LE GUERRE NELLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO (parte prima, 1879-1974)

di Daniela Franceschi -

Le cause, risalenti alla dominazione coloniale, sono comprensibili attraverso un’analisi storica attenta alle dinamiche politico-istituzionali e al contesto geopolitico regionale. L’ancestrale tribalismo etnico, incentivato dalle autorità belghe, impedì l’emergere di una classe media, soffocando la società civile e rendendo l’etnicità un aspetto basilare della competizione politica.

L’instabilità politica ha afflitto, e affligge, molti Paesi africani, impedendo il consolidamento di istituzioni politiche e statuali democratiche. L’instabilità rimane una sfida difficile per molti stati dell’Africa, soprattutto nella Regione dei Grandi Laghi; in particolare, la precarietà delle istituzioni e l’insicurezza interna della Repubblica Democratica del Congo rappresentano i principali ostacoli allo sviluppo economico-sociale e alla stabilizzazione della pace nel Paese e nella Regione nel suo complesso. Le cause profonde dei conflitti, risalenti alla dominazione coloniale belga, che hanno minato la stabilità della Repubblica Democratica del Congo (RDC), sono comprensibili solamente attraverso un’analisi storica attenta alle dinamiche politico-istituzionali e al contesto geopolitico regionale. L’eredità coloniale ha lasciato impronte profonde nel Paese, rivelandosi cruciale per la formazione e il seguente disfacimento dello Stato.

Leopoldo II nel 1866

Leopoldo II nel 1866

Quando nel 1879 stabilì ‘l’autorità del Re’ nel Paese, che divenne nel 1885 lo Stato libero del Congo (in pratica una proprietà privata del re Leopoldo II del Belgio), Henry Morton Stanley introdusse un apparato istituzionale e amministrativo di derivazione europea, anche se in forma minimale. Le popolazioni assoggettate – diverse per appartenenza etnica, linguistica e territoriale e che avevano sperimentato nel corso dei secoli svariate forme di organizzazione politica e statuale – furono sottoposte all’autorità del sovrano belga e, dopo il 1908, quando il re rinunciò al possesso privato del territorio, allo Stato belga. Come molti territori nel continente africano, i confini dello Stato libero del Congo furono definiti dal regime coloniale tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento; infatti tra il 1881 e il 1892 il Belgio conquistò il Katanga e, in seguito, la parte orientale del Congo, sottratta al controllo degli arabi africani e dei mercanti che parlavano swahili tra il 1892 e il 1894. Le frontiere attuali dello Stato furono definite durante la Conferenza di Berlino del 1885, mentre il Trattato del 1910 tra il Belgio e la Germania stabilì il confine tra lo Stato Libero del Congo e il Ruanda. Nel 1919, dopo la fine della Prima Guerra mondiale e la conseguente sconfitta della Germania, il Ruanda fu affidata al Belgio in amministrazione fiduciaria dalla Società delle Nazioni.
È interessante soffermarsi brevemente sulla regione del Katanga: sebbene ufficialmente tale area fosse parte integrante dello Stato Libero del Congo, Leopoldo II la sottopose all’amministrazione della sua compagnia, la Compagnie du Katanga, la cui attività ebbe inizio solamente nel 1900 con il nome di Comité Spécial du Katanga. Il Katanga deteneva, quindi, uno status indipendente rispetto al resto della colonia. La provincia, che mantenne una considerevole autonomia fino al 1933 – quando fu varata una nuova riforma territoriale – divenne la più sviluppata e la più ricca del Congo. La politica economica coloniale si caratterizzò per uno sfruttamento intensivo delle ingenti risorse minerarie e naturali del territorio; fin dall’inizio, la colonia fu trasformata in un fornitore di materie prime, in particolare di gomma naturale e prodotti agricoli. L’estrazione dei minerali acquisì una notevole importanza dopo il 1906, quando fu costruita la ferrovia che collegava la capitale Kinshasa al porto di Matadi. Le strade e le ferrovie furono costruite principalmente per l’esportazione, al fine di connettere i siti di produzione congolesi ai mercati delle città al di là del confine, tralasciando volutamente ogni forma di integrazione territoriale del Paese.

