1956: “LA STAMPA” E LA CRISI DI SUEZ

di Daniela Franceschi -

Il quotidiano torinese calò le sue corrispondenze nel contesto geopolitico mediorientale, allineandole alla politica “dell’equidistanza” italiana. In seguito indirizzò le sue attenzioni verso l’azione diplomatica degli Stati Uniti.

 

 

 

Il contesto geopolitico mediorientale prima della crisi

Il contesto internazionale che fa da sfondo ai primi anni di vita di Israele vede la decolonizzazione, che ha preso avvio subito dopo la fine del Secondo Conflitto, procedere speditamente; è interessante osservare come le ideologie adottate dai movimenti indipendentisti si richiamino a concetti occidentali come il nazionalismo, il comunismo o la democrazia rappresentativa, riadattati alle culture e alle tradizioni dei nuovi Stati postcoloniali. Anche il mondo islamico postcoloniale aderisce a questo paradigma, infatti, tra gli anni Cinquanta e Settanta si costituiscono Stati laici dominati da élite militari che instaurano dei regimi autoritari, di natura vagamente socialista. Come dimostra la storia dell’Egitto, che da subito si intreccia con quella dello Stato ebraico.
Nel 1952 la monarchia egiziana di re Faruq fu rovesciata da un colpo di stato militare organizzato da un gruppo di ufficiali dell’esercito, il Comitato degli ufficiali liberi, guidati da Gamal Abdel Nasser, successivamente Primo Ministro e poi Presidente della Repubblica. In precedenza il gruppo era stato guidato dal generale Muhammad Naguib; subito dopo la proclamazione della repubblica, Naguib assunse le cariche di comandante supremo delle forze armate, Primo Ministro, e Presidente della Repubblica. L’ambizioso Nasser, giudicandolo un avversario politico, lo accusò di simpatizzare per la Fratellanza musulmana, obbligandolo a dimettersi nel novembre del 1954 e imponendogli gli arresti domiciliari in una villa nella periferia del Cairo.
Il Comitato istaurò una dittatura militare di carattere laico e genericamente socialista, che intendeva modernizzare l’Egitto e rilanciarne il ruolo egemone nell’area mediorientale. La rivoluzione dei colonnelli in Egitto portò all’instaurarsi di un quadro politico precario, con un nazionalismo arabo in rapida ascesa che aveva come principio basilare l’ostilità verso Israele.
Nasser si faceva promotore di una ideologia che riusciva a fondere socialismo di Stato, nazionalismo e panarabismo. In politica estera, questo avrebbe dovuto tradursi nella creazione di una “nazione araba” comprendente la maggior parte del territorio del Medioriente, capace di imporre la sua leadership in tutta la regione. In politica interna, il modello di riferimento era l’Unione Sovietica, che si estrinsecava con il massiccio intervento statale nell’economia al fine di industrializzare l’Egitto.
Nel 1956, la ripresa del nazionalismo arabo e la conflittualità nella regione mediorientale aprivano per l’Unione Sovietica degli spazi di manovra ritenuti precedentemente impossibili. L’interesse, e la pressione, della Russia per un accordo con l’Egitto, che nelle intenzioni sovietiche doveva portare infine il Paese arabo nel blocco comunista, scelta che l’Egitto non fece mantenendosi nell’area dei Paesi non allineati, era causa di forti preoccupazioni in Occidente. Molti Paesi occidentali ritenevano che la condizione degli Stati non allineati fosse molto precaria e potesse rendere il rapporto con il blocco atlantico più debole. Infatti, è importante notare come l’atteggiamento degli Stati Uniti e dell’Inghilterra fosse differente rispetto alla politica mediorientale.
La costruzione della diga di Assuan rappresentava per l’Egitto un elemento chiave della sua azione modernizzatrice. Dopo un iniziale approccio favorevole della Banca mondiale e del Governo americano, erano poi emerse delle forti ostilità occidentali ai finanziamenti destinati al Paese non allineato più influente, che aveva, oltre a ciò, una visione politica estranea alla polarizzazione dei due blocchi. La situazione geopolitica internazionale dava maggior forza a quegli orientamenti, presenti nell’Esecutivo egiziano, propensi alla nazionalizzazione del Canale. Inoltre sussistevano delle posizioni disponibili all’apertura di rapporti commerciali con l’Unione Sovietica, i Paesi del blocco comunista, e la Cina.
Dal punto di vista economico, il canale di Suez aveva una importanza rilevante poiché rappresentava la via principale di transito dei rifornimenti di petrolio per i Paesi occidentali, a cui corrispondeva un altrettanto vitale transito di beni per i Paesi mediorientali[1]. La stabilità economica occidentale avrebbe potuto essere messa duramente alla prova se il Governo egiziano avesse aumentato le tasse di circolazione.
Rispetto ai nuovi equilibri internazionali che si stavano creando, è importante rilevare che Israele, guidato da Ben Gurion, era in questo momento in una posizione molto delicata, soprattutto riguardo alle relazioni non eccelse con gli Stati Uniti durante la presidenza Eisenhower[2].
