LA REPUBBLICA NAPOLETANA DEL 1799 E IL SUO SIGNIFICATO

di Benedetto Croce -

Nella sua “Storia del Regno di Napoli”, Croce mette in risalto l’importanza storica e ideale dell’istituto repubblicano portato nella città partenopea dall’esercito francese dopo la caduta di Ferdinando di Borbone. Istituto reso fecondo dai giacobini napoletani, che «trapiantarono in Italia l’ideale della libertà secondo i tempi nuovi, come governo della classe colta e capace». 

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La nostra nazione (notava Vincenzo Cuoco, dopo avere descritto i «progressi rapidissimi» che si erano compiuti nel corso del secolo decimottavo) passava, per cosi dire, dalla fanciullezza alla sua gioventù; ma questo stato di adolescenza politica è appunto lo stato più pericoloso, e quello da cui più facilmente si ricade nel languore e nella desolazione». Da un simile pensiero, dal simile ricordo del buon avviamento che le cose avevano preso nel periodo riformistico, si è dedotto un giudizio molte volte espresso, e in modo solenne, se ben rammento, nella ricorrenza del primo centenario della rivoluzione francese dal Crispi, allora a capo del governo: che quella rivoluzione apportò sconvolgimenti e danni a Napoli e all’Italia tutta, e che, se essa non fosse accaduta, se non avesse avuto séguito in Italia, se il moto riformistico, protetto dalle monarchie, fosse continuato, le nostre sorti sarebbero state migliori, e più presto si sarebbero ottenuti i fini nazionali, facendo risparmio di rivoluzioni. È un giudizio che vale poco, come tutti quelli che in istoria si fondano su ipotesi e almanaccano su cose che non sono accadute; e sebbene, come ogni giudizio errato, contenga un motivo di vero, questo non è poi altro che la conferma che l’Italia meridionale, al pari di altre regioni d’Italia, non si stava allora ostinatamente attaccata alle sue vecchie condizioni, ma partecipava al moto della nuova vita europea, in quella forma e con quel ritmo che le era consentito, ma in modo certamente ragguardevole. Pel resto, nessun popolo come nessun individuo può scegliersi gli avvenimenti che immagini a sé giovevoli, ma deve accettare quelli che si presentano, e collaborarvi sia pure opponendovisi, e volgerli a suo pro o trarsene fuori a salvezza. Gli avvenimenti escono dalle viscere della realtà di cui noi facciamo parte, e perciò noi stessi concorriamo, anche inconsapevoli, a prepararli; e non cascano su noi come cose di un altro mondo.

E come poi sarebbe stato mai possibile che gli uomini della classe intellettuale di Napoli non salutassero con giubilo di consenso e di speranze gli avvenimenti della rivoluzione francese, che apparivano come il mirabile prodotto delle idee di cui essi stessi erano nutriti, di quelle idee portate alle loro ultime e perfette conseguenze? Certo, la critica politica e storica ha dimostrato il semplicismo di molte teorie politiche e filosofiche che allora fecero scuola, e che mossero ad atti di distruzione e di terrore, e a foggiare nuovi ordinamenti privi di base. Ma, se i principî di quella rivoluzione fossero stati nient’altro che un mucchio di errori dottrinali, non avrebbero avuto vigore pratico in Francia, e molto meno in altri paesi e in questa Italia meridionale. Agli errori andava unita la verità, e l’urgente bisogno di liberarsi da vincoli e scorie del passato e di aprire il varco a forze giovani; e gli errori stessi non potevano essere vinti se non come si vincono sempre gli errori, con l’attuarli e col viverli, spingendoli all’estremo. E chi scorgeva e criticava i soli errori, si rimetteva nella situazione in cui abbiamo visto il Vico; e fu, infatti, un discepolo del Vico, il primo discepolo intelligente, l’ora ricordato Cuoco, il quale giudicò che le teorie politiche, venute a Napoli di Francia, erano assai leggiere a paragone di quelle dell’antica scuola italiana, dal Machiavelli al Vico; e tra i primi dové leggere con buon profitto certe polemiche dei difensori dell’ancien regime, come il De Maistre; e tra i primi si avvide che la rivoluzione francese si legava realisticamente a condizioni particolari della Francia, diverse da quelle dell’Italia e di Napoli in ispecie, dove, tra l’altro, non c’erano né parlamenti né altri istituti e classi che si opponessero alle riforme monarchiche. Tutto ciò gli diè grande chiaroveggenza intorno a quel moto napoletano, che egli narrò criticamente, non appena volto alla catastrofe; ma, poiché egli non era un mero dotto e filosofo come il Vico, quel suo critico giudicare non tolse che nel fatto anch’egli vi partecipasse, sia pure con moderazione e da moderatore, consigliando di non abbandonarsi alle astrattezze e di tener conto del costume del paese, e non tolse che egli proseguisse poi il suo cammino in compagnia degli uomini che vi avevano partecipato e che da quel moto avevano ricevuto l’impulso. Quando il Cuoco tentò di pensare, in base alle sue teorie critiche o piuttosto alle sue personali tendenze, un diverso avviamento, egli stesso si avvide di entrare nel regno dell’utopia: nella «dolce illusione» (come la chiamava) di una «repubblica», che sarebbe potuta essere fondata non, come accadde, mercé le armi francesi, ma dai napoletani medesimi, non sulle teorie degli ideologi forestieri, ma sui «bisogni e gli usi del popolo», e per mezzo di un’autorità che il popolo credeva legittima e nazionale», ossia della Città di Napoli, del potere costituito dai suoi vecchi seggi o sedili. Pure altra via, in verità, non si offriva alla classe intellettuale di Napoli, di fronte alla rivoluzione di Francia, se non quella che essa effettivamente seguì. Gli «illuministi» del monarcato assoluto dovevano rinnovarsi, come nel fatto si rinnovarono, in «giacobini».