Lo stato belga offrì importanti incentivi alla Société Générale de Belgique, cui fu affidato il compito di estrarre l’oro, lo stagno e il rame, minerali destinati a divenire asset fondamentali della politica economica coloniale. Nonostante non fosse coinvolto nella gestione quotidiana della Società, lo Stato fu un azionista dominante nelle varie sub-società della Societé Générale. Inoltre, alla Società furono consegnate ampie porzioni di territorio per lo sfruttamento minerario e, con il supporto dell’esercito, forza lavoro a basso costo. Nel 1959, anno prima dell’indipendenza, il 60% dei proventi delle esportazioni era fornito dall’industria mineraria e dal rame, l’8% dal caffè e dall’olio di palma e il 7% dai diamanti. Dal 1920 si sviluppò una modesta industrializzazione, che prese un maggiore slancio durante la Seconda Guerra mondiale fornendo cemento, sapone e prodotti chimici per l’industria mineraria.
Il regime coloniale non dotò il territorio congolese di ciò che fa parte di uno Stato moderno: gli investimenti nelle poche infrastrutture esistenti erano finalizzati alla commercializzazione dei minerali e delle colture agricole, non riguardando, se non minimamente, l’educazione e la sanità, solitamente relegate alla gestione delle missioni cattoliche e delle Compagnie. Il sistema di governo coloniale belga è stato denominato “trinità coloniale”, poiché l’amministrazione coloniale e militare, la Chiesa Cattolica e le Compagnie Internazionali formarono un’alleanza per governare il territorio e la popolazione. Una delle particolarità del sistema coloniale belga fu il tentativo di non produrre troppi évolués, persone istruite e formate per lavorare sia in ambito pubblico sia privato. Dal punto di vista educativo, l’istruzione fornita dalle missioni cattoliche era di basso livello, infatti, il numero di évolués nella Pubblica Amministrazione e nell’esercito, esclusivamente nei gradi più bassi, rimase molto limitato. Per quanto concerne la partecipazione alla vita politica, la Loi sur le Gouvernement du Congo Belge del 1908, conosciuta anche come Charte Colonial, proibiva l’attività politica, consentendo solo le associazioni su base etnica, religiosa e culturale. La combinazione di esclusione politica, basso livello di istruzione e una definizione dell’identità e dei diritti in termini etnici spiega perché nessun movimento anti-coloniale si sia sviluppato in tutta la Nazione. La variegata compagine di movimenti politici, nati nel breve periodo di tempo prima dell’indipendenza formale del Paese, si basava sull’appartenenza etnica, identitaria e regionale, non condividendo una visione unitaria per quanto concerneva la forma istituzionale della Nazione.

Missionari in un villaggio del Congo, 1900-1910

Missionari in un villaggio del Congo, 1900-1910

Sotto il profilo amministrativo, la colonia sperimentò una forma di Governo duale, poiché il Governo centrale aveva giurisdizione sui cittadini, in pratica l’élite bianca, mentre le autorità tradizionali si occupavano dei sudditi, le popolazioni native. La distinzione era evidente anche nel sistema giuridico: il diritto civile fu formalmente introdotto, ma il diritto consuetudinario prevalse. Questa eredità del colonialismo ha condotto a ciò che Mahmood Mamdani definisce “Stato biforcuto” con una “cittadinanza biforcuta”. L’amministrazione belga tentò di utilizzare le autorità tradizionali come avamposti per il suo dominio coercitivo, nominandoli in base alle sue esigenze. Tali bisogni includevano un certo controllo amministrativo, ma soprattutto erano utilizzati per mobilitare il lavoro forzato e riscuotere i tributi; per esempio, i nativi erano reclutati per la costruzione delle strade e per la consegna della gomma.
Ad alcune autorità tradizionali, ma non a tutte, fu concesso di esercitare un potere formale sulle comunità locali, con conseguenze importanti per l’accesso alla terra. I nativi congolesi non avevano un diritto di proprietà individuale ma collettivo, diritto esercitabile attraverso le autorità native che si rifacevano ai diritti ancestrali ereditati per l’assegnazione dei terreni. I congolesi privi di un’autorità nativa non avevano accesso alla terra ed erano semplicemente tollerati sulla terra di altri gruppi. Nel periodo della post-indipendenza ciò generò scontri per il possesso dei terreni e problemi relativi alla cittadinanza per alcune comunità. Mentre il grado di formalità, la burocrazia e lo Stato di diritto aumentarono nel corso degli ottantuno anni di colonialismo belga, le autorità tradizionali continuarono a governare la vita quotidiana dei congolesi, occupandosi di temi come il diritto di famiglia e altre questioni giuridiche.

