LA TRANSCAUCASIA DI FRONTE ALLE SFIDE DELLA PERESTROIKA

di Max Trimurti -

Con la perestroika il mosaico caucasico – sotto dominazione russa dal 1828 – andrà incontro a una difficile transizione verso l’indipendenza. In Georgia, Armenia, Karabak e Azerbaigian, l’eredità delle frontiere staliniane farà riemergere i conflitti etnici fino ad allora sopiti.

Francobollo celebrativo della perestroika, 1988

Francobollo celebrativo della perestroika, 1988

L’Armenia, la Georgia e l’Azerbaigian, che nel periodo delle rivoluzioni del 1917 hanno vissuto un’effimera indipendenza, vengono riunite nell’ambito di una Repubblica socialista federativa sovietica della Transcaucasia diretta dall’Ufficio del Caucaso (Kavburo). L’ufficio è posto sotto l’autorità di Josip Vissarionovic Stalin, a quel tempo Commissario del Popolo alle Nazionalità. Quest’ultimo definisce le nuove frontiere amministrative sulla base di una suddivisione etnica che punta, “dividendo per regnare”, al mantenimento a lungo termine delle Repubbliche caucasiche nel girone sovietico. Nel 1921 l’Oblast (Provincia) dell’Alto Karabak – popolato per il 94% da Armeni – viene attribuito alla Repubblica socialista sovietica dell’Azerbaigian, che ottiene egualmente il Nakhitshevan in virtù del trattato turco sovietico di Kars (1921). Sessantaquattro anni dopo, nel 1985, quando Mikhail Sergeevic Gorbacev accede al potere con il georgiano Eduard Amvrosevic Shevardnadze agli Esteri, è ormai troppo tardi per richiudere il vaso di Pandora del nazionalismo.

Guerra civile e secessione in Georgia

Zviad Gamsakurdia e Merab Kostava

Zviad Gamsakurdia e Merab Kostava

Con le manifestazioni in difesa della lingua nazionale organizzate a Tbilisi nel 1978, la Georgia inaugura la sequenza del risveglio nazionalista in Transcaucasia. Se Eduard Shevardnadze, primo segretario del Pc locale, ottiene dai dirigenti sovietici qualche concessione, egli non può impedire la nascita di una dissidenza nazionalista proveniente dalla intellighentsia liberale. Tutto cambia il 9 aprile 1989, quando decine di migliaia di manifestanti per le strade della capitale vengono brutalmente disperse dalla polizia. Il bilancio è pesante: venti morti e duecento feriti sanciscono il divorzio da Mosca. La deriva nazionalistica della società georgiana cresce di pari passo con l’aumentare delle tensioni fra Georgiani e Abkhazi. Il nazionalista Zviad Gamsakurdia si impone progressivamente come l’uomo della provvidenza. Egli difende una politica di “georgizzazione” del Paese, apertamente ostile alle minoranze.
Nell’estate del 1989 il Parlamento georgiano adotta una legge che stabilisce la lingua georgiana come unica lingua ufficiale. Nel luglio dello stesso anno ventidue persone vengono uccise durante uno scontro a Sukhumi, capitale della Repubblica autonoma dell’Abkhazia. Il Fronte Popolare dell’Ossezia del sud decide di attribuire alla regione lo statuto di repubblica autonoma. Tbilisi, non contentandosi di annullare tale decisione, dissolve anche la regione autonoma dell’Ossezia del sud, provocando scontri nella capitale Tskinvali. Il conflitto armato che ne segue si conclude due anni dopo con un cessate il fuoco e con lo spiegamento di una forza mista russa, osseta e georgiana per il mantenimento della pace.
Nel frattempo, l’Abkhazia si infiamma. Tbilisi minaccia di abolire l’autonomia della regione e la guerra d’Abkhazia scoppia nell’agosto 1992. I separatisti contano sul sostegno della Confederazione dei popoli del Caucaso, che raggruppa sedici popoli ed etnie, fra le quali i Ceceni. Nel 1993 viene finalmente fissato un cessate il fuoco, ma le forze georgiane vengono espulse dall’Abkhazia e al loro posto si insediano delle forze russe per il mantenimento della pace sotto l’egida della CSI (Comunità di Stati Indipendenti).
In occasione delle elezioni del 28 ottobre 1990 la coalizione che sostiene Gamsakurdia ottiene il 64% dei suffragi con il 29,6% del Partito comunista georgiano. Il vincitore, appena eletto Presidente il 26 marzo 1991 concentra nelle proprie mani tutti i poteri, ma l’assenza di un esercito nazionale, la comparsa di gruppi paramilitari e la corruzione che consente il saccheggio degli arsenali dell’ex Armata Rossa fanno sì che l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud sfuggano al controllo di Tbilisi. In Ajaria – a maggioranza musulmana – Aslan Abashidze governerà con pugno di ferro e in condizioni di semi autonomia fino al 2004.
Parallelamente si costituisce una opposizione a Gamsakurdia attorno al Congresso Nazionale e la Guardia Nazionale georgiana si divide fra sostenitori e oppositori del presidente georgiano. Il 24 settembre 1991 viene dichiarato lo stato d’assedio. Gli scontri nella capitale provocano una decina di morti e i combattimenti si intensificano fino al dicembre dello stesso anno. A questo punto gli avversari del governo assediano il Parlamento dove Gamsakurdia e i suoi sostenitori si sono barricati. Il presidente georgiano viene costretto a rifugiarsi in Armenia, quindi in Cecenia, dove dirigerà per altri diciotto mesi un governo in esilio, appoggiandosi sulla regione della Mingrelia, trasformata in rifugio per i suoi partigiani. Per un certo periodo si costituisce a Tbilisi un Consiglio Militare e, nel marzo 1992, esso cede i poteri a Eduard Shevardnadze, il vecchio primo segretario del PC georgiano, rientrato da Mosca e prossimo a vincere le nell’ottobre seguente. La guerra civile termina definitivamente il 24 giugno 1992 con il fallito colpo di stato di Gamsakurdia a Tbilisi. Nel novembre 2003 Eduard Shervardnadze, abbandonato da molti dei suoi, viene rovesciato dalla Rivoluzione delle Rose e sostituito con un presidente provvisorio nella persona della signora Ninò Anzorovna Burdzanadze. Infine, nel corso del 2004 il nuovo presidente Mikhail Sakhasvili riuscirà a risolvere anche il problema aperto con l’Ajaria, scacciando il boss locale Aslan Abashidze.