“L’amministrazione americana, a partire dal 1952 sotto il Presidente Dwight Eisenhower, considerò Israele un impedimento per i futuri interessi americani nel Medio Oriente: contenere l’Unione Sovietica e assicurarsi un continuo flusso di petrolio a buon mercato”[3]. Queste frasi descrivono sinteticamente i nuovi rapporti tra Israele e gli Stati Uniti dopo l’elezione di Dwight Eisenhower alla Presidenza; Truman era stato un paladino della causa sionista, anche se il Dipartimento di Stato, sotto la guida di Dean Acheson durante il secondo mandato di Truman, non aveva avuto un atteggiamento favorevole verso lo Stato ebraico. La nuova politica mediorientale degli Stati Uniti destava una profonda preoccupazione in Israele, come si può dedurre dalle parole di Abba Eban, ambasciatore d’Israele a Washington e capo della delegazione israeliana alle Nazioni Unite, che osservava come “gli anni che vanno dal 1953 al 1956 rappresentano un periodo tetro nella nostra storia nazionale. Gli israeliani che sono colpiti dall’intensità dei nostri problemi odierni dovrebbero ben ricordare la straordinaria gravità della nostra situazione a quel tempo”[4]. Eban coglieva pienamente la differenza tra la politica di Truman e quella di Eisenhower verso Israele, infatti, notava come la politica del New Look fosse stata annunciata “mettendo sullo stesso piano il Medio Oriente e le gonne più lunghe lanciate dall’industria della moda”. Praticamente, “nel suo tentativo di conquistarsi i sorrisi arabi, l’amministrazione mise da parte i tradizionali accenti di amicizia verso Israele”[5]. In sostanza, “Eisenhower e Dulles, essenzialmente erano d’accordo con il punto di vista del Segretario di Stato, George C. Marshall, che il riconoscimento di Israele fosse stato fondamentalmente un atto politico dettato da ragioni politiche e sentimentali durante la campagna presidenziale del 1948 […] Ora il problema era neutralizzare Israele in quanto ostacolo per le relazioni arabo-americane”[6].
Gli Stati Uniti, sotto la presidenza Eisenhower, si impegnarono nella costruzione della Middle East Defence Organization, finalizzata a limitare l’influenza sovietica in Medioriente, e ad instaurare dei buoni rapporti con il mondo arabo, specialmente con l’Egitto di Nasser.
La politica mediorientale dell’Amministrazione Eisenhower si incentrava sulla necessità di innalzare uno sbarramento alla penetrazione comunista in Medioriente, orientandosi di conseguenza verso la costruzione di un asse Stati Uniti- Paesi arabi che comportava un raffreddamento dei rapporti tra Gerusalemme e Washington.
Allo stesso tempo, nel febbraio del 1953 l’Unione Sovietica aveva rotto le relazioni diplomatiche con Israele, per poi riprenderle nel luglio dello stesso anno, ma ancora gravate dai rapporti non ottimali che intercorrevano tra i due Paesi.
Contemporaneamente, le relazioni tra Israele e Egitto si erano drammaticamente inasprite, così come tra lo Stato ebraico e altri Paesi arabi, infatti, Nasser aveva deciso di chiudere il Golfo di Aqaba alle navi israeliane, causando l’isolamento del porto israeliano di Eilat. Dopo la fine del conflitto del 1949, gruppi di combattenti palestinesi avevano intrapreso una serie di attacchi verso lo Stato ebraico dalla Striscia di Gaza, in territorio egiziano, dalla Siria e dalla Giordania, nell’illusorio tentativo di recuperare qualcosa di ciò che avevano perso[7]. Gaza divenne il centro delle agitazioni e le incursioni proseguirono finché Israele non reagì nel febbraio del 1955. Gli scontri ebbero fine soltanto con la risoluzione della crisi di Suez, ma la risposta dello Stato ebraico determinò la reazione del Presidente egiziano Nasser che creò gruppi di combattenti addestrati per rispondere alle aggressioni israeliane. La stessa iniziativa fu intrapresa dalla Siria in risposta ad un attacco israeliano sulla linea di frontiera siriana. Anche la Siria non faceva che provocare e minacciare. Israele reagiva ad una morsa che si stringeva da nord e da sud.
L’Italia che affrontava la crisi di Suez era da poco stata riaccettata nella comunità internazionale, l’ammissione alle Nazioni Unite era avvenuta il 14 dicembre 1955, e proprio grazie alle clausole impostole dal Trattato di Parigi del 1947, che avevano comportato la perdita di tutte le colonie, era riuscita a presentarsi di fronte al mondo arabo non gravata da un peso coloniale come quello inglese e francese, instaurando degli importanti rapporti commerciali[8]. Particolarmente, le relazioni con l’Egitto si erano rivelate molto positive, rafforzandosi anche dopo il colpo di Stato di Nasser. I rapporti favorevoli tra l’Italia e i Paesi che si stavano affrancando dal dominio coloniale franco-inglese destavano preoccupazione negli alleati occidentali; per esempio, suscitava diffidenza l’attività di Enrico Mattei, che era riuscito a far assegnare all’ENI l’appalto per la realizzazione della pipeline Suez- Cairo.