Alla fine degli anni Cinquanta, il Belgio comprese che non era più in grado di gestire un territorio così vasto e complesso, decidendo di attuare delle riforme legislative in vista della prossima indipendenza. Il Governo Belga ratificò un primo abbozzo di Costituzione nel 1960, stabilendo un sistema parlamentare con un doppio esecutivo, con un Presidente e un Primo Ministro eletti indirettamente dalla Camera Alta del Parlamento. Inoltre, il 23 marzo del 1960, il Legislatore promulgò una legge elettorale proporzionale che estendeva il diritto di voto agli emigrati dalle altre due colonie belghe, il Burundi e il Ruanda; il primo articolo affermava che “il votante deve essere congolese o nato da madre congolese o una persona originaria del Ruanda-Burundi residente in Congo da almeno dieci anni”. La Legge conservò il sistema statale centralizzato coloniale, ma concesse una relativa autonomia alle sei province appena costituite: Equatore, Kasaï, Katanga, Kivu, Leopoldville e Orientale. È importante, altresì, rilevare il permanere nella Costituzione di molte ambiguità concernenti il controllo dell’Autorità centrale sugli amministratori provinciali, ambiguità che sarebbero state sfruttate dai leader regionali per realizzare le loro ambizioni politiche.
Dal punto di vista politico, il biennio 1959-60 vide l’emergere di una classe politica congolese, incapace, tuttavia, di organizzare un movimento anticoloniale unito; infatti, in un periodo di tempo così breve nacquero più di cento partiti, che rappresentavano le diverse regioni del Paese più che divergenti idee politiche. I contrasti tra i leader dei vari partiti possono essere esemplificati attraverso dei concetti-chiave: antagonismo ideologico; dispute sulla forma federale o unitaria dello Stato; disputa sul controllo delle risorse naturali; dimensione etnica dei conflitti.

Lumumba a Bruxelles nel 1960

Patrice Lumumba a Bruxelles nel 1960

L’assetto istituzionale del Paese divenne, prima della promulgazione ufficiale dell’indipendenza, il terreno di scontro tra il Movement National Congolaise (MNC), il cui leader era Patrice Lumumba, l’Alliance des Bakongo (ABAKO), guidata da Joseph Kasavubu, la Confédération des Associations Tribales du Katanga (Confederation of Tribal Associa¬tions of Katanga, CONAKAT), rappresentata da Moise Tshombe ed infine l’ala dissidente del MNC, di cui era leader Albert Kalonji.
Le divergenti posizioni traevano origine da punti di vista ideologici e politici difficilmente conciliabili. Per Patrice Lumumba, il distacco dal Belgio, in quanto Paese colonizzatore, e dall’Occidente doveva essere netto. Inoltre, il leader del MNC propendeva per una politica economica ispirata ai principi del socialismo. Contrariamente a Lumumba, Tshombe considerava molto più positivamente il legame instauratosi con il Belgio e con la comunità Occidentale, da qui la preferenza per una politica economica prettamente capitalistica e liberista. Per quanto riguardava l’assetto istituzionale dello Stato, Lumumba pensava che uno Stato unitario e centralizzato fosse la massima espressione dell’indipendenza nazionale. Al contrario, Tshombe, Kasavubu e Kalonji desideravano una autonomia significativa per le province del Congo indipendente. Questi disaccordi rappresentano le radici storiche dei movimenti secessionisti negli anni Sessanta e Settanta.
Sebbene il Congo fosse ricco di risorse naturali, queste non erano egualmente distribuite su tutto il territorio: per esempio, il Katanga deteneva il 70% della produzione di rame e cobalto, contribuendo per il 20% alle spese statali e rappresentando il 75% dell’esportazione nazionale. Similmente, il Kasaï, conosciuto anche come “lo Stato dei diamanti”, aveva una estesa riserva di gemme. Il Kivu possedeva vaste risorse di oro e di stagno. Nei primi giorni dell’indipendenza, i leader di queste regioni si dichiararono favorevoli alla secessione, ritenendo la gestione governativa dei proventi derivanti dalle risorse naturali insoddisfacente per le aree territoriali che rappresentavano.

