L’APPRODO DEL CACAO E DELLA CIOCCOLATA NEL VECCHIO CONTINENTE
di Antonio Cambria –
Come tutte le novità non venne subito apprezzata: inizialmente i semi di cacao non si credeva avessero grande pregio. Fu nel passaggio dalla Spagna all’Inghilterra, intorno al 1650, che il cacao e la cioccolata acquisirono tutta la loro notorietà.
Gli albori del Seicento sono stati caratterizzati da una vera esplosione di prodotti provenienti dai mercati coloniali. Le innovazioni e i beni che approdarono dai continenti lontani superano in quantità e rilevanza storica, l’ondata prodottasi tempo addietro da Marco Polo e dai viaggi da lui narrati, lungo la famosa via della seta.
La costellazione di piccoli e grandi imperi che costituivano il vecchio continente, divenne lo snodo focale per nuovi beni e pensieri. Si trattava di vivere un commercio del tutto innovativo.
Gli scambi che proliferarono sulle vie di terra e di mare in quel periodo, difatti, si considera tutt’oggi un motore di espansione culturale, sociale, economica e politica senza precedenti. Si teorizza come il motore della ricchezza delle nazioni, l’uomo artefice del proprio destino che cerca di realizzare i propri desideri, superare e soddisfare i propri bisogni.
Il concetto di scambio del superfluo con il necessario cominciò a caratterizzare le azioni di confronto tra individui, si vendeva qualcosa che era in più e di cui, quindi, posso privarmi, per ottenere qualcosa di cui ho bisogno. Fu in questo modo che i concetti di bisogno, di povertà e di lusso iniziarono a prendere forma assurgendo a termini meritevoli di vere e proprie definizioni.
Il lusso
Il lusso iniziò ad essere concepito secondo una dicotomia. Passando da un indicatore di eccesso ad un elemento di produzione, infatti, i beni di lusso potevano essere un ottimo motore di sviluppo e di soddisfacimento del piacere dell’uomo. Si osserva un notevole impatto sul mercato del consumo di beni extraeuropei che si identificarono come beni di lusso.
L’esempio probabilmente più eclatante è quello delle bevande coloniali che, entrando nel vecchio continente, imposero una riflessione economica, etica e culturale di eccezionale importanza (Carmagnani 2012, 1615).
Il lusso, in accezione negativa, può essere considerato come spreco, consumo e sperpero delle proprie ricchezze, in cui a prevalere sono sentimenti e passioni e non più bisogni. Mentre in un’ottica positiva è uno strumento di sviluppo.
Il concetto di consummere legato a quello di bene di lusso con la conclusione del ciclo produttivo di un bene che poi, venduto, mette in movimento l’economia non è da sottovalutare: produzione e consumo sono il fondamento dello sviluppo di qualsiasi economia. E il lusso è visto come fune di via per sfuggire ai gravi problemi di arretratezza che nell’età moderna dilagavano in Europa (Carnino 2014, 72). Serve a garantire un riequilibrio delle gerarchie tradizionali, e quindi inteso come cardine per la circolazione di ricchezze.
Difatti, il lusso favorisce indubbiamente la circolazione del denaro, creando una domanda per la produzione interna che si sviluppa in mobilitazione sociale e si configura come circolatore di ricchezza, ridefinendo quindi sé stesso come sinonimo di produzione e progresso.
L’autore Isidoro Bianchi, nella sua opera Meditazioni sui vari punti di felicità pubblica e privata (1774), tratteggia un modello di sviluppo economico che utilizza come forza motrice il lusso, la cui origine si identifica in un naturale istinto umano. L’uomo al centro della società che è capace di controllare questa fino al massimo dello sviluppo economico (Carnino 2014, 114).
In una società progredita questa accezione comporta intendere il lusso come qualcosa che non si è stati capaci di gestire, trasformatasi così in eccesso e, quindi, in dilapidazione della propria fortuna. Fu Marie Dumont, successivamente, a dimostrare come il lusso potesse, in realtà, corrispondere all’indispensabile e non propriamente più essere, di contro, considerato come eccesso. (Carnino 2014, 75).
Questa dicotomia si ripropone anche sui beni che vengono considerati delle luxuries, il cui consumo eleva lo spirito dell’uomo che soddisfa i propri desideri e, come nel caso della cioccolata, anche delle papille gustative.
