RESISTENZA ITALIANA IN A. O.

di Alberto Rosselli -

Tra il 1941 e il 1943 alcune organizzazioni politico-militari clandestine vollero continuare la lotta contro l’occupante inglese dopo la resa dell’Impero fascista

Le truppe inglesi rendono l'onore delle armi al duca d'Aosta

Le truppe inglesi rendono l’onore delle armi al duca d’Aosta

Già due mesi prima della resa di Gondar (27 novembre 1941), l’ultima piazzaforte italiana in Africa Orientale difesa dal valoroso ed abile generale Nasi, cioè agli inizi di settembre del ’41, diversi esponenti della milizia fascista e dell’esercito decisero di dare vita ad un movimento clandestino di rivolta per contrastare le forze di occupazione britanniche e il nuovo governo del Negus e per creare i presupposti per una riconquista, da parte dell’Armata d’Africa italo-tedesca del generale Erwin Rommel, dell’Etiopia, dell’Eritrea e della Somalia. I rapidi e brillanti successi conseguiti in Cirenaica dal generale tedesco nei mesi di febbraio, marzo e aprile del ’41, indussero molti italiani d’Africa Orientale, militari e civili, a sperare in una possibile “liberazione” dell’ex Impero, nonostante quest’ultimo fosse ormai quasi per intero sotto il controllo delle forze inglesi ed etiopi fedeli al Negus. Come si è accennato, già il 6 settembre, alcuni elementi provenienti dalle file del partito fascista dettero vita all’Associazione segreta Figli d’Italia che si proponeva oltre alla lotta contro gli occupanti di Albione anche una “dura repressione nei confronti dei traditori, dei collaboratori, dei profittatori, degli anti-fascisti e degli anti-monarchici che avevano disonorato la Patria”. L’associazione riuscì persino a fare pervenire a Roma (allo stesso Mussolini) una missiva con la quale lo si informava dell’esistenza e della operatività di “un movimento di resistenza fedele al credo fascista”.

Quasi contemporaneamente alla costituzione dell’Associazione Figli d’Italia, nacque ad Addis Abeba il Fronte di Resistenza, un’organizzazione militare costituita e diretta dal maggiore Lucchetti e il cui obiettivo era quello di coordinare le azioni di guerriglia che alcune centinaia di militari e civili italiani stavano conducendo fino dall’aprile del ’41, poco dopo la caduta dell’ultimo grande bastione di Cheren. Quantificare l’esatta consistenza numerica e valutare l’equipaggiamento e l’armamento delle numerose bande che andarono a confluire nell’organizzazione (alcuni riferiscono di un totale di almeno 7.000 uomini, tra ufficiali, sotto ufficiali, soldati e civili riarmati) non è cosa facile, anche se le testimonianze, seppur contraddittorie come in tutti questi casi, non mancano. Sappiamo con esattezza i nomi dei 40 membri del primo comitato segreto del Fronte di Resistenza (ne fecero parte, tra gli altri, il capitano dei carabinieri Leopoldo Rizzo, il maggiore dei granatieri Enrico Arisi, i maggiori Giuseppe De Maria e Mario Bajon, il giornalista F.G. Piccinni, l’ex vice-podestà di Addis Abeba Tavazza e altri ufficiali) e sappiamo per certo le zone nelle quali le bande, anche quelle non affiliate al “Fronte di Resistenza” (come quella, leggendaria, composta dai cavalieri amhara del tenente di cavalleria Amedeo Guillet, che per diversi mesi in Eritrea diede molto filo da torcere agli inglesi).

Il generale Guglielmo Nasi

Il generale Guglielmo Nasi

Nella regione di Dessiè operò la banda del maggiore Gobbi; mentre a Cobbò alcuni ufficiali organizzarono la rivolta della tribù Azebò Galla ostile al Negus. Esistevano poi bande armate di sabotatori nel Caffa e nel Gimma, ed altre attive nelle zone di Dembidollo, di Moggio e del Cercèr. E ancora, nella regione dell’Amba Auda, presso Saganeiti, un gruppo di ufficiali della marina era riuscito ad installare una radio ricetrasmittente con la quale inviare messaggi al Maristat di Roma, mentre in Eritrea il capitano di vascello Paolo Aloisi e il seniore della milizia fascista Luigi Cristiani avevano organizzato una rete d’assistenza per i soldati evasi dai campi di concentramento inglesi e un gruppo di sabotatori. Catturato dagli inglesi, il seniore Cristiani venne condannato a morte ma scampò la pena capitale per intercessione del vescovo di Asmara, Marinoni. Insomma, la Resistenza Italiana in Africa Orientale non riguardò l’impegno di pochi “disperati” privi di programmi (come fu propagandato dai responsabili dei Servizi Segreti britannici), ma fu un fenomeno che coinvolse un consistente numero di qualificati soggetti, esperti di comando e adusi alle armi e alle operazioni di spionaggio e sabotaggio. Per due anni, dall’aprile del 1941 al maggio del ’43, i reparti italiani inglobati nelle bande “partigiane” combatterono una dura, oscura ma spesso efficace guerra contro i reparti inglesi ed etiopi in una regione vastissima compresa tra il Sudan e il Kenya, tra il Mar Rosso e la regione dei Laghi. Le bande italiane più organizzate disponevano di un armamento individuale composto da pistole Beretta, moschetti Modello ’91, fucili mitragliatori Breda, mitragliatrici Fiat e Shwarzlose, fucili di preda bellica inglese, bombe a mano, cariche di dinamite e persino alcuni pezzi someggiati da montagna da 65 millimetri, anche se a corto di munizioni.

