Repubblica, proclamava che i mercati (acquisti) sono l’esercizio più importante dell’arte militare. Vi si poneva pertanto un’attenzione tutta particolare, in quanto un esercito ingombrato (intasato) di bagagli o in movimento logistico non era più in condizioni di difendersi. Gli esempi nella storia romana sono numerosi: “I Romani sono stati in maggior parte massacrati quando erano ancora in formazione di marcia, Essi non avevano la possibilità di difendersi … “ (Polibio III, 84, 4).
Il nemico lo sapeva bene e, se possibile, lanciava il suo attacco nel momento in cui l’esercito risultava più intralciato. Il discorso di Vercingetorige alla vigilia della grande battaglia di cavalleria che precede l’assedio di Alesia, o ancora quello di Arminio prima di tradire i Romani e sorprenderli nella foresta di Teutoburgo, ne sono una perfetta illustrazione.
Oltre al’intasamento della colonna di marcia, l’altro effetto insidioso di un attacco sui bagagli era quello di demotivare i soldati e di ridurre la loro combattività e la difesa. È quello che accade quando gli Eburoni accerchiano i Romani nella battaglia d’Atuatuca nel 54 a.C. “I legati Sabinus e Cotta ordinarono il ripiegamento: essi fecero dare l’ordine di abbandonare i bagagli e di formare un cerchio. Questa decisione, sebbene non sia reprensibile in un caso del genere, ebbe comunque degli effetti spiacevoli, perché, nello stesso tempo in cui contribuiva a diminuire la fiducia dei nostri soldati, contribuiva anche a animare l’ardore combattivo del nemico, in quanto dava l’impressione che una tale decisione non poteva non essere dettata da paura e disperazione. Essa è stata, inoltre, fatto che è stato inevitabile, la causa dell’abbandono da parte dei soldati delle loro insegne per correre verso i bagagli e recuperare quello che avevano di più prezioso; si intendevano solamente grida e lamenti” (Cesare, De Bello Gallico, V, 33). Le legioni verranno distrutte.
Eppure, perdere il bagaglio non significa sistematicamente essere annientati, anche se il seguito delle operazioni ne risulta fortemente compromesso. Cesare lo dice chiaramente nei Commentarii: “Poco importa che vengano uccisi (Romani) o che vengano spogliati dei loro bagagli, poiché un esercito che ha perduto i propri bagagli non è in condizioni di continuare la guerra” (Cesare, De Bello Gallico, VII, 14). Tacito riferisce: “Egli giudica… che i suoi soldati soffrano meno del ferro nemico che della lunghezza delle marce e della perdita delle loro armi; che la Gallia esaurita non possa più fornire cavalli e che una lunga fila di bagagli è facile da sorprendere, difficile da difendere” (Tacito, Annali, II, 5).
Su queste conseguenze gli storici romani ci forniscono diversi esempi. Ricordiamo Velleio Patercolo, che è stato soldato tutta la sua vita e che conosceva bene i problemi della logistica militare. Nel suo libro racconta la conquista dell’Oriente voluta dal triumviro Marco Antonio, nell’anno 36 a.C. Dopo aver attraversato l‘Armenia e la Media con un esercito forte di 13 legioni, egli si scontra con i Parti. In occasione di uno scontro perde due legioni con tutti i bagagli e tutte le sue macchine da guerra (fra cui un ariete di 25 metri di lunghezza). Queste macchine erano state lasciate nelle retrovie, in quanto il convoglio avanzava troppo lentamente per il gusto di Marco Antonio. Senza scorta sufficiente, le macchine verranno facilmente distrutte, proprio quando Antonio stava arrivando davanti alla città di Phraata per prenderla d’assalto. La sua impazienza gli costerà la guerra. Egli perderà, in questa campagna disastrosa, almeno un quarto dei soldati e un terzo dei valletti dell’esercito e degli schiavi. Quanto ai bagagli, riuscirà a salvare appena qualche cosa. Dione Cassio racconta quello il calvario della marcia di ritorno. I Parti occupavano le strettoie, scavavano fossati ed elevavano ostacoli lungo il percorso, assillando quelli che andavano a cercare l’acqua e distruggendo i pascoli. L’autore precisa che in occasione di una di queste imboscate i legionari hanno formato una testuggine con i loro scudi per proteggersi dalle frecce del nemico e per mettere al riparo le impedimenta, la fanteria leggera e la cavalleria.