Come per ogni cosa però, anche in questo caso si cela un lato negativo, come lo sfruttamento delle popolazioni poco civilizzate per il processo di produzione di questi beni. Nell’Europa del Settecento si ebbe una rapida espansione del consumo e della diffusione delle bevande coloniali: il caffè attraverso Venezia, il tè dall’Oriente attraverso l’Inghilterra e il cacao/cioccolata dalle Americhe attraverso la Spagna. Si tratta di beni che portano con sé segni caratteristici del cambiamento in moto che tra qualche secolo porterà una rivoluzione non solo economica, ma anche industriale (Carmagnani 2012, 1620).
A partire dal Settecento questi beni che passarono dall’essere considerati di natura religiosa o con una matrice di narrazione alle spalle a essere considerati dei beni di lusso, si diffusero in alcune società democratizzandoli mentre, in altre, rimasero legati esclusivamente ad alcune porzioni della società come simbolo di aristocrazia.
L’arrivo della cioccolata
La cioccolata è una bevanda esotica, introdotta in Inghilterra nel 1650, arrivata attraverso la Spagna e adattata al gusto dei palati degli Englishmen.
Il processo che condusse alla vera propria diffusione del prodotto, fu lungo (Loveman 2013) e ci volle altresì tempo affinché la parola “cioccolata” nel dizionario, risultasse indicativa di quel prodotto.
Si dovette aspettare il 1690, quando le coffe-houses, sviluppandosi e adeguandosi, evolsero in chocolate house. Ciò che svantaggiò il cioccolato, rispetto al tè e al caffè furono i numerosi fattori che entravano in gioco. Uno tra primi fu l’ostracismo della chiesa, perché il cioccolato era ritenuto afrodisiaco e per i critici e cattolici conservatori era sinonimo di decadenza.
La bevanda a base di cioccolato era all’inizio più costosa, visto che il bene coloniale aveva dei costi fissi dovuti alle sue importazioni ed esportazioni, condizionate, fra glia altri, da fattori naturali come le tempeste che si abbattevano sul territorio Giamaicano e sud americano che non favorivano la crescita del prodotto. Le lunghe tratte di navigazione, la pirateria, rendevano particolarmente difficile l’arrivo del cioccolato. Tutto ciò confluiva nel fatto che, per i commercianti, era più redditizio investire nello zucchero.
Il cioccolato comportava una continua sperimentazione di sapori e ricette, mentre il tè e il caffè avevano uno sviluppo differente ed un processo di immissione nel mercato inglese più facile. Inoltre il tè e il caffè erano più economici e soprattutto producevano più rapidamente quantità di liquido e bevanda.
Il cioccolato seguì sempre nell’ombra lo sviluppo del caffè che, a sua volta, fu superato dal tè e dalla voracità degli Inglesi nel consumarlo. Prendendo alcuni dati della Dogana degli anni ’20-’30 del 1700, si può notare come le quantità di tè importate fossero il doppio di quelle del cioccolato (Loveman 2013, 27-46).
Sono molti gli autori che hanno indagato il tema della cioccolata scrivendone; tra questi devono essere citati Antonio Colmenero de Ledesma, con la sua opera A curious treatise of the Nature and Quality of Chocolate oppure Kanes Wadsworth e John Dakins. Ma il vero precursore a parlare di cioccolata con maggior successo, fu il missionario spagnolo Bernardino de Sahagun. Nella sua opera enciclopedica Historia general de las cosas de Nueva Espana illustra tutto il processo della preparazione della cioccolata, dalla macinazione alla dolcificazione.
Come tutte le novità non venne subito apprezzata. Gli spagnoli non considerarono i doni delle popolazioni indigene con importanza e altrettanto fecero i pirati, inglesi pensando che i semi fossero escrementi di pecora e per questo li bruciarono. Solo dopo l’arrivo dei conquistadores che studiarono i comportamenti delle popolazioni indigene essi iniziarono a importare i semi di cacao e consumare la bevanda esotica. Il primo contatto tra Spagna e Inghilterra avvenne grazie al prete cattolico John Cage. Nel 1648 in una delle sue lettere descrive la cucina esotica e si concentra sull’utilizzo del cioccolato come elemento necessario definendolo chocaholics (Campos 2009, 183-200).
Nel 1668, anche il conte di Sandwich, tornando dalla Spagna raccolse informazioni su una nuova sostanza importata, il cioccolato. Il conte scrisse un giornale e varie procedure su come utilizzare questa bevanda. Tutti gli scritti, i diari, i giornali di ricette che furono scritti dai loro predecessori e dai loro successori, non fanno altro che cercare di ricostruire l’evoluzione dell’espansione della cioccolata in Europa, specialmente in Inghilterra, in parallelo con quella del tè e del caffè. Queste ultime due ci misero certamente meno tempo, rispetto alla cioccolata, a diventare commodities partendo dall’essere delle luxuries.