L’aspetto etnico ha giocato un ruolo importante nei conflitti nati all’alba dell’indipendenza e continua a svolgere una funzione significativa anche oggi. È importante evidenziare che i partiti politici avevano tutti una base etnica, a parte il MNC di Patrice Lumumba, aperto sostenitore di un’unità nazionale che prescindesse dall’appartenenza tribale. Gli altri partiti dichiaravano apertamente sia la loro affiliazione etnica sia l’intento di difendere gli interessi specifici del proprio gruppo contro la minaccia degli “stranieri”, intendendo per stranieri coloro che non appartenevano alla loro etnia. Per esempio, il CONAKAT di Moise Tshombe si era prefisso il compito di difendere gli interessi degli “autentici Katangani”, i gruppi etnici Lulua e Baluba del Katanga, contro gli “stranieri”, Lulua e Baluba del Kivu e del Kasaï. L’orientamento etnico del processo politico fu un risultato del sistema coloniale, che volontariamente impedì l’emergere di una classe media, soffocando la società civile e rendendo l’etnicità un aspetto basilare della competizione politica.

Nikita Chruščëv

Nikita Chruscev

Risulta opportuno soffermarsi anche sul contesto internazionale, in un momento storico in cui il processo di decolonizzazione, iniziato con l’indipendenza dell’India nel 1947, si intersecò progressivamente con il nuovo scenario della guerra fredda. L’emancipazione africana fu uno degli eventi che più suscitarono le mire dei blocchi e che si andò connettendo con l’espansione del campo socialista, creando un inedito rapporto con i suoi Paesi più rappresentativi: L’URSS, la Cina e Cuba.
In Unione Sovietica, tra il 1956 e il 1964, Chruščëv si proiettò in una politica “volontaristica” volta all’assistenza militare e economica dei governi “democratici rivoluzionari”, seguaci di un orientamento socialista (Guinea Conakry, Ghana, Mali, Marocco, Repubblica Araba Unita, Algeria). La coesistenza competitiva avviata, nel 1956, dal XX congresso del PCUS si legava alla convinzione di avere ormai i mezzi per contrastare l’espansionismo “imperialista” degli USA non solo in Europa occidentale, ma anche tra i Paesi di nuova indipendenza, specie in Africa, dove il marxismo-leninismo animava molti movimenti di liberazione. Si delineò una politica che mirava ad inserirsi nei contrasti tra le potenze occidentali e gli Stati africani sul piano economico, ma che si asteneva dall’interferire nei conflitti interafricani. Fu il caso del Ghana e della Guinea Conakry, divenuti indipendenti rispettivamente nel 1957 e nel 1958, dove la politica chrusceviana si caratterizzò per gli ingenti aiuti economici, di molto superiori a quelli offerti dagli Stati Uniti e da altri Paesi occidentali. Il “volontarismo” di Chruščëv si manifestò con evidenza nella crisi congolese del 1960-61, quando il governo di Patrice Lumumba – formatosi nel 1960 con le prime elezioni del Congo indipendente e la vittoria del Movement National Congolaise – fu travolto dalla fragilità della stessa coalizione che ne era alla base, ma soprattutto dalle pressioni occidentali, tra cui quella belga, timorosa del radicalismo nazionalista del leader congolese. La crisi fu aggravata dalla secessione della provincia del Katanga, attuata nel 1960 da Moise Tshombe con il sostegno di una compagnia mineraria europea e del governo belga, che portò rapidamente al collasso dello Stato e aprì una violenta guerra civile, in cui trovò la morte lo stesso Lumumba nel gennaio del 1961. L’assassinio del Primo Ministro congolese fu eseguito molto probabilmente su mandato del Ministro degli Interni del Katanga, ma per mano di mercenari belgi e con la complicità di Tshombe e dei servizi segreti di altri Paesi esterni implicati, mentre le Nazioni Unite si mantennero su una posizione neutrale molto ambigua. Ancora oggi le reali responsabilità della sua morte non sono state chiarite.
Il fallimento dell’intervento di Chruščëv per sostenere il Governo di Lumumba e recuperare il Katanga costrinse l’URSS a ridimensionare le sue ambizioni militari e la stessa idea di “esportare” la rivoluzione, poiché rischiava di aggravare le tensioni interafricane. Nondimeno, gli eventi congolesi consentirono alla diplomazia sovietica di sviluppare una serie di relazioni con diversi Stati africani e, nel contempo, ebbero un effetto di disincanto di fronte all’utopia del neutralismo afro-asiatico, convincendo molti Paesi africani, come il Ghana di Nkrumah, della necessità di allearsi con l’URSS contro le forze dell’imperialismo occidentale, ritenuto responsabile della crisi.