La posizione italiana di fronte alla nazionalizzazione del Canale si mostrò meno drastica di quella degli altri Paesi occidentali, soprattutto rispetto alla Francia e alla Gran Bretagna; infatti, il Governo Segni distinse tra il problema della nazionalizzazione e il diritto di libera navigazione, condividendo esclusivamente proposte di risoluzione ispirate al diritto internazionale e non all’uso delle armi, opzione che non era respinta, invece, dalla Francia e dall’Inghilterra. Sostanzialmente, l’Italia sceglieva una posizione moderatrice, “sempre nel quadro della solidarietà occidentale”[9]. La linea politica adottata non si discostò mai dalla posizione degli Stati Uniti[10].
Le relazioni con Israele non furono al centro dell’interesse dell’Esecutivo italiano fino all’inizio delle ostilità, fine di ottobre, anche se un possibile allargamento del conflitto poteva nuocere agli interessi dell’Italia “naturalmente portata a preoccuparsi in modo speciale di tutto ciò che in questa zona poteva costituire anche solo un ipotetico pericolo”[11].
Il mantenimento di buone relazioni con il mondo arabo rimase una costante della politica estera italiana, anche quando ciò risultava alternativo allo sviluppo delle relazioni con lo Stato ebraico. Si deve tuttavia anche notare che nella diplomazia italiana stavano emergendo degli interrogativi su quanto fosse utile appoggiare movimenti rivoluzionari arabi, come quello di Nasser, che avevano al loro interno un forte sentimento antioccidentale.
L’intervento anglo-francese spinse l’Esecutivo italiano ad allinearsi alla posizione degli Stati Uniti, contrari allo Stato d’Israele. Conseguentemente, il Ministro degli Esteri Martino decise di sostenere in sede ONU le posizioni espresse dagli Stati Uniti[12], raccomandando alla rappresentanza italiana alle Nazioni Unite di tenersi in stretto contatto con il Dipartimento di Stato americano in modo da non danneggiare l’unità e la collaborazione tra i Paesi membri dell’Alleanza Atlantica.
Questa linea politica si rifletté anche sulla posizione nei confronti dello Stato ebraico, infatti, l’azione militare, “in quanto atto teso a turbare la pace in Medio Oriente”, era a parere del Governo italiano da disapprovare, tuttavia, si cercava di comprendere le motivazioni che avevano spinto a tale scelta, poiché “recentissimi eventi avevano evidentemente potuto dare l’impressione allo Stato d’Israele che si organizzasse un vero e proprio accerchiamento offensivo nei suoi riguardi”[13].
In occasione della discussione parlamentare sulla duplice crisi in atto, quella di Suez e quella ungherese, il Ministro Martino ribadì il sostegno italiano all’esistenza dello Stato ebraico[14].
Il 19 luglio del 1956, il Governo degli Stati Uniti comunicava l’intenzione di revocare l’offerta di finanziamento per la costruzione della diga di Assuan; il giorno dopo, il Governo egiziano ufficializzò la nazionalizzazione, mettendo in grave difficoltà il ruolo geopolitico dell’Inghilterra, non solo in Medioriente, ma anche in Africa, Golfo Persico e Oceano Indiano.
La nazionalizzazione portò ad un duro scontro internazionale, che culminò nel breve conflitto che contrappose l’Egitto a Inghilterra, Francia e Israele.
Dal punto di vista prettamente militare, la guerra ebbe una durata molto breve, a causa delle pressioni congiunte di Stati Uniti e Unione Sovietica, permanendo invece a lungo le conseguenze a carattere geopolitico, infatti, Israele, pur uscendone vincitore, vide la sua immagine associata a quella di due Paesi coloniali, Inghilterra e Francia, portando all’interpretazione del conflitto arabo-israeliano come di una guerra di indipendenza, in cui lo Stato ebraico diveniva una potenza coloniale che opprimeva una popolazione, gli arabi, che volevano emanciparsi. A partire dalla crisi di Suez, l’annientamento di Israele divenne un obiettivo primario della strategia dei Paesi arabi.
Il vuoto lasciato in Medioriente dalle ex potenze coloniali, Francia e Inghilterra offriva all’Unione Sovietica un inaspettato spazio in cui inserirsi. Fu proprio per colmare questo vuoto che il Presidente statunitense annunciò ufficialmente davanti al Congresso la Dottrina Eisenhower[15] per il Medioriente il 5 gennaio del 1957. Con questa dichiarazione, il Presidente si assumeva la responsabilità di intervenire direttamente in Medio Oriente per evitare una penetrazione comunista, ma anche nell’eventualità di una richiesta esplicita di uno dei Paesi dell’area che si sentisse minacciato dalla sovversione interna o esterna.
L’equilibrio geopolitico e strategico della regione cambiò: il ruolo di Francia e Gran Bretagna fu molto indebolito dal blocco delle ostilità, imposto dagli USA e dall’ONU, mentre gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica divennero gli arbitri più importanti del contesto mediorientale.