L’adattamento ai gusti inglesi è fondamentale da segnalare e da indagare perché cambia sia i processi di preparazione della cioccolata, sia i destinatari del bene. Hannah Woolley, nella sua opera The Ladies Directory, scritta nel 1662, nel capitolo “To make Spanish Chaculata”, riporta la prima ricetta della bevanda esotica seguendo il metodo spagnolo (Tigner 2001, 129-149).
Questo metodo di preparazione però non fu di gradimento agli inglesi che iniziarono ad utilizzare un diverso liquido di miscelazione che non fosse sola e semplice acqua, evitando altresì di utilizzare spezie troppo piccanti, bensì si preferì l’utilizzo del latte, delle uova o addirittura, in alcuni casi, del vino (Stubbe 1662, 109). Nelle ricette della Woolley si parla inoltre della mescolanza di varie spezie.
Successivamente, sempre come prodotto del costante processo di innovazione, in Inghilterra si realizzò l’invenzione della cioccolata solida in barrette, che è da attribuire all’inglese Joseph Fry, quando l’industria Fry a Bristol utilizzò il primo stampo per creare le barrette che ancor oggi conosciamo.
L’interazione con il cioccolato da parte degli europei determinò l’importazione di un’altra materia prima importantissima, ovvero lo zucchero. Infatti lo zucchero, prodotto nelle vaste aree americane e africane divenne ben presto un elemento necessario da accostare al cioccolato (Mintz 2006, 30).
La cioccolata si fa largo
La diffusione del cioccolato deve molto al lavoro di pubblicità e di promozione che ci fu a quel tempo. Infatti i venditori di cioccolata descrissero questo prodotto come un medicamento, una bevanda esotica e di piacere. Il Dr. Kate Loveman spiega che a latere delle comuni virtù del cioccolato come normale bevanda si riesce a trovare anche una funzione afrodisiaca e la sua ricerca rivela quindi come un bene di lusso abbia potuto innestarsi ed adattarsi alla società inglese.
Quello che inizialmente era un bene di lusso, con il tempo diventò una decencies, cioè quel prodotto che si può collocare a metà tra i beni di lusso e i bisogni necessari dell’uomo.
Si pensava che il cioccolato fosse una bevanda terapeutica che aiutasse la digestione e che favorisse anche uno stato fisico migliore. Era anche un rimedio consigliato nelle giornate calde per riprendere le forze, specialmente alle donne. Una particolarità del cioccolato, oggi prevalentemente diffuso come barretta, come sopra riportato, in realtà nell’antichità era solo una bevanda da bere e la parte più desiderata era la preparazione della schiuma spessa e corposa che si veniva a creare nel versare il liquido da una brocca all’altra (Coe 1996, 389). Beau Brummell, comunque, bevve la sua cioccolata macinata e non versata da una coppa ad un’altra una volta approdato al vecchio continente.
La differenza sostanziale con i nostri tempi è la sua dolcezza e l’assenza di spezie piccanti.
Nel lavoro The true history of chocolate di Sophie Coe, viene anche sottolineata l’innovativa situazione dell’industrializzazione che nell’Inghilterra che favorì un maggiore sviluppo e commercializzazione del prodotto. Infatti, se in Francia la produzione e la distribuzione erano monopolizzate dalla corona, per supportare e incrementare le entrate del governo e quindi fornire il cioccolato solo esclusivamente all’aristocrazia, in Inghilterra la cioccolata era accessibile a tutti, o almeno a quelli che se la potessero permettere, presso le cosiddette coffee houses dove, oltre a essere serviti con una tazza di caffè, era possibile ordinare il tè o la cioccolata. Ciò comportava la necessità di avere un processo molto più semplificato e veloce per non avere poi ritardi su tutta la catena di produzione e distribuzione (Loveman 2013, 27-46).
Un elemento che mi sento di enfatizzare, da tenere a mente come cardine sul quale riflettere e capirne il senso, leggendo questa relazione è il seguente: il successo del cioccolato è attribuibile alla sua promozione e al suo adattamento al sapore dei cittadini e soprattutto al suo adeguamento al loro stile di vita. Tutto ciò è servito a far diventare una bevanda straniera, esotica, considerata come “lusso”, una “comodità” quotidiana.