Come descritto in precedenza, entro poche settimane dalla proclamazione dell’indipendenza il Congo si trovò sconvolto dalla guerra civile; infatti, oltre alla provincia del Katanga, anche le province di Shaba, del sud Kasaï e del Kivu dichiararono la loro secessione e, nel contempo, l’esercito si ammutinò, domandando una più veloce “africanizzazione” e un salario maggiore. A questa condizione di instabilità, si aggiunse anche la partenza dal Paese di più di 10.000 unità di personale amministrativo e militare belga, una perdita che non poté essere compensata dal ridotto numero di évolués. Il Primo Ministro Patrice Lumumba e il Presidente Joseph Kasavubu chiesero l’intervento delle Nazioni Unite, in risposta alla secessione del Katanga e all’intervento militare belga, a favore di Tshombe. L’esitazione dell’ONU spinse Lumumba a chiedere il sostegno, nel luglio del 1960, dell’Unione Sovietica, incontrando, così, la ferma opposizione del Presidente Kasavubu. I due si accusarono a vicenda di tradimento, pretendendo la deposizione dell’avversario. Nel settembre dello stesso anno, il Governo fu rovesciato dal Capo di Stato Maggiore Joseph-Désiré Mobutu, incaricato in precedenza dallo stesso Lumumba, che nominò Kasavubu Presidente e Joseph Ileo Primo Ministro. Mobutu instituì anche il Collège des Commissaire, un Governo ad interim. Nel dicembre del 1960, il vice Primo Ministro del Governo di Lumumba, Antoine Gizenga, creò un Esecutivo parallelo a Kisangani, rovesciato nel 1961. La frammentazione politica portò alla coesistenza anche di quattro esecutivi, sebbene ufficialmente il Governo di Cyrille Adoula fosse ancora in carica dal 1961. Sotto la pressione delle Nazioni Unite, Moise Tshombe rinunciò, nel gennaio del 1963, ad un Katanga autonomo. Dopo una breve esilio a Madrid, formò una coalizione guadagnandosi non solo il supporto belga, ma anche il sostegno politico e finanziario di altre regioni del Paese. Tshombe riuscì a far incorporare 18.000 dei suoi soldati secessionisti, i “gendarmi Katangan”, nell’esercito nazionale. Sostenuto da paracadutisti belgi e dall’American Air Force, Tshombe riconquistò la capitale degli insorti, Kisangani, sostituendo Adoula come Primo Ministro nel luglio del 1964.