La crisi di Suez

1956_suez_war_-_conquest_of_sinaiGià nel corso del 1955, il quotidiano torinese aveva costantemente informato i lettori della fortissima tensione esistente tra Egitto e Israele, pubblicando dei resoconti[16] nelle pagine interne sugli scontri al confine non solo tra i due Paesi, ma anche tra lo Stato ebraico e la Siria[17].
Un primo commento significativo sulla crescente tensione tra Israele ed Egitto fu redatto dal corrispondente a Gerusalemme Nicola Adelfi[18]. Nell’articolo, pubblicato in terza pagina, il giornalista scriveva che, nonostante si sparasse ancora nella striscia di deserto che divideva Egitto e Israele, “il tenue filo dell’armistizio neppure questa volta sarà spezzato[19]. Per lo meno, non saranno i Paesi arabi a spezzarlo”. La spiegazione fornita al giornalista da ministri e capi dell’opposizione, da diplomatici e direttori di giornale giordani era che gli Stati arabi erano scarsamente armati, tutti compreso l’Egitto, invece Israele era, esagerando, armatissimo. L’unica eccezione era la Giordania che disponeva della Legione araba; Adelfi notava come questo Paese fosse largamente controllato da Londra, che non sembrava disposta ad intraprendere una guerra in Medio Oriente, e per giunta contro Israele. Le popolazioni arabe erano fortemente avverse allo Stato Ebraico, convinte di “poter gettare nel Mediterraneo gli israeliani”, ma, notava argutamente il giornalista, in tutto il Medio Oriente l’opinione del popolo minuto non aveva alcuna importanza, poiché qualunque fosse l’ordinamento statuale del Paese, dittatura o regime parlamentare, il potere politico rimaneva nelle mani di pochi, divisi tra loro, consapevoli delle debolezze militari ed economiche dei rispettivi Paesi, che non “hanno niente di buono da sperare da una guerra immediata contro Israele”. Il giornalista riusciva a cogliere perfettamente la situazione esistente nei Paesi arabi, in cui élite dominanti, favorite dalle ex potenze coloniali, mantenevano uno stretto controllo sulla vita politica, impedendo ogni partecipazione effettiva delle masse popolari. Generalmente, la forma statuale di questi Paesi non era una democrazia parlamentare, nonostante le apparenze, ma un regime dittatoriale, in prevalenza di natura militare, come l’Egitto o la Siria. I leader politici dei Paesi arabi spesso incitavano alla guerra contro Israele davanti alle masse, ma soltanto per “essere applauditi nelle strade, o per non mostrare le carte che hanno in mano o per esigenze particolari, legate a quel complicatissimo rompicapo che si chiama Medioriente”. Il giornalista continuava osservando come anche Nasser, “il dittatore dell’Egitto”, non volesse la nascita di un conflitto, sebbene nei mesi passati vi fossero stati gravi incidenti alla frontiera.
Tuttavia, ogni nuovo scontro era un passo ulteriore verso la guerra, infatti, “l’aria che qui si respira è quella calda della guerra, delle furiose, irragionevoli passioni. Se i grovigli di filo spinato, le sentinelle in assetto di guerra, le piazzuole d’artiglieria e gli sbarramenti anticarro segnano i confini fra arabi ed ebrei, è l’odio la vera linea di separazione: un odio assoluto, totale, un furore che divampa alla minima occasione”. Il giornalista paragonava questo sentimento all’odio che divideva, durante il Secondo Conflitto mondiale, italiani e tedeschi, “al tempo dei rastrellamenti e delle fucilazioni”.
Adelfi notava come Israele fosse una piccola isola nel mare arabo, un‘isola in cui vivevano un milione e 800 mila persone in un mare di quasi 50 milioni di individui.
Il boicottaggio delle merci israeliane aveva provocato molti problemi alla vita quotidiana degli israeliani, tuttavia, il giornalista rilevava come ciò contrastasse con il fervore di vita dell’intera popolazione. Israele appariva, infatti, “come il Paese delle tubature, dei tralicci, degli scavi e del cemento. Sorgono dappertutto, si direbbe dall’oggi al domani, edifici, industrie, strade, condutture, canali, sonde. Per gli israeliani l’importante è bonificare, costruire, produrre, e non si danno pensiero del domani”. Aumentava anche la produzione agricola. Il giornalista non ne fa menzione, tuttavia gli sviluppi dell’economia israeliana furono aiutati anche dalle riparazioni pagate dalla Repubblica Federale Tedesca, in ottemperanza all’Accordo raggiunto dai due Stati nel settembre del 1952 ed entrato in vigore l’anno successivo per l’ammontare di ottocento milioni di dollari che consistette in materie prime e prodotti manifatturieri. L’Accordo fu oggetto di molte discussioni non solo all’interno e tra le forze politiche israeliane, ma anche nella società civile[20].
Nella conclusione, scriveva che un giorno, “con le buone o con le cattive”, Israele sarebbe “esploso” dal suo esiguo spazio. Adelfi notava la profonda differenza tra la società israeliana e quella araba; la prima era composta da uomini moderni, tecnici, metodici, resi concordi dalla paura di perdere quel lembo di patria che erano riusciti a conquistare dopo duemila anni di peregrinazioni e persecuzioni. Dall’altra, c’era la società araba, ferma agli schemi sociali del Medioevo, discorde al suo interno, composta da individui in continuo conflitto con il mondo circostante.
Adelfi scrisse un altro articolo su Israele[21], concentrandosi sulla figura di David Ben Gurion, rientrato in politica dopo essersi ritirato nel 1953.