A cercare di capire questo cambiamento anche a più ampio respiro, è l’antropologo dei Caraibi Sidney Mintz che cerca confini temporali e disciplinari per comprendere meglio cosa abbia portato il cambiamento. Infatti si può utilizzare questa specifica storia sociale come dimostrazione di nuova antropologia che cerca di interpretare la relazione tra struttura e cambio, tra “gusto”, da un punto di vista economico, e “scelta” da un punto di vista psicologico.
Dire che la cioccolata si diffuse come bene “comune” solo per spirito di emulazione dello stato sociale dell’aristocrazia sarebbe probabilmente riduttivo. Cionondimeno si potrebbe pensare, comunque, che la piccola e media borghesia imitasse la parte ricca, sostituendo alle loro bevande latte e uova che riducevano così la quantità di cacao che doveva essere utilizzata, ancora abbastanza costoso, garantendosi così un risparmio economico.
Conclusioni
Leggere le parole del naturalista Francisco Hernandez, che vedeva l’America, nel periodo pre-conquista, come un paradiso terrestre dove non c’era segno di avarizia, dove la moneta di scambio, che era proprio la cioccolata, cresceva sugli alberi, ci permette di comprendere i differenti modi di pensare che portarono gli Europei a sostituire la spezia con una moneta. Già precedentemente era accaduto, al tempo degli antichi romani, con il sale. Quella che Martyr definiva come una bevanda fitted for king (Campos 2009, 185), iniziò rapidamente a trasformare i gusti del vecchio continente e introdusse insieme alle due sorellastre (tè e caffè) dei nuovi input in un sistema economico, sociale e culturale che stava per cambiare. Un sistema aperto al commercio internazionale, ricco di innovazione che vedeva al centro l’uomo e la sua potenza, con di fronte a sé un immenso terreno coloniale a disposizione.
Da ricette complesse, come quelle definite per esempio da Antonio Colmenero, si passò a ricette che si potessero adattare a qualsiasi palato, segno di un’idea di creatività, di voglia di sperimentare e di libero arbitrio, di azione umana che fino a quel momento non era concepibile. La capacità del cioccolato di accomodare svariati gusti e sapori gli permetteva di essere un prodotto vendibile e che si attagliasse a tutti. Necessitava solo di un po’ più di tempo e di interiorizzazione nella società nella quale stava ponendo le sue radici. Era il prototipo del prodotto di massa.
In conclusione ci si deve soffermare sull’idea che da un piccolo seme di cioccolato, dapprima sconosciuto alla maggior parte del mondo civilizzato, si è innescato lo sviluppo di politiche, di relazioni economiche, sociali e culturali di vastissima entità. Le politiche commerciali, il commercio internazionale, le strutture logistiche, le produzioni e le distribuzioni, l’abitudine, consolidatasi nei salotti aristocratici, di bere una tazza di cioccolato, sono elementi che vanno tenuti in considerazione e portati ed esempio quando si parla di sviluppo e cambiamenti.
Lo sviluppo generato da un bene coloniale inizialmente considerato una luxury, è segno dell’importanza che il lusso riveste nel commercio. Ritornando dalla disamina del passato alla realtà odierna, per cercare di capire se queste tematiche sono attuali, si deve concludere positivamente che anche oggi, nel mondo globalizzato, tutti hanno la possibilità di adattare un bene, sia esso un lusso o una commodity, ai propri desideri.
Un po’ come accadeva nell’età moderna ma, decisamente, con maggiori possibilità. È così che un bene di massa viene democratizzato e diviene disponibile a tutti.
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Per saperne di più
Campos E., Thomas Gage and the English Colonial Encounter with Chocolate, Journal Of Medieval And Early Modern Studies 39(1), 2009.
Carmagnani M., Le isole del Lusso. Prodotti esotici, nuovi consumi e cultura economica europea, Historia Mexicana, El colegio de Mexico, 2012.
Carnino C., Lusso e Benessere nell’Italia del Settecento, Temi di Storia, FrancoAngeli, 2014.
Coe S., The True History of Chocolate, Thames, New York, 1996.
Loveman k., The Introduction of Chocolate into England: Retailers, Researchers, and Consumers, 1640–1730, Oxford University Press, Journal of Social History 47(1), 2013.
Mintz S., Sweetness and power: The place of sugar in modern history, Penguin Books, New York, 2006.
Stubbe H., The Indian Nectar: Or a Discourse Concerning Chocolata!, London, 1662.
Tigner A., Preserving Nature in Hannah Woolley’s The Queen-Like Closet; or Rich Cabinet, cfr. Ecofeminist Approaches to Early Modernity, edited by Jennifer Munroe and Rebecca Laroche, Palgrave, 2011.