Ma il racconto più toccante è quello di Tacito nei suoi Annali, quando racconta la ritirata del generale Caecina, ordinata da Germanico attraverso i “lunghi ponti”, una specie di cattiva carreggiata realizzata dai Romani qualche anno prima attraverso boschi e paludi. Intasate di bagagli, le legioni e la cavalleria di Caecina saranno sorprese da Arminio, il vincitore di Varo a Teutoburgo: “I barbari, cercando forzare i nostri posti di blocco per piombare sui lavoratori, attaccano di fronte sul fianco e da tutti i lati; le grida degli operai si mescolano con le grida dei combattenti. Tutto congiura contro i Romani, un fango profondo e scivoloso, dove i piedi non potevano né tenersi in piedi, né avanzare, la pesantezza delle loro corazze, la difficoltà di lanciare giavellotti in mezzo all’acqua. I Ceruschi da parte loro, avevano l’abitudine di combattere nelle paludi, una statura alta e la distanza alla quale arrivavano le loro picche. Le nostre legioni iniziano a ripiegare, fino a quando la notte arriva a sottrarli da un combattimento impari. Il successo rendeva i Germani infaticabili: invece di riposare essi deviano tutte le acque che corrono nelle alture vicine per versarle nella valle e, allagando le opere fatte, raddoppiano il lavoro dei soldati romani… Al ritorno della luce, le legioni inviate sulle ali, sia per paura, sia per spirito di rivolta, abbandonano la loro posizione, si portano rapidamente al di là della palude. Arminio poteva a quel punto effettuare una carica senza ostacoli: ma non lo ha fatto. Ma quando vede i bagagli, intasati nel fango e nei fossati e tutto attorno i soldati in disordine con le insegne confuse, egli approfitta di questo momento, in cui ogni uomo – preso dal suo istinto di conservazione – non ascolta più la voce dei suoi capi, per dare ai Germani il segnale dell’attacco: Ecco Varo – grida egli -, ecco le sue legioni che la loro fatalità ci consegna una seconda volta. E con la parte migliore dei suoi guerrieri, rompe la nostra linea e si dedica soprattutto a ferire i cavalli. Mancava l’appoggio a questi animali su un terreno scivoloso e bagnato dal loro sangue; essi rovesciano i loro cavalieri, disperdono tutto davanti a loro, schiacciando tutto sotto il loro passo. Gli sforzi più impegnativi vengono effettuati intorno alle aquile che non si potevano né portare attraverso una grandinata di giavellotti, ne piantare sul suolo fangoso. Caecina, sostenendo il coraggio dei suoi, ha avuto il suo cavallo ucciso sotto di lui. Egli cade al suolo e sarebbe stato avviluppato dall’avversario senza la resistenza della sua prima legione. L’avidità del nemico, che abbandona la carneficina per correre sul bottino, permette alle legioni di raggiungere, verso sera, un terreno scoperto e solido. Ma la fine dei loro mali non era ancora arrivata: occorreva elevare trincee ed ammassare i materiali. Gli strumento necessari per smuovere la terra ed a tagliare il prato erano stati perduti per la maggior parte. Non c’erano più né tende per i soldati, né medicine per i feriti; mentre i Romani si scambiavano qualche cibaria sporca di sangue e di fango, l’orrore di questa notte funesta, l’attesa di un domani che tutti immaginavano come l’ultimo per diverse migliaia di uomini, riempiva il campo di lamenti” (Tacito, Annali, I, 64-65). Questa volta le legioni saranno vittoriose dopo un vigoroso contrattacco contro i Germani che tenteranno di assalire il loro campo di fortuna.