Joseph Kasavubu

Joseph Kasavubu

Negli anni della guerra civile il Congo modificò il suo assetto istituzionale; la centralizzazione della Costituzione del 1960 fu abbandonata il 27 aprile del 1962 attraverso una Legge, divenuta esecutiva nel 1963, che stabiliva la creazione di 21 province autonome. Nell’agosto del 1964 fu promulgata la Costituzione de Luluabourgh (Kananga), in cui fu risolto il problema della suddivisione dei poteri fra il Primo Ministro e il Presidente, dando maggiori poteri esecutivi a quest’ultimo. La Costituzione del 1964 stabiliva l’instaurarsi di un Governo di transizione da formarsi tramite elezioni nazionali. Tshombe, sperando di essere eletto nuovo Presidente, creò la Convention National Congolaise (CONACO), una coalizione elettorale formata da 49 dei 223 partiti politici esistenti, vincendo le elezioni. Nonostante la vittoria elettorale, nel settembre 1965, il Parlamento diventò molto fluido e una parte sostanziale di esso si schierò contro Tshombe: era emerso, infatti, un significativo blocco anti-Tshombe guidato da Cléophas Kamitatu e Victor Nendaka del “gruppo Binza”. Quest’ultimo doveva il suo nome al quartiere Binza a Kinshasa, dove molti uomini politici avevano vissuto e si erano incontrati privatamente. Secondo Larry Devlin, alla guida della CIA in Congo, i membri più importanti del gruppo erano Joseph Mobutu, capo del Armée Nationale Congolaise, August Bomboko, Ministro degli Affari Esteri, e Victor Nendaka, Capo dell’intelligence.
Il Presidente Kasavubu dichiarò la decadenza del Governo di transizione di Tshombe, nominando come Primo Ministro Evariste Kimba. Seguirono mesi di infruttuose manovre politiche per uscire da questa situazione di stallo. Dopo il mancato voto di fiducia del 14 novembre del 1964 per l’insediamento del Governo di Kimba, mancata investitura causata dall’abilità politica di Tshombe, Victor Nendaka divenne il candidato Presidente, sebbene osteggiato da Cléophas Kamitatu. Questa incapacità del Parlamento di eleggere il Presidente aprì la strada del potere a Joseph-Désiré Mobutu: il 24 novembre, quattordici membri dell’alto comando dell’esercito decisero di prendere il potere, dichiarando decaduti dalle loro funzioni sia Kimba sia Kasavubu e designando Mobutu come Capo di Stato, inaugurando così un regime autoritario destinato a durare fino al 1996. Quando Joseph Mobutu e altri ufficiali dell’esercito presero il potere, non solo l’élite politica nazionale accettò la nuova situazione quasi all’unanimità, ma così fecero sia il mondo occidentale, Belgio e Stati Uniti riconobbero subito il nuovo Esecutivo, sia gli altri Stati africani.