Alcuni reparti di resistenti potevano fare anche conto su un certo numero di cammelli, muli e cavalli per il trasporto dei viveri, delle munizioni e dell’equipaggiamento. Dopo una prima fase interlocutoria e di organizzazione (dalla primavera all’inverno del 1941, le bande operarono soprattutto nelle retrovie inglesi, assalendo isolate colonne motorizzate e attaccando piccoli presidi scarsamente difesi da truppe irregolari etiopi), nel 1942 i reparti italiani iniziarono a colpire con maggiore precisione il nemico, sia nelle aree urbane che nelle campagne. Tanto da costringere il Comando inglese a richiamare dal Kenya e dal Sudan alcuni battaglioni di colore supportati da mezzi aerei e meccanizzati. Il timore di una più estesa rivolta “italiana” in Africa Orientale era diventato più reale in seguito ai successi ottenuti dall’Afrika Korps tedesca in Libia ed Egitto e dall’entrata in guerra del Giappone (7 dicembre 1941) a fianco di Germania e Italia. Nel maggio del 1942, a seguito dei frequenti avvistamenti di grossi sommergibili oceanici nipponici, dotati tra l’altro di piccoli idrovolanti da ricognizione catapultabili, lungo le coste yemenite, somale e della Tanzania e della parte settentrionale del Madagascar, il Comando Supremo inglese rafforzò la vigilanza dei litorali africani dell’Oceano Indiano e nel contempo imprigionò o allontanò da città come Mogadiscio, Chisimaio e Dante la quasi totalità dei coloni italiani, nel timore che qualcuno di essi potesse fornire utili informazioni sulla consistenza (in verità piuttosto scarsa) delle forze britanniche agli equipaggi dei sommergibili giapponesi.

Le colonie italiane in Africa

Le colonie italiane in Africa

A partire dal gennaio del 1942, una buona percentuale dei reparti italiani operanti sulle ambe, nelle zone desertiche o nella profondità delle foreste del sud-ovest dell’Etiopia iniziarono a ricevere istruzioni dal Comando segreto del generale della Milizia Muratori che, grazie al suo forte ascendente sugli Azebò Galla era riuscito a fare scoppiare una rivolta nella regione del Galla Sidama: rivolta che venne soppressa dalle forze britanniche e negussite soltanto nel 1943. Sempre all’inizio del ’42, nel remoto bacino del fiume Omo Bottego-Baccano, la banda del tenente colonnello dei carabinieri Calderari mise in serie difficoltà le piccole guarnigioni sudafricane, mentre quelle dei colonnelli Di Marco e Ruglio (operanti, rispettivamente, nelle aride regioni dell’Ogaden e della Dancalia) e quella del Centurione della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale De Varda (formata in prevalenza da “camicie nere”) effettuarono diverse imboscate ai danni di colonne motorizzate nemiche, creando scompiglio e costringendo gli inglesi a rafforzare la sorveglianza lungo le camionabili e le piste più battute. Nel maggio del 1942, lo stesso imperatore Hailé Selassié, iniziò a prendere in considerazione una “pace separata” con gli italiani e addirittura una forma di sotterranea collaborazione in funzione anti-britannica. Dopo il suo nuovo insediamento avvenuto il 6 aprile ’41, per opera di Londra, il Negus aveva avuto modo di constatare la diffidenza e la sufficienza con la quale veniva trattato dai plenipotenziari di Londra: atteggiamento ch’egli deprecò al punto da prendere in considerazione un clamoroso voltafaccia.

E fu proprio tra il maggio e il luglio del ’42 che il Negus, sicuramente impressionato dai successi di Rommel in Nord Africa, pensò a questa soluzione, intensificando, seppur con la massima prudenza, i contatti con i “ribelli” italiani d’Etiopia. Tuttavia, con il passare dei mesi e, nonostante brillanti colpi di mano effettuati (ma sempre taciuti dagli organi di informazione britannici), le bande italiane cominciarono a perdere quella motivazione nella lotta che le aveva sorrette per tanti mesi. Isolati dalla madrepatria e costretti a sopravvivere in territori molto difficili sotto il profilo ambientale e climatico, diversi reparti cominciarono a lamentare pericolosi cedimenti. Nella tarda estate del ’42, dopo l’arresto definitivo dell’Afrika Korps di Rommel ad El Alamein e il primo grave rovescio subito dalla flotta giapponese nel Pacifico alle isole Midway, le speranze di essere raggiunti dalle armate dell’Asse si affievolirono. Durante tutto l’inverno e la primavera del 1942, tra le forze di resistenza dell’Africa Orientale si era sparsa la voce dell’imminente arrivo, lungo il corso del Nilo, di una potente quanto mitica “colonna di soccorsi italo-tedesca proveniente dalla Libia, forte di carri armati, artiglierie e non meno di 6.000 cammelli”. Un sogno destinato però ad infrangersi contro la dura ed avversa realtà.