L’ordine di marcia secondo Polibio, Giuseppe Flavio e Vegezio

Prima di concludere questo esame della logistica romana conviene fare qualche accenno all’ordine di marcia, più volte evocato nel corso del lavoro. In effetti, l’esercito romano non effettuava il movimento nello stesso modo in un paese pacificato o in uno ostile. La letteratura latina ci fornisce qualche interessante dettaglio sull’argomento.
Polibio, ad esempio, spiega in modo dettagliato il modo di procedere durante la guerre puniche, in un’epoca in cui i soldati sono ancora distinti per età ed equipaggiamento: i giovani e pieni di ardore, gli hastati, formano la prima linea e subiscono il primo urto; i princeps, nella forza della loro età, costituiscono la seconda linea, mentre i triarii, altrimenti detta, la riserva dei veterani, risultano in terza linea e intervengono in caso di grave difficoltà.
Si può notare che l’ordine di marcia delle unità, riportato da Polibio, non è motivato solamente da considerazioni tattiche, ma anche dalla preoccupazione degli uomini: “In linea generale, si mette in avanguardia gli extraordinarii (corpi scelti della fanteria e della cavalleria alleata), dietro i quali vengono gli alleati che formano l’ala (unità di cavalleria) di destra, seguiti dalle bestie che portano i loro bagagli. Poi viene la prima delle legioni romane con i suoi bagagli al seguito. Quindi viene la seconda, seguita sempre dai suoi bagagli quelli degli alleati che formano la retroguardia ed infine l’ala di sinistra alleata che chiude la marcia. Quanto ai cavalieri, accade loro di marciare dietro i corpi ai quali appartengono, ma, spesso, essi procedono parallelamente alla colonna, a fianco degli equipaggi, per contenere le bestie e metterle al coperto in caso di attacco. Quando ci si attende un attacco sulla retroguardia non viene cambiato nulla a quest’ordine di marcia, se non il fatto che gli extrordinarii vengono posti in coda, piuttosto in testa. L’ordine nel quale marciano le due legioni e le due ali viene invertito giorno dopo giorno, di modo ché, quella che oggi marcia per prima si ritrova per secondo l’indomani; tutto questo perché tutti possano essere a turno i primi ad approfittare dell’acqua e del foraggio trovato sulla strada. Nel momento in cui c’è pericolo e che si avanza in terreno scoperto, si può anche adottare un altro ordine di marcia. Hastati, princeps e triarii avanzano su tre colonne parallele, con in avanti i bagagli dei primi manipoli, quindi, i bagagli dei secondi dietro i primi manipoli, poi i bagagli dei terzi dietro i secondi manipoli e così via, alternando, in tal modo, manipoli e bestie da soma lungo tutta la colonna. Grazie a questo dispositivo, quando si vede avanzare un assalitore, i manipoli possono volgersi verso la sinistra o verso la destra, in modo da disimpegnarsi dagli equipaggi per schierarsi di fronte al nemico. In tal modo risulta sufficiente qualche istante ed una sola manovra perché la fanteria pesante si trovi schierata in battaglia, salvo nel caso in cui gli hastati debbano fare una evoluzione per scambiarsi il posto con i triarii (vale a dire quando gli hastati formano la colonna di destra e l’attacco nemico proviene da sinistra). Gli equipaggi e tutta la gente del treno si ritrovano a quel punto nel posto più opportuno quando si dà battaglia, vale a dire dietro le linee” (VI, 40, 4-14).
Secondo lo storico Giuseppe Flavio, il figlio dell’imperatore Vespasiano, Tito marcia su Gerusalemme secondo le stesse disposizioni adottate dal padre: “Le truppe ausiliarie ed alleate marciano in testa. I pionieri li seguono per spianare il cammino. Dopo vengono i pionieri ed agrimensori che erano designati per tracciare il campo e dietro ad essi seguono i bagagli dei capi con la loro scorta. Tito viene subito dopo, accompagnato dalle sue guardie e da altri soldati scelti armati di lancia, precedendo le macchine da guerra, scortate dai tribuni con le loro guardie ed i comandanti di coorte. Dopo viene l’aquila della legione circondata da insegne delle legioni precedute da trombette. Il corpo di battaglia, i cui soldati marciano in blocchi di sei per sei segue il tutto. I valletti delle legioni marciano quindi dietro con i loro bagagli e le vivandiere e gli artigiani precedono le truppe scelte della retroguardia” (Flavio Giuseppe, Bellum Judaicum, V, 2, 1).
Va notato che le impedimenta seguono immediatamente i pionieri e i soldati scelti per costruire il campo e che le macchine da guerra, anche smontate, non potevano viaggiare su carri tirati da buoi, troppo lenti, ma piuttosto su muli, che potevano avanzare alla stessa velocità degli uomini a piedi. Si può notare, inoltre, che il generale in capo conduceva il testa le sue truppe e non era preceduto da nessuna legione; ad eccezione dei suoi bagagli e delle macchine da guerra, tutti quelli dell’esercito erano piazzati in coda alla colonna. La presenza in testa alla colonna di soldati destinati a correggere i difetti della strada appare logica, specialmente in un paese che non dispone ancora di buone strade di circolazione.
Vegezio, lo storico militare più letto nel Medioevo, riassume in poche righe quello che doveva essere un esercito ben disposto per il movimento: “Esso deve cominciare con una avanguardia di cavalleria seguita da fanteria; piazzare gli equipaggi al centro; sosteneteli in coda da fanteria e cavalleria e sul fianco un pari numero di truppe, perché è soprattutto dal fianco che una colonna in marcia corre il rischio di essere attaccata. Occorre anche aprire la marcia con una cavalleria scelta e fanteria leggera ed arcieri, specie sul lato dove verosimilmente potrebbe venire l’attacco; ma dovete mettervi in condizioni di fronteggiare tutti i lati nel caso che il nemico vi investa” (Vegezio, Epitoma Rei militari, III, 6).