La prima parte dell’articolo si presentava molto letteraria, con una descrizione della Gerusalemme più antica, così contrastante con quella moderna che gli israeliani stavano costruendo. Il giornalista notava come la parte più nuova della città fosse in continua espansione, poiché gli israeliani volevano “ribadire con ogni nuova pietra il diritto al possesso della città, che sin dai primi giorni dell’indipendenza elessero a capitale d’Israele”. Data la contrarietà degli arabi ad ogni riconoscimento de facto di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico, il giornalista osservava come anche la diplomazia avesse dovuto usare qualche ingegnosità diplomatica per superare tale difficoltà senza inimicarsi l’uno o altro dei contendenti. Adelfi faceva l’esempio del nuovo ambasciatore italiano in Israele, di cui non citava il nome, che aveva presentato le sue lettere credenziali al Presidente israeliano Yitzhak Ben-Zvi mentre questi si trovava nella sua casa di campagna, e non a Gerusalemme, proprio per mantenere una posizione di equilibrio tra le due parti.
Nella seconda parte dell’articolo, il giornalista si soffermava sul nuovo Governo presieduto da Ben Gurion, che conservava anche il portafoglio della difesa, e su Moshe Sharett, Ministro degli Esteri, sottolineando come i due uomini lavorassero insieme da più di quarant’anni ed evidenziandone la complementarietà nell’azione politica, infatti, “se Sharett è la mente politica, l’astuto diplomatico, Ben Gurion è il cuore della giovane nazione; il paragone più immediato è dire Sharett la volpe d’Israele, Ben Gurion il leone”. Rispetto alle considerazioni di Adelfi, è opportuno rilevare che soltanto pochi mesi dopo, nel giugno del 1956, Ben Gurion sostituì Sharett con la fedelissima Golda Meir nel ruolo di Ministro degli Esteri, emarginando in questo modo dal Governo un esponente la cui linea politica moderata era completamente estranea al suo attivismo[22].
Adelfi inseriva nell’articolo una breve descrizione della vita del Primo Ministro, dalla sua nascita in Polonia 68 anni prima, passando poi al periodo trascorso in Palestina prima della guerra facendo il contadino, all’esilio in Egitto con lo scoppio della Prima Guerra mondiale, fino ad arrivare alla proclamazione dello Stato d’Israele nel 1948. Il giornalista tratteggiava la figura dell’anziano Primo Ministro in modo molto letterario, con riferimenti biblici, affermando che egli assistette “lo Stato neonato con il suo ingegno, con la sua voce che sembra scendere dall’alto del Sinai”. Poi il ritiro nel kibbutz di Sde Boker, nel Negev, “là si recavano i Ministri, gli scrittori, la gente del popolo a raccogliere le sue parole, i suoi oracoli”. Rispetto all’immagine bucolica descritta da Adelfi, Ben Gurion continuò ad avere una forte influenza sul suo Partito, il Mapai, e sulle sue vicende interne, con il fine di favorire giovani esponenti politici a lui vicini, come Moshe Dayan e Shimon Peres.
La situazione che Israele doveva affrontare era molto difficile, poiché un Paese così giovane aveva bisogno di un periodo di tranquillità per potersi sviluppare e crescere economicamente. Una guerra, anche se vittoriosa, notava Adelfi, avrebbe potuto spezzare lo slancio vitale di Israele. Inoltre molti israeliani pensavano che entro pochi anni lo Stato ebraico avrebbe avuto una popolazione due volte superiore a quella allora posseduta, il Paese sarebbe stato dotato di industrie, agricoltura e commercio; nessuno, quindi, avrebbe più potuto immaginare di cancellarlo dal novero delle nazioni.
Gli scontri armati nella parte meridionale dello Stato ebraico erano divenuti sempre più frequenti; “squadre del suicidio”, organizzate e addestrate dagli ufficiali egiziani, compievano incursioni in territorio israeliano, lasciandosi dietro quando ritornavano alle basi “famiglie colte nel sonno e uccise, incendi in installazioni industriali, pozzi distrutti, campi minati”. Adelfi notava come la stampa egiziana stesse esaltando questi atti degli “squadristi della morte”.
Nella conclusione dell’articolo, si soffermava sulla linea politica di Nasser. Il Governo rivoluzionario egiziano, se voleva rimanere fedele a se stesso, non poteva adagiarsi sulla sconfitta militare subita nel conflitto 1948-49. Inoltre se Nasser voleva mantenere la leadership del mondo arabo, doveva sopravanzare tutti nella lotta contro Israele, per questo aveva interesse a mantenere alla frontiera una situazione di guerra, a formare squadre del suicidio, ad annunciare nel modo più clamoroso che avrebbe avuto armi modernissime dal blocco sovietico, ad organizzare le settimane del riarmo fin nell’ultimo villaggio egiziano.
Per Nasser, secondo il giornalista, non era una questione di vita o di morte, mirava soltanto a far “crescere la febbre tra egiziani e arabi, a montare il suo prestigio, a giustificare le spese militari”. Al contrario Ben Gurion non aveva scelta: “ogni notte la vita e i beni dei suoi cittadini sono in pericolo, di giorno in giorno cresce la baldanza degli incursori”. Ad un certo punto, concludeva, prima che Nasser avesse avuto armi a sufficienza, “la prudenza e l’amor di patria potranno consigliare Ben Gurion di fare piazza pulita delle guarnigione egiziane che tengono Israele assediata”.
Nel corso del 1956, e fino allo scoppio della guerra il 29 ottobre, gli articoli del giornale relativi alla crisi in Medioriente, pubblicati nelle pagine interne, si focalizzarono prevalentemente sugli scontri militari[23]. Tuttavia, è interessante notare come crescesse nel quotidiano una forte attenzione per il contesto geopolitico internazionale, specialmente verso gli Stati Uniti. È ipotizzabile che tale orientamento derivasse dall’atteggiamento del Governo italiano, che si allineò, a parte alcuni scostamenti, alla posizione statunitense.
