L’ANTISEMITISMO IN POLONIA DOPO AUSCHWITZ

di Daniela Franceschi –

 

I pogrom antiebraici non finirono dopo il 1945. Jan Tomasz Gross, storico e sociologo di origine polacca, racconta in un volume – non ancora tradotto in italiano – la violenza antisemita diffusa nella società polacca.

Nella primavera del 1945, poco dopo la sua liberazione da Auschwitz, Primo Levi, viaggiando attraverso la Polonia meridionale in treno, scese in una piccola città per sgranchirsi le gambe e si trovò immediatamente al centro di un gruppo di curiosi, tutti che parlavano con eccitazione, e incomprensibilmente in polacco. «Forse sono stato tra i primi vestiti con abiti di zebra ad apparire in quel posto», ha ipotizzato, riferendosi alla divisa a righe del campo di sterminio, in La tregua, il suo memoriale del viaggio verso casa attraverso le macerie dell’Europa post bellica. Fortunatamente per Levi, «nel bel mezzo del gruppo di operai e contadini apparve un borghese, con cappello di feltro, occhiali e valigetta di cuoio in mano: un avvocato. Era polacco, parlava bene francese e tedesco, era una persona estremamente cortese e benevola; in breve, possedeva tutti i requisiti che mi consentivano finalmente, dopo il lungo anno di schiavitù e silenzio, di riconoscere in lui il messaggero, il portavoce del mondo civilizzato, il primo che avevo incontrato». Levi parlò a velocità vertiginosa di quelle «esperienze così recenti, di Auschwitz nelle vicinanze, eppure, sembrava, sconosciuto a tutti, dell’ecatombe da cui ero scappato da solo, di tutto». E l’uomo tradusse.
Ma Levi non impiegò molto a capire che qualcosa non andava. «Non conosco il polacco, ma so come si dice ebreo e come si dice politico” e presto mi resi conto che la traduzione del mio resoconto, benché fosse solidale, non era fedele. L’avvocato mi ha descritto al pubblico non come un ebreo italiano, ma come un prigioniero politico italiano. Gli ho chiesto perché, stupito e quasi offeso. Rispose imbarazzato: “C’est mieux pour vous. La guerre n’est pas finie”. “È meglio per te. La guerra non è finita”».

antisemitismoQuesto era vero. Le truppe russe avevano liberato delle aree della Polonia orientale già nel novembre del 1944, ma non raggiunsero Auschwitz che alla fine del gennaio del 1945, e altri campi di concentramento rimasero operativi fino a maggio. Ma era in un senso più ampio che la guerra non era finita per gli ebrei in Polonia, e non sarebbe finita ancora per altro tempo. Come descrive Jan T. Gross in Fear: Anti-Semitism in Poland After Auschwitz, gli ebrei polacchi che avevano avuto la straordinaria fortuna di sopravvivere nei campi furono accolti al loro ritorno a casa con brutale violenza. Nel giugno del 1945, diversi ebrei che viaggiavano in treno nella Polonia orientale furono assassinati dai loro compagni di viaggio. Ad agosto, una folla attaccò la sinagoga di Cracovia per poi dare la caccia agli ebrei per tutta la città, uccidendone diversi e ferendo decine di persone. La scrittrice Zofia Nalkowska, visitando un orfanotrofio ebraico, notava come i bambini non potessero iscriversi alla scuola pubblica a causa delle «percosse e delle persecuzioni». La primavera seguente, l’intellettuale cattolico francese Emmanuel Mounier riferì che più di un migliaio di ebrei era stato ucciso nella campagna polacca negli ultimi nove mesi.
Il 4 luglio 1946, decine di ebrei furono uccisi e centinai feriti in un bagno di sangue di un’intera giornata a Kielce, un eccidio divenuto famoso come il pogrom più letale in tempo di pace dell’Europa moderna.
Sono le date di questi episodi – 1945 e 1946 – che li rendono così sbalorditivi. Abbiamo visto le immagini dei sopravvissuti liberati da Buchenwald e Dachau: anche in Polonia, una delle nazioni notoriamente più antisemite in Europa, come potevano queste figure suscitare qualcosa di diverso dalla pietà? Ma come Gross ha già dimostrato, la persecuzione degli ebrei da parte dei nazisti è stata accolta con tacita accettazione in molte parti del Paese. Con il suo libro Neighbors: The Destruction of the Jewish Community in Jedwabne (edizione italiana: I carnefici della porta accanto. 1941, il massacro della comunità ebraica di Jedwabne in Polonia), Gross ha descritto l’orribile storia del massacro di oltre un migliaio di ebrei residenti in una piccola città polacca da parte dei loro concittadini nel luglio del 1941. Sebbene il massacro fosse incitato dai tedeschi, Gross ha stabilito senza ombra di dubbio che l’omicidio di massa fu volutamente portato avanti dai polacchi, che percossero gli uomini, le donne e i bambini ebrei nelle strade prima di radunare quasi tutti quelli rimasti – metà della popolazione della città – e bruciarli vivi in un granaio.

«Abbiamo ipotizzato che la spaventosa tragedia degli ebrei polacchi avrebbe curato i polacchi dall’antisemitismo», ha scritto il giornalista Wincenty Bednarczuk dopo Kielce. «Non può essere diversamente, pensavamo, la vista dei bambini massacrati e degli anziani deve suscitare una risposta di compassione e di aiuto… ma non conoscevamo la natura umana… si è scoperto che le nostre nozioni sull’umanità erano ingenue. Il Paese ci ha sorpreso». In realtà, lungi dall’essere spazzato via, l’antisemitismo ha continuato ad essere così virulento dopo la fine della guerra che i polacchi che avevano nascosto degli ebrei o che li avevano aiutati durante il conflitto custodivano le loro buone azioni come un segreto normalmente riservato ai crimini più atroci, per paura di rappresaglie da parte dei loro concittadini.
In Fear: Anti-Semitism in Poland after Auschwitz, Gross fa un ulteriore passo in avanti rispetto al saggio precedente. Jedwabne, conclude, potrebbe essere stato un fatto anomalo per la sua portata, ma non fu un incidente isolato. Il radicato antisemitismo rese possibile che metà dei cittadini di una città si sollevasse contro l’altra. Piuttosto che scomparire magicamente dopo il maggio del 1945, l’antisemitismo ha continuato a manifestarsi con violenza contro gli ebrei fino al culmine della furia omicida del pogrom di Kielce dell’anno successivo- che, come il pogrom di Jedwabne, fu compiuto in gran parte da polacchi ordinari. «Questo sarebbe potuto accadere ovunque in Polonia, e in qualsiasi momento durante questo periodo», scrive Gross. «Evidentemente l’economia morale della società polacca dopo la guerra ha permesso l’uccisione degli ebrei».