La disintegrazione politica del Congo ebbe gravi effetti sull’economia: mentre le infrastrutture rimasero quasi intatte, la produzione e l’esportazione – in particolare nel settore agricolo – scesero drasticamente. Tra il 1959 e il 1966 l’agricoltura commerciale scese del 42% e l’estrazione dei minerali del 24%. Per ripristinare l’economia era fondamentale l’integrità territoriale. Questo si rivelò il compito dell’esercito nazionale, l’Armée Nationale Congolaise. L’esercito, ammutinatosi dopo l’indipendenza, era diviso in vari gruppi locali privi di un comando centralizzato. Mobutu si dimostrò capace di riunirlo e di riorganizzarlo.
Quando Mobutu salì al potere nel novembre del 1964, riuscì a unificare parti significative dell’emergente élite congolese nella misura in cui queste erano disposte a contribuire a uno Stato unitario, dato che la secessione non era un’opzione praticabile. Le minoranze ricche della parte Nord del Paese, povera di risorse, compresero, altresì, che il loro futuro economico sarebbe stato certamente migliore se unito a quello di un Sud ricco di risorse naturali. Al contempo, le classi abbienti del Sud si astennero da ulteriori minacce di secessione e aderirono al progetto nazionale, in parte perché gli Stati Uniti avevano messo in chiaro, sia finanziariamente sia in termini di supporto per Mobutu, che – a differenza dei belgi, aperti sostenitori della secessione di Tshombe – preferivano un Paese unito come alleato durante il periodo della guerra fredda. Il distacco del personale amministrativo e militare belga subito dopo l’indipendenza lasciò la piccola e frammentata élite congolese a confrontarsi con le sue aspirazioni, i suoi programmi e la possibilità pratica di attuarli. Il quadro istituzionale e costituzionale, Governo e Parlamento, si rilevarono di gran lunga troppo deboli per risolvere i conflitti senza l’aiuto della forza militare. Le diverse élite del Congo non condividevano un comune progetto nazionale, poiché si basavano su appartenenze etniche e regionali. L’incapacità di perseguire ambizioni a livello sub-nazionale e l’esaurimento delle forze le spinsero ad accettare la presa del potere di Mobutu. È ipotizzabile che si fossero rese conto che nessuno di loro era abbastanza forte, anche con l’aiuto esterno, per imporre la propria volontà su altri soggetti politici o regionali.

Mobutu

Mobutu

Lo Stato esclusivo e minimalista leopoldino e belga, una volta rimosso, diede vita a un Paese frammentato, con concorrenti centri di potere e forze militari disgregate. La frammentazione della scena politica tra il 1960 e il 1965 andò di pari passo con una frammentazione economica. Mentre un’economia integrata era lungi dall’essere raggiunta sotto il regime coloniale belga, il declino della produzione agricola e delle attività di estrazione, in combinazione con l’incapacità del Governo centrale di riscuotere le tasse, lasciò le casse dello Stato vuote. Furono necessari quasi cinque anni per superare le faziosità e formare un Governo che avesse una capacità operativa su tutto il territorio. Il monopolio del potere sul territorio si rivelò fondamentale per qualsiasi ulteriore tentativo di costruzione dello Stato. Mobutu e il cosiddetto “gruppo Binza” – i rappresentanti delle élite emergenti del Nord e del Nord-Est – cercarono di introdurre un sistema statuale centralizzato e autoritario in grado di contenere e comprimere le forze centrifughe delle élite contestatarie. Dopo l’istituzione di un Gabinetto di ventidue persone provenienti da tutte le Province e appartenenti a tutte le fazioni politiche, Mobutu dichiarò lo stato di emergenza, sciogliendo il Parlamento e proibendo ogni attività politica. Con l’aiuto dei mercenari e l’appoggio militare del Belgio e degli Stati Uniti, Mobutu fu in grado di “pacificare” le parti del territorio che erano ancora nelle mani delle fazioni opposte.
Il controllo centralizzato sull’opposizione politica fu acquisito un anno e mezzo dopo il colpo di Stato attraverso la creazione del Mouvement Populaire de la Revolution (MPR, 1967). Questo Partito riuscì ad ottenere il controllo sui livelli più bassi dell’apparato statale, così come sulle corporazioni coloniali, sui sindacati, sulle organizzazioni giovanili e studentesche, divenendo, dal 1970, l’unico Partito legale. Il numero delle province fu gradualmente ridotto da 21 a 8 (più Kinshasa, la capitale), e la loro precedente autonomia finanziaria ricentralizzata attraverso la Presidenza, che dimostrò di essere più efficiente, nella ripartizione delle risorse, delle Autorità provinciali in precedenza autonome. Le Province non furono più amministrate da Governatori eletti, ma dai commissari regionali responsabili solo verso Kinshasa. I rappresentanti dello Stato erano spostati in tutto il Paese ogni tre anni e normalmente non potevano prestare servizio nella loro area di residenza.