Si rinnovarono così tutti, salvo rarissime eccezioni; e, guardandoli come in gruppo, si osserva la stessa varia composizione sociale che già si è vista nella formazione della classe politica dell’età precedente: borghesia, aristocrazia, alto clero. Erano tra essi le legioni dei seguaci del Giannone e degli scolari del Genovesi, gli scienziati e letterati ed economisti di Napoli, i giovani e i provetti: il Pagano, il Cirillo, il Signorelli, il Lauberg, l’Odazi, Eleonora de Fonseca, il Baffi, il Salfi, il Russo, il Visconti: c’era anche, tra parecchi rimatori, un forte e gentile poeta, il poeta di quel nuovo sentimento, Ignazio Ciaia. Mancava il Filangieri, che era morto giovane alcuni anni innanzi; ma tra i giacobini comparvero la sorella di lui e la vedova coi due giovinetti figlioli. Numerosi particolarmente gli studenti dell’università, e più ancora delle scuole private, dove maggiore era la libertà degli spiriti; e, per mezzo degli studenti, le fila di quelle società si allungavano nelle provincie. Tra i più fervidi, frati, sacerdoti, vescovi, anch’essi quasi tutti noti in iscienza e letteratura: il Conforti, il Serao, il Troisi, il Natale, lo Scotti, il Falconieri, il Caputo, il Cestari, il Grimaldi, il Monticelli. L’aristocrazia napoletana vi rifulgeva coi nomi delle sue più antiche famiglie, Carafa e Caracciolo e Pignatelli e Filomarino, e poi ancora coi Riario, i De Martini, i Serra, i Doria. Ma questa classe politica formava essa stessa un’aristocrazia, quella reale, dell’intelletto e dell’animo; e così logicamente tenne in Napoli le parti di una vera noblesse, che, se in Francia, più tardi, divenne segno aristocratico aver avuto un parente morto sulla ghigliottina nel periodo del terrore giacobino, a Napoli, contemporaneamente e all’inverso, fu titolo di ammissione nella buona società l’essere stato perseguitato, o aver avuto un congiunto ucciso o perseguitato per «giacobino».