L’ordine di marcia alla fine dell’Impero

Nel IV e V secolo, l’esercito subisce dei cambiamenti profondi nella sua struttura, nei suoi effettivi, nei suoi equipaggiamenti e nelle sue modalità di combattimento. Quello che risultava abituale in epoche anteriori non continuava necessariamente ad esserlo. L’imperatore bizantino Manuele I (582-602), nel suo Strategikon (XII, B, 6), enumera quello che deve essere trasportato su carri leggeri, in ragione di uno per ogni decarcia (non di più, in quanto gli uomini diventerebbero negligenti), ovvero una camerata di 10 uomini: la macina per il grano, le asce, la sega, la mazza, due pale e due dolabri, una falce, un paniere, tela grossolana una riserva di plumbatae (freccette piombate lanciate a mano), di triboli [4], con uno strumento in ferro per recuperarli.
Basandosi sullo Strategikon, ma anche su altri scritti anteriori risalenti all’Alto Impero, il Trattato di Leone VI il Saggio (866-912) [5], degli inizi del X secolo, suggerisce un carro ogni 16 uomini (l’equivalente di due contubernia dell’Alto Impero) per deporvi i loro strumenti, i cesti di vimini, come anche la macina per il grano (Leone VI, Tactica, IV).
In una azione improvvisa, se i carri devono essere lasciati indietro, due decarcie dovevano utilizzare al posto del carro un mulo o un cavallo da basto (o anche di più se possibile), abituati a un carico sufficiente per tenere da 8 a 10 giorni, il tempo che consenta l’arrivo del grosso dei rifornimenti, con provvisioni di farina e biscotti, frecce e corde di ricambio. A tutti questi carri occorre aggiungerne altri per le armi di tutte le truppe, in quanto sembra che, a questa epoca, le truppe marciassero con poco peso o si sbarazzassero preliminarmente del loro pesante equipaggiamento. Era, a tal proposito, raccomandato che i soldati seguissero a fianco dei loro carri, al fine di poter riprendere rapidamente il materiale in caso di attacco (Manuele, Strategikon, XII, B, 19). Di norma, quando la battaglia risultava imminente, le impedimenta inutili venivano lasciate indietro, a 30 o 50 leghe, con abbastanza riserve di acqua e di foraggio per approvvigionare gli animali. Gli uomini di guardia dovevano rimanere in contatto con il resto dell’esercito per seguire gli sviluppi del combattimento (Manuele, Strategikon, V, 3). Ma se questo allontanamento si dimostrasse impossibile, occorreva piazzare i bagagli appena dietro le linee della fanteria, prendendo cura di non superarle. I carri erano girati con il dietro rivolto alla battaglia, con trappole negli intervalli per formare una muraglia impenetrabile ed un rifugio. Il loro telone (posto indubbiamente su una armatura in legno) serviva a proteggere le bestie e i conduttori dalla pioggia di frecce. I veicoli che trasportavano le macchine da guerra (carrobalista [6]) erano posti sulle ali, essenzialmente girati verso la fronte della battaglia (Manuele, Strategikon, XII, B, 18). In questo caso specifico, abbiamo l’indicazione che gli animali che tiravano i carri erano dei buoi. Questo tipo di equipaggi risulta visibile sulla Colonna Aureliana o sull’Arco di Settimio Severo a Roma. Si potrebbe pertanto concludere che fino al II e al III secolo, i muli risultavano preferiti ai bovini, proprio per le ragioni precedentemente esposte.