Le Costituzioni del 1967 e del 1970 affrontarono i problemi legati alla nazionalità, che divenne molto più restrittiva per coloro che provenivano dal Ruanda, e al possesso della terra. Il tema della nazionalità congolese, originatasi dal Decreto del 27 dicembre 1892 che dava un maggior peso alla dottrina dello jus solis rispetto a quella dello jus sanguinis, si rivela basilare per comprendere i futuri conflitti nel Congo. La Costituzione del 1964 rappresentò la prima intelaiatura istituzionale che discriminava coloro che discendevano da antenati ruandesi, rendendo molto più restrittiva la concessione della nazionalità congolese. L’art. 6 riservava la cittadinanza congolese a coloro i cui antenati fossero stati membri di un gruppo etnico vissuto nel Paese prima del 18 ottobre del 1908, escludendo automaticamente la maggior parte dei Banyarwanda di Masisi, che immigrarono tra il 1922 e il 1950 in seguito alla carestia che aveva colpito il Ruanda, così come tutta l’immigrazione illegale dopo il 1960. Le prime frizioni interetniche, tra i Banyarwanda e gli altri gruppi etnici, iniziarono nel Nord Kivu, in cui gli immigrati ruandesi avevano superato di due volte il numero dei nativi Hunde.
Nel 1972, tramite un Decreto, fu promulgata una legge più inclusiva, che conferiva la cittadinanza congolese a tutti gli immigrati del Ruanda e del Burundi che si fossero stabiliti in Congo prima del giugno del 1950 e risiedessero ancora nel Paese. Secondo l’art. 15 della Legge, “le popolazioni del Ruanda-Burundi stabilitisi nella provincia del Kivu prima del 1 gennaio 1950 e che abbiano continuato a risiedere da allora nella Repubblica dello Zaire prima della promulgazione della presente Legge hanno acquisito la nazionalità zairese il 30 giugno 1960”. Nel giugno del 1981, l’approvazione della nuova Legge sulla nazionalità, la n. 81-002, comportò delle importanti ripercussioni per la stabilità del Nord Kivu, specialmente per quanto riguardava i diritti sulla terra arabile. La Legge cancellava esplicitamente i diritti dei Banyarwanda. L’art. 4 stabiliva che era “zairese secondo i termini dell’art.11 della Costituzione del 30 giugno 1960, ogni persona i cui antenati fossero stati membri di una delle tribù stabilite sul territorio della Repubblica dello Zaire entro il 1° agosto del 1885”. La conseguenza della promulgazione di questa legge fu la perdita della cittadinanza da parte della popolazione di origine ruandese, che divenne senza Stato e senza terra. La Costituzione del 1974 istituzionalizzò il sistema del Partito unico, conferendo alla carica del Presidente amplissimi poteri; infatti, l’articolo 28 recitava: “esiste un’unica Istituzione, la MPR (Mouvement Populaire de la Revolution), incarnata dal suo Presidente”, che d’ufficio era anche Presidente della Repubblica (art. 30).
Dal punto di vista ideologico, Mobutu applicò alla sfera economica e politica i concetti di “Autenticità” e “zairinizzazione”. In termini di molteplicità istituzionali, tentò di subordinare le istituzioni rivali a quelle dello Stato da lui presieduto, cercando di abolire l’influenza tradizionale dei capi locali, trasformati in quadri politici-amministrativi dello Stato e del Partito. Allo stesso tempo, usò concetti attinenti l’Africa tradizionale, non solo rinominando il Paese Zaire o la provincia del Katanga Shaba, ma anche utilizzando simboli come il cappello di pelle di leopardo e la canna da pesca per riferirsi alla autenticità africana e all’indipendenza dalla tutela coloniale. La “zairinizzazione” condusse a battaglie ideologiche contro le Chiese – in particolare contro la Chiesa cattolica – a favore della tradizionale religione animista. (fine parte prima)

Per saperne di più

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