L’ANTIEROICITÀ DEGLI STATI
di Benedetto Croce –
Scritto nel 1922, questo brano del filosofo di Pescasseroli è un invito ad abbandonare gli atteggiamenti morali nel valutare le azioni degli Stati. Che a differenza degli uomini possono praticare anche “viltà” e bassezze. Perché, come “magnifici animali”, per vivere devono mettere in atto qualunque possibilità loro si offra.
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A chi non vede ancor chiaro che le lotte politiche non sono lotte morali, e che gli Stati in quanto lottano tra loro non sono individui etici ma individui economici, si potrebbe offrire come punto di meditazione cosa che è dato agevolmente osservare non solo nella storia, ma nel vivo presente o nel prossimo passato che freme ancora nel ricordo. L’individuo morale è tenuto a serbare, e serba con la cura più schiva, la dignità, che non è solo prova della sua energia d’individuo, ma ossequio all’ideale morale che vive nel suo petto. Perciò gli è vietato cedere alle disoneste minacce, ma gli è altrettanto vietato di ostinarsi in un proposito, quando quel suo proposito gli si è scoperto ingiusto, sorto da errore. Riconoscere il proprio errore è suo obbligo strettissimo, e in questo riconoscimento egli non si umilia ma si esalta, o si umilia esaltandosi. Ma la dignità degli Stati è tutt’altra cosa: è una dignità che consiste nell’asserire la forza senz’altro limite che questa forza stessa e il più conveniente e utile modo di usarla. Onde lo Stato non riconosce mai, in nessun caso, un proprio torto, non trovando ragione a ciò, e, tutt’al più, si rammarica con se stesso dei propri errori di calcolo; ma, d’altra parte, cede alle minacce quando le minacce sono veramente pericolose, o, come si dice con nobiltà di suoni, non riconosce sopra di sé altro che «Dio e la spada del vincitore».
E’ una forma di dignità che trova riscontro in quella dell’uomo prepotente, che non si piega se non al prepotente più forte e più fortunato. Ma con questa differenza: che l’individuo prepotente ha in sé un lume, sia pure obliquo, di coscienza morale, una forma di onore, e talvolta preferisce la rovina e la morte all’onta della sottomissione, e rende cosi un omaggio indiretto alla coscienza morale, distruggendo sé stesso per celebrare il valore dell’umana dignità. Lo Stato, invece, non può nemmeno ciò: non può preferire alla salvezza, quale che sia, della vita, la propria rovina e morte; cosicché, per questa parte, se fosse un individuo morale, sarebbe da dire vile: squalifica alla quale sfugge non per altro se non appunto perché esso non si aggira nella cerchia etica, e le sue viltà non sono viltà, ma «dolorose rinunzie», che, a volta a volta, secondo che soffia il vento della Storia, tutti gli Stati hanno compiute e compiono. E vili (sempre se tale parola fosse adoperabile nel caso, come non è, salvo che per colorita metafora) sono i suoi procedimenti, senza riguardo verso i deboli o i meno forti, le sue lusinghe verso quelli di pari forza, il suo timoroso rispetto verso i più forti. Quale Stato, di grazia, nella guerra ora chiusa [la Prima guerra mondiale, n.d.r.], ha serbato la propria «dignità», nel senso etico della parola? Si è vista la Francia sollecitare fremebonda l’aiuto da tutti, festeggiare selvaggi barbari, senegalesi e gurkas indiani, che calpestavano la sua dolce terra, versare parole di femminea lusinga su popoli che aveva un tempo ingiuriati e offesi, supplicare perfino (e vanamente) i nipponici a mandar gente sul suo territorio invaso, recitare con untuosi modi democratici pie giaculatorie sulla sorellanza latina e sulla causa della libertà e della giustizia umana, a lei affidata, ed eseguire altrettali gesti «che l’onestate ad ogni atto dismagano»; e poi, a vittoria ottenuta, s’envelopper dans sa dignité, e prendere atteggiamenti di alta giustiziera o piuttosto di « esecutrice di alte opere» verso il gran popolo confinante, affatto dimentica della comune umanità, insolente, beffarda, e ironicamente applicare tutte le sonanti massime di giustizia e di libertà a beneficio esclusivo degli interessi propri, facendo, per altro, qualche strappo all’assunta «dignità» quando le conveniva chinare il capo verso taluna delle potenze più forti. E si son viste l’Inghilterra e la Repubblica Americana, non vinte ma pure scosse dallo spettacolo della fortuna germanica, nel punto culminante e più rischioso della lotta scendere a inviti che erano offerte di transazione e di pace, superbamente respinti dal momentaneo vincitore, che, poco stante, doveva affrettarsi, esso, il fiero Stato tedesco, a farli per suo conto, e con quale insistenza di premure e con quanta docilità nell’accettare tutto ciò che gli veniva dettato! Certo, l’antica romana sentenza ammonisce che ai vinti non resta altra speranza che nullam sperare salutem; ma a questo partito si ricorre solo quando ogni altra speranza manca (come accadeva a Saguntini e Numantini), e, quando invece ce n’è pure un barlume, non si arrischiano colpi di testa e di mano, ma si ragiona e si è prudenti. Che cosa volete? Gli Stati sono magnifici animali, poderosi, colossali; ma essi non vogliono altro che vivere, e, per non morire, accettano qualunque modo loro si offra. Per intanto (essi pensano), si vive: l’avvenire provvederà al resto.
Questa è la verità; e perciò niente di più fittizio delle vanterie degli Stati vincitori; quasi che essi abbiano salvato l’onore e i vinti l’abbiano perso: laddove non c’è, in questo caso, né un onore da salvare né un onore da perdere, ma solo vita e interessi di vita da garantire in quel miglior modo che si può. Se quelle vanterie venissero da individui etici, sarebbero esose e spudorate; ma tali non sono per la ragione già detta, e perché, utilitariamente, servono al fine di eccitare certe forze, utili alla vita dei singoli Stati.
Gli Stati non sono, dunque, eroici, sebbene tali possano essere gli uomini, i cittadini, i popoli che li servono e che vanno oltre di essi in quello stesso atto di ubbidienza e devozione e si fanno meglio che politici. Forme necessarie nelle quali si muove la vita storica, gli Stati somigliano alle cosiddette forze della natura (realmente, le forze della natura sono come gli Stati), che l’individuo etico dirige e attualizza ma non crea, e nel dirigerle spende tesori d’intelletto e di volontà e in ciò si mostra, pur nel servirle, a esse superiore: al modo stesso che, a detta del filosofo, l’occhio della contadinella, che guarda il Sole, vale più del Sole. Il che, ben s’intende, non è una censura inflitta al Sole, come le precedenti dilucidazioni non vogliono punto essere una censura inflitta agli Stati, che fanno quel che debbono e non possono non fare, e si conformano alla loro propria natura. Ma sono «dilucidazioni», cioè rispondono al bisogno di veder chiaro, di affissare spregiudicatamente la realtà, che è poi per l’appunto un bisogno e un dovere non solo intellettuale, ma morale.