LE ATLETE NELLA GRECIA ANTICA E A ROMA

di Michele Strazza -

 

 

Tra divieti e circostanziate aperture, la partecipazione femminile allo sport nell’antica Grecia era sostanzialmente limitata a iniziative di carattere religioso. Faceva eccezione Sparta, dove le ragazze si cimentavano in periodiche competizioni pubbliche. A Roma erano invece diffuse le gare di corsa…

Quando si pensa alla Grecia antica e allo sport, la nostra mente richiama subito immagini di possenti e muscolosi atleti che gareggiavano nelle olimpiadi, nella corsa, nella lotta, nel lancio del giavellotto, del disco e in altre specialità. La cinematografia per lungo tempo ne ha celebrato le gesta in scene indimenticabili. E le donne? Potevano queste partecipare a gare ginniche in un mondo a esclusivo protagonismo maschile?
Pausania, storico e geografo greco, racconta che i Giochi nel Santuario di Olimpia, iniziati nel 776 a.C, erano vietati alle donne. Le donne sposate non potevano neppure assistere, pena la morte. Difatti, lungo la strada che portava ad Olimpia c’era un monte, di nome Tipeo, da cui venivano fatte precipitare le donne, qualora si fosse scoperto che fossero andate alle gare di Olimpia. Ma nessuna fu mai colta sul fatto, ad eccezione di Callipateira. Questa, rimasta vedova, aveva allenato nel pugilato il figlio Pisidoro. Accompagnatolo ad Olimpia, dopo averlo visto vincitore, aveva scavalcato il recinto riservato agli allenatori per andargli incontro. Nel far questo, racconta Pausania, “restò denudata”. Venne, tuttavia, perdonata in quanto figlia del mitico pugile Diagora di Rodi e sorella di atleti olimpionici nel pugilato e nel pancrazio.
Ma ritorniamo alla partecipazione femminile nello sport! E’ lo stesso Pausania a darci notizia di una gara di corsa, anche se a connotazione religiosa, dedicata alle ragazze, istituita proprio ad Olimpia. Erano gli Heraia.

Organizzati su base religiosa da un collegio di sedici donne che si occupavano di tessere il peplo della dea Era, i giochi erano riservati alle sole ragazze, divise, per età, in tre categorie: le più giovani, le maggiori, le più grandi. Esse si confrontavano nella corsa con un “chitone” corto sopra le ginocchia, con la spalla destra nuda sino al petto e con i capelli sciolti. Una statua dello scultore Pasiteles, del I sec. a.C, conservata nei Musei Vaticani, rappresenta proprio una fanciulla vincitrice vestita secondo questa descrizione di Pausania.
Come i più famosi Giochi Olimpici, anche gli Heraia avevano un’origine mitologica: Ippodamia, la figlia di Enomao re di Pisa (in Grecia), volendo ringraziare Era per il suo matrimonio con Pelope, istituì un comitato di sedici donne e con esse organizzò per la prima volta i giochi. La prima vincitrice fu Clori, la sola figlia superstite di Niobe, sorella di Pelope.
In realtà, sembra che l’origine dei giochi fosse da ricercarsi in un avvenimento storico. Le sedici donne, una per ognuna delle sedici città dell’Elide, vennero scelte tra le più anziane e meritevoli “per dignità e fama”, con l’incarico di porre fine alle controversie tra la città di Elis e di Pisa. Esse ricevettero, così, il compito dell’organizzazione dei Giochi e di tessere il peplo per Era.
La gara si svolgeva nello stesso anno e nel medesimo stadio olimpico riservato ai più importanti giochi dell’antichità, ma su un percorso inferiore di 1/6 rispetto a quello riservato agli atleti maschili, cioè 160 metri. Alle vincitrici veniva assegnata, in premio, una porzione della vacca sacrificata ad Era, mentre sui loro capi venivano adagiate corone di ulivo. Infine potevano fare dipingere proprie immagini a ricordo della vittoria conseguita.
Lo stesso Platone ammetteva la possibilità di una partecipazione femminile a gare di corse con un chitone corto che ne lasciasse scoperte le gambe, ma solo se “impubere” sotto i tredici anni, in quanto, per le ragazze più grandi, erano necessari indumenti più convenienti.
Sicuramente non era estranea ai giochi Heraia una valenza di “rito di passaggio” dalla fanciullezza all’età matura della donna.
Un’altra corsa rituale, anch’essa “rito di passaggio”, avveniva nel santuario sulla costa orientale dell’Attica dedicato ad Artemide Brauronia, protettrice delle donne in gravidanza. Qui le fanciulle correvano attorno all’altare di Artemide, imitando i gesti dell’orsa, madre affettuosa, simbolo della forza e del coraggio, animale sacro alla dea. Per questo le stesse fanciulle erano dette “orsette.”