Come nel Seicento, primi in Italia gl’ingegni napoletani accolsero il pensiero di Cartesio, così sul cadere del Settecento, primi in Italia, cioè fin dal 1792, essi si misero in corrispondenza con le società patriottiche francesi, e i più giovani e ardenti riformarono le loro logge massoniche in clubs giacobini, tramando una cospirazione per rovesciare la monarchia e introdurre istituzioni democratiche, repubblica o, in ogni caso, libertà. «I giacobini di Napoli (scrisse uno di quei giovani, il Mattei, che mori sul patibolo nel 1799) furono i primi che dettero il grido all’Italia sonnacchiosa. Quando altri appena ardiva pensare, quando pareva ancor dubbia la sorte della Francia medesima, essi, giovani, inesperti, privi di mezzi, ma pieni d’entusiasmo per la libertà, d’odio per la tirannia, tentarono un’impresa difficile, vasta, perigliosa, che, se fon fosse andata a vuoto, gli avrebbe resi immortali e felice l’Italia». La cospirazione fu scoperta e sventata: seguirono carcerazioni, supplizî, esilî, e, mentre quelli che restavano nel paese fremevano e si preparavano, aspettando gli eventi, gli esuli napoletani si spargevano per l’Italia, specialmente in Lombardia, in Liguria e poi a Roma, e prendevano parte operosa nelle repubbliche che le armi francesi vi andavano suscitando. «L’Italia (diceva un altro di quei primi giacobini, il Lauberg) ha trovato tanti piccoli vulcani in quanti napoletani ha raccolti nel suo seno, né tra i fasti della sua rigenerazione l’ultimo luogo occuperanno i figli del Sebeto». Che cosa, con quei tentativi, con quelle compresse speranze, con quella propaganda, con quell’aiutare alle democratizzazioni dovunque si spingessero le armi francesi, che cosa venivano creando i giacobini napoletani, troppo di frequente a noi dipinti come candidi sognatori, pericolosi astrattisti, inetti politici? Tali essi erano anche, quando li si giudichi rispetto a certi fini prossimi e contingenti che si proposero; ma non punto rispetto ai fini meno vicini e più durevoli e fecondi. Quei giacobini napoletani, uniti coi loro fratelli di tutta Italia, trapiantarono in Italia l’ideale della libertà secondo i tempi nuovi, come governo della classe colta e capace, intellettualmente ed economicamente operosa, per mezzo delle assemblee legislative, uscenti da più o meno larghe elezioni popolari; e, nell’atto stesso, abbatterono le barriere che tenevano separate le varie regioni d’Italia, specialmente la meridionale dalla settentrionale, e formarono il comune sentimento della nazionalità italiana, fondandolo non più, come prima, sulla comune lingua e letteratura e sulle comuni memorie di Roma, ma sopra un sentimento politico comune. Due ideali, dei quali il primo ora, dopo oltre un secolo che ha operato, si dice che sia invecchiato e da sostituire, e io non so cosa pensare di siffatti giudizî e delle congiunte aspettazioni; ma il secondo, per lo meno, è ancora vivo e forte. Le superficiali teorie di quei patrioti, la loro candida credenza nella nazione redentrice (la Francia, che di nuovo si presentava all’Italia e al mondo come quella della politica «generosa»), i loro errori di calcolo, la fanciullaggine di certi loro atti, i tentennamenti e le debolezze di alcuni tra loro, tutti questi aspetti negativi, sui quali si suole troppo insistere, sono un nulla a paragone dell’opera effettiva che con la loro fede veramente generosa essi compierono.

Quando io ripenso a quei calabresi ed abruzzesi, basilicatesi e pugliesi, e napoletani di Napoli, che agitavano ardenti problemi politici nei giornali repubblicani della Cisalpina e in opuscoli e fogli volanti, che entravano nelle legioni italiane allora formate, che prendevano servizio presso i francesi o presso i nuovi governi democratici, e quando leggo i documenti dello relazioni e amicizie che essi allora legarono con lombardi e piemontesi e liguri e veneti, dico tra me: — Ecco la nascita dell’Italia moderna, della nuova Italia, dell’Italia nostra. — Qualche anno dopo, il sogno di quegli esuli, e dei loro correligionarî rimasti nel Regno, parve attuarsi: le vittoriose armate repubblicane di Francia si volsero verso Napoli; gli esuli le accompagnarono, combattendo in quelle schiere o assistendole dei loro consigli; i giacobini dell’interno aiutarono e occuparono il castello che domina la capitale; e fu proclamata la Repubblica napoletana. Nella vita febbrile di quella Repubblica, che sin dal primo giorno lottò per la propria esistenza e per cercar di stringere a sé le lontane provincie e domare le insurrezioni, e non ebbe agio di eseguire un vero e proprio lavoro legislativo e amministrativo, e promulgò ma non tradusse in fatto la legge abolitrice della feudalità, ciò che vale sopratutto è l’ardore e la persistenza dei repubblicani di Napoli nella loro fede, la difesa, che prolungarono fino all’estremo, della loro Repubblica, onde la città di Napoli, dopo tante volte che si era lasciata prendere e riprendere da stranieri, parve rinnovare gli esempî che aveva dati nel medioevo quando difendeva contro i barbari la propria romanità. Ma, allora, non era più la «città», che si difendeva: era un’accolta d’idealisti provenienti da ogni parte del Regno, dei quali possono dare immagine quei «centotrenta giovani», componenti la guarnigione del vetusto rudere di Castel dell’Ovo, «tutti educati alle lettere», che non mai avevano sentito parlare di assedî e di fortezze, e pur vigilavano da sentinelle, servivano i cannoni, eseguivano sortite, combattevano da soldati: idealisti, alla cui fantasia sorrideva come promessa la pura felicità del genere umano, e che, mentre credevano di abbracciare questa cosmopolitica astrazione, si abbracciavano alla realtà dell’Italia. Quei patrioti di Napoli accompagnavano con sentimenti di gioia e di orgoglio le imprese dei loro fratelli di Lombardia; ed Eleonora Fonseca nel suo giornale il Monitore, riferendo i «prodigi di valore» che la legione cisalpina del generale Lechi compieva nei Grigioni, acclamava: «Viva la gioventù Cisalpina! Ogni lode italiana è lode di tutta l’Italia».

 

(da: Benedetto Croce, Storia del Regno di Napoli, 1925, pagg. 212-219)