Nell’aprile del 1956, “La Stampa” pubblicava in prima pagina un articolo sull’intervento statunitense per l’instaurazione di una tregua tra Egitto e Israele[24]. La situazione di grave crisi era giunta ad un punto di rottura tale che aveva imposto agli Stati Uniti di intervenire per persuadere l’Egitto a sospendere gli attacchi, e poi ad unirsi ad Israele nell’accettare l’armistizio a cui stava lavorando il Segretario generale dell’ONU. Dopo una prima reazione contraria del Paese arabo, Nasser aveva accettato di far sospendere gli attacchi, anche se non aveva ancora dato una formale adesione alla proposta di armistizio dell’ONU. Il Governo americano continuava ad essere preoccupato per le ambizioni del dittatore egiziano, dubitando che la tregua potesse essere l’inizio di una fase meno critica. A parere del giornalista, che non firmava l’articolo, non vi erano indicazioni che l’atteggiamento degli Stati Uniti verso i Paesi arabi stesse cambiando, tuttavia, gli eccessi del nazionalismo arabo, le fortissime pressioni anche elettorali delle correnti “pro israeliane” facevano pensare che l’atteggiamento di neutralità favorevole agli arabi potesse essere modificato.
La notizia dell’accettazione della tregua di entrambe le controparti fu pubblicata in prima pagina[25].
Pochi giorni prima dell’inizio del conflitto, l’inviato Stefano Terra[26] scrisse un interessante articolo[27] sulla crisi. Il giornalista focalizzava la sua attenzione sulla figura di Golda Meir, Ministro degli Esteri dello Stato d’Israele, che si era incontrata con gli ambasciatori di Inghilterra, Francia e Unione Sovietica. Al centro dei colloqui vi era stata ancora una volta la vendita di armi da parte dell’Unione Sovietica all’Egitto, mentre la Cecoslovacchia continuava ad equipaggiare di armamenti le truppe siriane. Il giornalista si soffermava brevemente anche sui rapporti tra la Russia comunista e Israele; rispetto al periodo della nascita dello Stato ebraico quando vi era stato un deciso appoggio da parte dell’Unione Sovietica, le relazioni tra i due Paesi si erano deteriorate. A questo proposito, Terra faceva menzione del processo contro i medici ebrei e dell’ondata di antisemitismo che aveva attraversato la Russia. È interessante osservare come il giornale avesse mostrato una certa attenzione verso i difficili rapporti tra Israele e l’Unione Sovietica, anche se non vi era stata una trattazione estesa della condizione degli ebrei in Russia e soprattutto di quegli ebrei che intendevano lasciare il Paese comunista per trasferirsi in Israele, infatti, gli articoli, molto brevi, erano focalizzati prevalentemente sulla rottura delle relazioni diplomatiche[28] avvenuta nel 1953.
Nella conclusione dell’articolo, il corrispondente riferiva delle dichiarazioni del Primo Ministro Ben Gurion di fronte al Parlamento, nelle quali affermava che il vero grande pericolo per il Paese era l’aggressività del “dittatore fascista egiziano”, mentre la minacciata entrata delle truppe irachene in Giordania era una questione secondaria. Terra notava come, attraverso queste dichiarazioni, sostanzialmente il Governo israeliano si stesse allineando alle posizioni francesi e inglesi riguardo all’Egitto, ritenuto uno strumento nelle mani della diplomazia sovietica. Secondo il giornalista, era in corso un grande lavoro diplomatico per il rinvio delle elezioni in Giordania.
La notizia dell’inizio del conflitto fu pubblicata in prima pagina[29]. Nella prima parte dell’articolo si focalizzava l’attenzione sulle manovre militari israeliane; le truppe dello Stato ebraico avevano varcato il confine egiziano arrivando a circa 60 chilometri dalla città di Aqaba. Il bollettino emanato da Tel Aviv annunciava che le colonne israeliane stavano avanzando attraverso il deserto lasciandosi alle spalle importanti basi dell’esercito egiziano.
Un comunicato del Governo israeliano affermava che l’azione era stata resa necessaria in seguito agli attacchi egiziani contro i cittadini israeliani e contro le comunicazioni terrestri e marittime. In seguito, era stato precisato che l’obiettivo della “manovra” era quello di eliminare le basi dei volontari della morte egiziani nella penisola del Sinai. Il giornalista, che non firmava l’articolo, riteneva che nella riunione d’urgenza del Governo israeliano si fosse discusso anche l’appello che il Presidente americano Eisenhower aveva rivolto a Ben Gurion, appello rivolto anche ai Paesi arabi, di non prendere iniziative atte a turbare la pace in Medio Oriente. Durante una pausa della riunione governativa, Ben Gurion riceveva l’ambasciatore statunitense per comunicargli che Israele era obbligato a procedere ad una parziale mobilitazione a causa delle attività ostili dei Paesi arabi, assicurando inoltre che Tel Aviv riteneva suo interesse vitale il mantenimento della pace.
A Gerusalemme, come negli altri centri cittadini, notava il giornalista, vi era una certa animazione, ma non sorpresa. In quei giorni, come in quelli dell’armistizio con i Paesi arabi del 1948, la popolazione aveva vissuto ore di grave tensione. L’atteggiamento arrogante di Nasser, il fermento nei Paesi arabi vicini e lo stillicidio degli attacchi facevano ritenere imminente un’azione militare.
Nei mesi successivi l’attenzione del quotidiano si rivolse soprattutto verso l’azione diplomatica degli Stati Uniti. L’Amministrazione Eisenhower era fortemente irritata con Israele per l’attacco al Sinai, infatti, riteneva che l’azione anglo-francese-israeliana fosse interpretata dai Paesi arabi come l’ennesimo tentativo del colonialismo occidentale di impadronirsi del mondo arabo e che tale azione fosse stata sollecitata dagli Stati Uniti per punire un leader refrattario alle lusinghe americane e, perciò, pericoloso.
Il giornale seguì molto puntigliosamente l’attività di pressione statunitense[30], che portò Israele a ritirarsi dal Sinai e poi da Gaza[31], sottolineando la fermezza dell’Amministrazione Eisenhower. In questi articoli non si riscontrano accenti critici verso la linea politica del Governo di Ben Gurion, giudicata da alcuni ambienti americani e finanche israeliani eccessivamente rigida.