Sicuramente era la città-stato di Sparta a consentire maggiore libertà alle donne di praticare lo sport. Essa, infatti, era considerata l’unica sede esistente di una “ginnastica femminile”.
Lo stesso Licurgo, se dobbiamo credere al racconto di Plutarco, aveva voluto che anche le donne esercitassero il proprio corpo nella corsa, nei lanci del disco e del giavellotto e persino nella lotta. Ciò al fine di garantire la nascita di figli robusti, oltre che per consentire alle future madri di meglio sopportare i travagli del parto.
Sempre a Sparta, vi erano “ginnasi” femminili dove le ragazze erano sottoposte ad una assidua preparazione atletica per poi cimentarsi in gare pubbliche dove facevano sfoggio delle proprie specialità, non esclusa quella della lotta.
Anche in questa città si svolgevano gare di corsa femminili di impostazione religiosa, istituite da undici donne dette “dionisiadi”, nell’ambito del culto di Dioniso. Vi erano due donne, dette “Leucippidi”, con riferimento alle mitiche figlie di Leucippo rapite da Castore e Polluce, le quali tessevano ogni anno una tunica per Apollo Karneios.

Dobbiamo aspettare il I secolo d.C. per avere notizia, ormai nella Grecia in epoca romana, di atlete coinvolte in gare esclusivamente sportive, senza alcuna connotazione religiosa. A questo periodo risalgono, infatti, le sensazionali vittorie di tre sorelle, Tryphosa, Hedea e Dionysia, figlie di Hermesianax, cui, dopo le gare, vengono addirittura dedicate statue ed offerto loro la cittadinanza per l’onore della vittoria.
Così, nelle gare panelleniche Pythia e Isthmia, la sorella maggiore Tryphosa vince nel 39 d.C e nel 41 d.C., per poi vincere di nuovo i Pythia due anni dopo. L’altra sorella è, invece, vincitrice negli Isthmia del 43 d.C., nella specialità della corsa armata sul carro a quattro cavalli, nonché, successivamente, in altre gare. Dionysia, infine, gareggia nel 44 e nel 45 d.C., anche ad Epidauro, riportando significative vittorie.
Nella stessa Roma, capitale dell’Impero, erano diffuse le competizioni femminili di corsa. Abbiamo, infatti, notizia che l’imperatore Domiziano, nell’86 d.C., inserì una gara di corsa femminile all’interno del Certamen Capitolinum.
Nel II sec. d.C., infine, viene annoverata la vittoria di una donna nella “corsa doppia” di 400 metri a Sparta, in una gara tenutasi in onore di Livia, moglie di Augusto.

Per saperne di più

Angeli Bernardini P., Le donne e la pratica della corsa nella Grecia antica, in “Lo sport in Grecia”, Bari, 1988.
Arrigoni G., Donne e sport nel mondo greco, religione e società, in “Le donne in Grecia”, Roma-Bari, Laterza, 1985.
Caldelli M.L., L’Agon Capitolinus. Storia e protagonisti dall’istituzione domizianea al IV secolo, Roma, 1993.
Nanni Durante D., Le regine dello sport. Atlete e artiste in gara nel mondo greco-romano, in “Historika”, VII, 2017.
Ferrandini Troisi F., La donna nella società ellenistica. Testimonianze epigrafiche, Bari, 2000.
Mossé C., La vita quotidiana della donna nella Grecia antica, Milano, Rizzoli, 1988.
Pausania, Periegesi della Grecia.
Plutarco, Vita di Licurgo.