La rivoluzione di velluto armena

Levon Ter Petrossian

Levon Ter Petrossian

Negli anni successivi al genocidio del 1915 l’Armenia ha sofferto amputazioni territoriali successive. Alla perdita delle province di Kars e di Ardahan, cedute alla Turchia kemalista, si aggiunge quella del Nakhitshevan e del Karabak. A partire dal 1985-1986 le speranze suscitate dai discorsi riformisti di Gorbacev risvegliano le rivendicazioni culturali e territoriali armene. Alla fine del 1987 decine di migliaia di persone firmano una petizione che chiede la riunione dell’Alto Karabak all’Armenia attraverso un corridoio di dodici chilometri. Nel febbraio 1988 sono diverse centinaia di migliaia di armeni ad opporsi al divieto di manifestare ad Erevan e Stephanakert, capitale dell’Alto Karabak, per chiedere il ritorno della regione dell’enclave armena nel territorio azero nel girone della madrepatria, mentre il 20 dello stesso mese Stephanakert vota la riunione con Erevan.
Per Mosca il problema costituisce un pericoloso precedente: Gorbacev vuol far valere l’articolo 78 della Costituzione sovietica che vieta qualsiasi rimessa in discussione delle frontiere delle Repubbliche socialiste sovietiche.
La risposta degli azeri di Baku non si fa attendere. Nella notte fra il 28 ed il 29 febbraio 1988 un progrom antiarmeno provoca decine di morti nella città industriale di Sumgait e da quel momento ha inizio uno scambio incrociato di popolazioni: quasi 400 mila armeni lasciano l’Azerbaigian in direzione di Erevan e di Mosca., mentre circa 200 mila azeri abbandonano l’Armenia sovietica.
Si moltiplicano in Armenia manifestazioni di massa e scioperi generali, così come in Azerbaigian, dove l’irredentismo armeno suscita nuovi massacri, come ad esempio a Kirovabad nel novembre 1988. Mettendo con le spalle al muro aggrediti e aggressori, Gorbacev effettua la scelta che porta al deterioramento della situazione: la decisione di mettere in opera, nel gennaio 1989, una commissione speciale incaricata di amministrare il Karabak avvelena ancora di più la situazione.
A Erevan questa lotta è guidata dalla primavera del 1988 dal Comitato Karabak, un gruppo che, animato dallo storico Levon Ter Petrossian, si ispira ai fronti popolari delle repubbliche baltiche e diventa il portavoce del rigetto del sistema e il fautore delle aspirazioni indipendentistiche del Paese. Il 7 dicembre 1988, un violento terremoto devasta il nord del Paese. La città di Spitak viene completamente distrutta, le vittime sono tra 30 mila e 50 mila. Gorbacev approfitta della confusione per fare arrestare i membri del Comitato, ma la popolazione si radicalizza e il potere centrale è costretto a fare marcia indietro nel maggio 1989. Il comitato Karabak viene disciolto e sostituito con il movimento pan nazionale armeno (MNA) che vince di misura le prime elezioni legislative libere dell’estate del 1990, con un programma di acceso all’indipendenza per via costituzionale, senza rotture brutali con Mosca.
Dopo il fallimento a Mosca del colpo di mano del 19 agosto 1991 il conflitto dell’Alto Karabak assume una nuova dimensione. L’Armata Rossa si ritira dalla regione e il 30 agosto, l’Azerbaigian proclama la sua indipendenza. Tre giorni più tardi, Il Nagorno Karabak fa altrettanto e rivendica il diritto di separarsi da Baku, autoproclamando la sua indipendenza nel dicembre 1991 e confermandola, con un referendum il 6 gennaio 1992. L’Armenia, che dall’ottobre 1990 è stata la prima delle tre Repubbliche a dotarsi di un esercito nazionale, proclama la sua indipendenza il 23 settembre 1991, eleggendo Levon Ter Petrossian alla sua prima presidenza. L’euforia che accompagna l’indipendenza fa rapidamente posto alle dure realtà della guerra e del blocco economico esercitato dalla Turchia in rappresaglia alle vittorie armene sul fronte del Karabak.