Note

[1] Contubernium: era la più piccola unità militare dell’esercito romano. (il Contubernium in epoca classica indicava anche un rapporto permanente tra servi o tra dominus e serva). Il contubernium era composto da otto uomini possibilmente facenti capo ad un decano e in alcuni casi uno o più servi erano a disposizione dei legionari che ne facevano parte secondo le disponibilità economiche degli stessi soldati. Dieci contubernia formavano una centuria. I soldati di uno stesso contubernium condividevano la stessa tenda (per questo erano definiti contubernales) ed erano ricompensati o puniti insieme.

[2] Pseudo Igino, De munitionibus castrorum, tradizionalmente attribuito ad Igino Gromatico (per questo l’autore è convenzionalmente chiamato “Pseudo-Igino o Higin”). L’opera rappresenta la più particolareggiata descrizione di un accampamento romano (castra) e della sua costruzione. Fu scritta, ormai lo si sa con certezza, al tempo delle guerre marcomanniche di Marco Aurelio (fine del II secolo). «Conteremo quindi le unità (presenti nel campo) come segue: 3 legioni (pari a 15.000-18.000 legionari), 1.600 vexillarii, 4 coorti praetorie (pari a 2.000 pretoriani), 400 cavalieri pretoriani, 450 cavalieri singulares dell’imperatore, 4 ali milliarie (pari a 3.000 cavalieri) e 5 quingenarie (pari a 2.500 cavalieri), 600 cavalieri mauri, 800 cavalieri pannonici, 500 classiarii della classis Misenensis e 800 della classis Ravennatis, 200 esploratori, 2 coorti equitate milliarie (pari a 2.000 ausiliari) e 4 quingenarie (pari a 2.000 ausiliari), 3 coorti peditatae milliariae (2.400 ausiliari) e 3 quingenariae (1.500 ausiliari), 500 Palmireni, 900 Getuli, 700 Daci, 500 Britanni, 700 Cantabri e due centurie di statores».

[3] Posca: era una bevanda in uso nell’antica Roma che, per via della sua economicità, era diffusa presso il popolo ed i legionari. La si ricavava miscelando acqua e aceto, ottenendo così una bevanda dissetante, leggermente acida, e dalle proprietà disinfettanti.

[4] Triboli: trappole, composte da uno strumento di ferro con quattro punte, capace di rimanere sempre con una punta rivolta verso l’alto.

[5] Leone VI, figlio presunto di Basilio I il Macedone (867-886), è stato un imperatore di prim’ordine. Aveva diviso la chiesa, ma questo gli aveva permesso di continuare la dinastia per altri 150 anni. Ha governato saggiamente, lasciando l’impero in buone condizioni. E’ stato autore di vari scritti e poemi ed ha compilato un trattato di arte militare: Tactica, sive De instruendis aciebus, ristampato a Venezia nel 1586.

[6] Il carrobalista era, secondo il Guglielmotti, noto autore del Vocabolario marino e militare, una macchina di guerra, campale o fissa, specificatamente la prima macchina da lancio, impiegata nell’esercito romano, che sfruttava l’elasticità dei materiali e la tensione delle corde. Della stessa tipologia facevano parte l’arco, la balista, lo scorpione, la catapulta e l’onagro. Essa è, appunto una evoluzione della balista, che poteva essere montata su un traino e spostata agevolmente con l’ausilio di muli. Deriva dalla necessità di costituire un tipo di artiglieria che potesse essere utilizzata anche in battaglia e non solo durante gli assedi. Il carrobalista sfrutta la potenza di molle di bronzo composte da molte anime, per sparare lunghe frecce oppure “ghiande” di piombo. Vegezio ci dice che era manovrata complessivamente da 11 uomini ed era costituita da quattro parti principali: il calcio dove si trovava il congegno di scatto, il telaio dove erano le corde e i bracci di metallo, un sostegno e il carro. Una specie di vite di puntamento consentiva di alzare o abbassare la traiettoria dei dardi.