Comunque sia, nell’imminenza del “miracolo”, il maggiore Lucchetti, sempre a capo del Fronte di Resistenza, cercò di rincuorare i suoi reparti e intensificò addirittura la sua opera “organizzando reparti speciali di sabotatori, accantonando viveri e automezzi, e raccogliendo denaro, in quest’ultima impresa validamente coadiuvato da monsignor Ossola, vescovo cattolico di Harar”. “Arrestato dagli inglesi nell’ottobre 1942, Lucchetti scomparve dalla scena quando oramai, con la sconfitta di Rommel in Egitto e con l’evacuazione o l’imprigionamento quasi totale dall’Africa Orientale dei militari e dei civili, ogni ulteriore resistenza perse di significato”. “I nostri sogni di allora – ricorda nelle sue memorie il “guerrigliero” Corrado Turchetti – non erano ancora senza speranza. Le forze motorizzate italiane, se fossero riuscite ad infrangere le difese britanniche di El Alamein, avrebbero potuto ridiscendere il Nilo” e travolgere le forze armate inglesi ed etiopi che occupavano l’ex Impero. Le ultime efficaci azioni di guerriglia condotte dagli italiani contro le truppe di occupazione britanniche si svolsero in quella “storica” estate del ’42 furono condotte da due personaggi veramente eccezionali: la dottoressa Rosa Dainelli e il capitano del SIM (Servizio informazioni militari) Francesco De Martini. Dopo la morte del capitano Bellia e del tenente Paoletti, caduti in un agguato nemico al termine di una serie di azioni di sabotaggio, De Martini, che si era già fatto notare nel ’41 per alcune spericolate e brillanti azioni in Dancalia, venne fatto prigioniero (nel luglio ’41) riuscendo però a fuggire e successivamente ad incendiare con mezzi di fortuna i depositi di munizioni di Daga (Massaua).

Pur essendo braccato dalla polizia inglese, De Martini creò in poche settimane una rete di informatori (in parte composta da eritrei fedeli all’Italia) riuscendo a fare pervenire, tramite una radio di fortuna, utilissime informazioni al Comando di Roma. Pare, addirittura, che De Martini fosse riuscito ad armare con mitragliatrici alcuni sambuchi arabi con i quali svolse missioni notturne per individuare e segnalare convogli navali britannici in transito lungo le coste eritree. De Martini sopravvisse (come il già citato tenente Guillet, sfuggito per un soffio alla prigionia e riparato su una piccola imbarcazione nello Yemen) alla guerra e venne decorato con la Medaglia d’Oro al valore. E a proposito di medaglie, una molto particolare sarebbe spettata di diritto alla coraggiosa e affascinante dottoressa Rosa Dainelli che nell’agosto del ’42, dimostrando patriottismo, doti atletiche e coraggio fuori dal comune, penetrò di notte nel più sorvegliato deposito di munizioni inglese di Addis Abeba facendolo esplodere con una pericolosa carica di dinamite a miccia. Rosa Dainelli riuscì miracolosamente a farla franca e soprattutto a salvare la pelle arrecando al nemico un danno ben più grande di quanto ella avesse previsto. Nel deposito, infatti, si trovavano 2 milioni di speciali cartucce Fiocchi preda bellica che il Comando inglese aveva già destinato quale munizionamento per i nuovi mitragliatori Sten appena entrati in servizio ma ancora privi di adeguata scorta di cartucce.
Il mancato utilizzo dei proiettili italiani costrinse quindi gli inglesi a fare a meno dei moderni mitragliatori fino al novembre del ’42 quando dalle fabbriche inglesi uscirono finalmente le nuove cartucce costruite ad hoc. Verso la fine del 1942, quasi tutte le bande armate italiane iniziarono, come si è detto, a sciogliersi ed anche le organizzazioni segrete che avevano adepti e sostenitori tra gli abitanti delle principali città eritree entrarono in fase di collasso organizzativo. E nei primi mesi del 1943, gli ultimi raggruppamenti nazionali, nascosti nelle più selvagge regioni dell’Impero, posarono le armi, non prima di averle rese inutilizzabili dal nemico. Finiva così, senza alcun clamore, una delle pagine più interessanti e meno conosciute della seconda guerra mondiale.

Per saperne di più
A. Del Boca, Gli Italiani in Africa Orientale. La caduta dell’Impero – Roma-Bari, Laterza, 1982
A. Sbiacchi, Hailé Selassié and the Italians, 1941-43 – “African Studies Review”, vol. XXII, n.1, aprile 1979
ASMAI/III, Archivio Segreto, 2 Guerra Mondiale, pacco IV. Relazione Lucchetti
A. Bullotta, La Somalia sotto due bandiere – Milano, Garzanti, 1949
E. Cernuschi, La Resistenza in A.O.I. – “Rivista Storica”, dicembre 1994