Azerbaigian, la sfida dello stato nazione

Abulfaz Elçibey

Abulfaz Elçibey

L’islam sciita, maggioritario, appare già dal 1988 come il cemento unificatore del Paese, mentre il conflitto dell’Alto Karabak contribuisce ad alimentare la fiammata nazionalista a Baku. L’identità degli azeri, turcofoni sciiti – sollecitata da diversi racconti nazionali concorrenti – diventa oggetto di numerose controversie. Le prime rivendicazioni della società civile sono prima di tutto di ordine economico e territoriale, al punto tale che sfociano in incidenti di frontiera con l’Iran. I comunisti riformisti vicini al Cremlino, fra i quali Ayaz Mutalibov – primo presidente dell’Azerbaigian indipendente – rimedieranno solo dei fallimenti nei riguardi del Karabak, dove per carenza di un vero esercito nazionale le forze azere moltiplicano i loro rovesci di fronte agli armeni.
Nel gennaio 1990 l’Armata Rossa entra in Baku per bloccare i progrom contro gli armeni: la repressione provoca centotrentadue morti. Tuttavia, l’Azerbaigian, un anno più tardi, si pronuncia in favore del mantenimento dell’URSS e aderisce alla CSI nel dicembre 1991. Mutalibov viene superato dagli eventi ed è costretto alle dimissioni nel marzo 1992 sotto la pressione del Fronte Popolare azerbaigiano (FPA) che incarna l’opposizione al potere sovietico ed il cui capo, Abulfaz Elçibey, presiede il Paese nel 1992-1993. Egli intraprende una politica nazionalista di “derussificazione” (ritiro delle truppe russe e adozione dell’alfabeto latino) e di avvicinamento con la Turchia e gli azeri d’Iran.
Rimasto ai margini nel suo feudo del Nakhitshevan, il vecchio segretario del partito comunista ed ex membro del Politburo dell’URSS Heidar Aliyev ritorna abilmente sulla scena politica, a seguito delle sconfitte subite nel Karabak, assumendone la Presidenza. A seguito della sua morte nel corso del 2003 sale alla Presidenza suo figlio Ilham Heydar Aliyev, ancora oggi in carica come Presidente, che non riconosce la Repubblica autonoma del Nagorno Karabak e che continua ad alimentare nel Paese la speranza di recuperare la regione.

Conclusione

Se le Repubbliche del Caucaso hanno accolto la perestroika con entusiasmo, l’eredità delle frontiere staliniane ha fatto riemergere da quel momento i conflitti etnici fino ad allora sopiti. Le prime elezioni legislative libere del 1990 confermano la sconfitta di una politica riformatrice, spazzata via da un nuovo tipo di oppositori. L’arrivo nel Soviet Supremo d’Armenia, d’Azerbaigian e della Georgia di rappresentanti dei fronti popolari nazionali fornisce loro una eccezionale tribuna per veicolare i loro discorsi indipendentisti. Proclamando la sovranità delle loro repubbliche, essi non fanno altro che accelerare la disgregazione dell’Impero sovietico e la fine dell’era di Gorbacev.

Per saperne di più

Helly Damien, Le paysage politique du nouvel Azerbaïdjan indépendant, in CEMOTI (Cahiers d’Etudes sur la Méditerranée Orientale et le Monde Turco-Iranien), CERI-FNSP, Paris, 1998, n°26, pp. 243-270.
Mouradian Claire, De Staline à Gorbatchev: histoire d’une république soviétique, l’Arménie – Ramsay, 1990.
Razoux Pierre, Histoire de la Géorgie – Paris, Perrin, 2009.
Masnata M., Piccardo C., Previtera A., Caucaso e Asia centrale. Tra geopolitica e strategie, verso un nuovo grande gioco – Gan, 2006.