Note

[1] L. Johnman, “Defending the Pound: the Economics of the Suez crisis, 1956”, in Post-War Britain 1945-64: Themes and perspectives, a cura di A. Gorst, L. Johnman, W. Scott Lucas, Pinter Publishers, London-New York 1989; D. B. Kunz, The economic diplomacy of the Suez crisis, University of North Carolina Press, Chapell Hill 1991.

[2] Sui rapporti tra Israele e Stati Uniti negli anni 1953-1956, Cfr. I. Alteras, Dwight Eisenhower and the State of Israel: supporter or Distant Sympathizer?, in Dwight D. Eisenhower: Soldier, President, Statesman, a cura di J.P. Krieg, Greenwood Press, New York and Westport 1987; Id., Eisenhower and Israel: U.S- Israeli Relations, 1953-1960, University Press of Florida, Gainsville, FL, 1993.

[3] E. Karsh, Israel, in Y. Sayigh, A. Shlaim (a dura di), The Cold War and the Middle East, Clarendon Press, Oxford 1997, p. 161.

[4] A. Eban, An Autobiography, Random House, New York 1977, p. 172.

[5] A. Eban, Personal Witness: Israel through My Eyes, G. P. Putnam’s Sons, London 1993, p. 233.

[6] R. C. Barrett, The Greater Middle East and the Cold War: U.S Foreign Policy under Eisenhower and Kennedy, I. B. Tauris, London and New York 2007, pp. 19-20.

[7] “Piccoli gruppi di palestinesi, male organizzati, senza addestramento, intraprendono dal 1949 incursioni contro Israele (…). Non si parla ancora di “fedayin” ma di “infiltrati”. Il maggior numero di incidenti si verifica nel corso dei primi anni sulla linea di armistizio giordano-israeliana. Benché il Governo giordano cerchi di impedire l’attraversamento delle linee, gli è impossibile controllare quasi mezzo milione di rifugiati e 650 chilometri di frontiere. (…) Tali incidenti sono assai spesso, in quest’epoca, causati da rifugiati che tentano di recuperare una parte, magari infima, di ciò che hanno perso abbandonando ogni loro avere”, X. Baron, I Palestinesi. Genesi di una nazione, Baldini & Castoldi, Milano 2002, p. 82.

[8] Cfr. M. De Leonardis, “L’Italia e il Mediterraneo: tradizione storica e realtà attuale”, in Id. (a cura di), Il Mediterraneo nella politica estera italiana del secondo dopoguerra, Il Mulino, Bologna 2003; L. Riccardi, Tra Stati Uniti ed Egitto. Fanfani e la crisi di Suez, “Storia Contemporanea”, nov.-dic. 2009, n. 6, p. 82.

[9] Fornari a Ministero degli Affari Esteri, telegr. 16563/239 del 3 agosto e Folchi a Fornari, telegramma 8778 dell’8 agosto 1956, Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri, Direzione Generale Affari Politici, Egitto, rispett. b. 1062 e b. 1050.

[10] Cfr. A. Brogi, L’Italia e l’egemonia americana nel Mediterraneo, La Nuova Italia, Firenze 1996, p. 226; G. Calchi Novati, Il canale della discordia. Suez e la politica estera italiana, Quattro Venti, Urbino 1998.

[11] Martino a Foster Dulles, 25 luglio 1956, Ministero degli Affari Esteri, Direzione Generale Affari Politici 50-57, b. 1050, f. Corrispondenza diretta agli americani.

[12] Martino a Vitetti, 1 novembre 1956, tel. n. 12757, Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri, Direzione Generale Affari Politici 50-57, b. f. Israele-Stati Arabi. Conflitto Israele-Egitto 1-10 novembre.

[13] Cfr. Bozza di comunicato stampa, Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri, Direzione Generale Affari Politici 50-57, b. 1054, f. Comunicati stampa. Dichiarazioni ed interviste articoli ispirati ritagli stampa, s.f. Comunicato 1 o 2 novembre 1956.

[14] Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, Discussioni, Seduta del 6 novembre 1956.

[15] Sulla Dottrina Eisenhower, Cfr. D. De Luca, Gli stati Uniti e la crisi di Suez (1955-1957), in Gli Stati Uniti, la Shoah e i primi anni di Israele (1938-1957), a cura di A. Donno, Giuntina, Firenze 1995, pp. 171-253; A. Donno (a cura di), Ombre di guerra fredda. Gli Stati Uniti nel Medio Oriente durante gli anni di Eisenhower (1953-1961), ESI, Napoli 1998, pp. 625-650; A. Tonini, Un’equazione a troppe incognite. I Paesi occidentali e il conflitto arabo-israeliano 1950-1967, Franco Angeli Milano 1999, pp. 131-140.

[16] Ripresi gravi incidenti al confine tra Egitto e Israele, “La Stampa”, 31 agosto 1955.
Scontri alla frontiera tra Egitto e Israele, “La Stampa”, 1 settembre 1955.
Tregua d’armi dopo duri scontri alla frontiera tra Egitto ed Israele, “La Stampa”, 2 settembre 1955.
Sono ripresi i combattimenti tra Egitto e Israele, “La Stampa”, 4 settembre 1955.
Grossi concentramenti di truppe al confine tra Egitto e Israele, “La Stampa”, 30 ottobre 1955.
Giornata di cruenta battaglia al confine tra Egitto e Israele, “La Stampa”, 4 novembre 1955.
L’Egitto minaccia la guerra in caso d’incidenti con Israele, “La Stampa”, 16 dicembre 1955.  

[17] Un incidente tra Siria e Israele aggrava la crisi nel Medio Oriente, “La Stampa”, 13 dicembre 1955.

[18] Giornalista e inviato speciale, nacque nel 1909. Durante la sua attività giornalistica utilizzò sempre lo pseudonimo Adelfi, il vero cognome era De Fèo. Lavorò per molte testate giornalistiche, tra cui “L’Europeo”, “L’Espresso” e “Epoca”. Fu redattore a “La Stampa” per molti anni, occupandosi di tematiche politiche e della società contemporanea. Morì a Roma nel 1987. Cfr. Voce in Enciclopedia Treccani (online).

[19] Nicola Adelfi, Un’atmosfera di furiose passioni alimenta l’odio tra arabi ed ebrei, “La Stampa”, 1 novembre 1955.

[20] Sulle riparazioni della Repubblica Federale Tedesca allo Stato ebraico, Cfr. N. Balabkins, West German Reparations to Israel, Rutgers University Press, New Jersey 1971; L. Feldman Gardner, The Special Relationship Between West Germany and Israel, HarperCollins Publishers Ltd, New York 1984.

[21] Nicola Adelfi, Ben Gurion vincitore degli arabi è ritornato al Governo, “La Stampa”, 3 novembre 1955.

[22] Su questo avvenimento, Cfr. L. Cremonesi, Dal rispetto del boicottaggio arabo alle ambizioni di mediazione. L’Italia e Israele verso la crisi di Suez, in L’Italia e la politica di potenza in Europa (1950-1960), a cura di E. Di Nolfo, R. H Rainero, B. Vigezzi, Marzorati, Milano 1992, p. 119.

[23] Gravissimo scontro tra Egitto e Israele, “La Stampa”, 6 aprile 1956. 
Grave incidente di confine tra Israele e Giordania, “La Stampa”, 13 settembre 1956.
Quattro civili di Israele uccisi da soldati giordani, “La Stampa”, 25 settembre 1956.
Sette ore di battaglia e 150 morti a Gerusalemme tra Giordania e Israele, “La Stampa”, 27 settembre 1956.
Israele minaccia la guerra se si uniscono Iraq e Giordania, “La Stampa”, 16 ottobre 1956.
Otto ore di sanguinosi scontri al confine tra Giordania ed Israele, “La Stampa”, 12 ottobre 1956.

[24] Come il deciso intervento americano ha salvato la pace tra Egitto e Israele, “La Stampa”, 12 aprile 1956.

[25] Egitto e Israele accettano la totale cessazione del fuoco, “La Stampa”, 20 aprile 1956.

[26] Giornalista e scrittore, il cui vero nome era Giulio Traversari, nacque nel 1917. Attivo nella Resistenza, fu membro di “Giustizia e libertà”. Costretto ad abbandonare l’Italia, proseguì l’attività clandestina in Egitto. Nel dopoguerra, collaborò a “Il Politecnico”, diresse “Il ‘45”. Inviato speciale per “La Stampa” e la RAI, si dedicò principalmente alla situazione dei Paesi dei Balcani e al Medio Oriente. Esordì nella narrativa con Morte di italiani (1942), seguito da Il ritorno del prigioniero (1945), i racconti di Sul ponte di Dragoti bandiera nera (1952), La fortezza del Kalimegdan (1956 e 1970), proseguendo con Calda come la colomba (1971), Alessandra (1974; premio Campiello), Le porte di ferro (1979), Albergo Minerva (1982), Un viaggio una vita (1984). Le poesie del periodo 1937-1968 sono state raccolte in L’avventuriero timido (1969) e nel volume postumo di Poesie inedite (prefazione di G. Pampaloni, 1991). Seguirono Tre anni con Tito (1953) e Il sorriso dell’imperatrice. Viaggio in Grecia e in Medio Oriente (1958). Morì a Roma nel 1986. Cfr. Voce, curata da Emanuele Trevi, in Enciclopedia Italiana, V appendice, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1995.

[27] Stefano Terra, Per Israele il grande pericolo è l’aggressività egiziana, “La Stampa”, 18 ottobre 1956.

[28] Probabile rottura tra Mosca e Israele, “La Stampa”, 22 gennaio 1953.
Rottura diplomatica tra Russia e Israele, La Stampa”, 12 febbraio 1953.
Attacchi della “Pravda” ai dirigenti dello Stato d’Israele, “La Stampa”, 15 febbraio 1953.
Il rimpatrio dei diplomatici tra U.R.S.S e Israele, “La Stampa”, 22 febbraio 1953.

[29] Le truppe d’Israele hanno varcato il confine con l’Egitto e avanzano verso Suez, “La Stampa”, 30 ottobre 1956.

[30] Gino Tomajuoli, Eisenhower chiederà a Nasser garanzie di pace per Israele, “La Stampa”, 10 febbraio 1957.
Eisenhower cerca una soluzione per il complesso problema d’Israele, “La Stampa”, 17 febbraio 1957.
Eisenhower afferma che l’ONU dovrà fare pressioni su Israele, “La Stampa”, 21 febbraio 1957.
Eisenhower spera in un accordo con ancora Israele, “La Stampa”, 23 febbraio 1957.

[31] Israele annuncerà oggi all’ONU il ritiro delle truppe da Gaza e Aqaba, “La Stampa”, 1 marzo 1957.
Israele accetta di ritirare le truppe da Aqaba e Gaza, “La Stampa”, 2 marzo 1957.
Israele conferma all’ONU lo sgombero mentre a Gerusalemme il popolo protesta, “La Stampa”, 5 marzo 1957.

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