“REPUBBLICA” E LE ELEZIONI DEL 1992: UNA PAGINA DI POLITICA ITALIANA

di Massimo Ragazzini -

Condizionate dall’inchiesta di Tangentopoli, le elezioni politiche dell’aprile 1992 – le prime dopo la caduta del Muro di Berlino – sancirono l’inizio della fine dei grandi partiti tradizionali. Ma il patto di Mario Segni, sul quale il quotidiano progressista aveva riversato molte aspettative, non ottenne il successo sperato, mentre gli auspicati travasi di voti da Psi e Dc verso Pds e Pri rimasero solo sulla carta.

 

RepLe elezioni del 5 e 6 aprile 1992, successive alla caduta del muro di Berlino e al crollo del comunismo, furono le ultime col sistema proporzionale e segnarono una svolta di grande rilievo nella storia italiana del secondo dopoguerra, fino ad allora caratterizzata da una notevole stabilità dei risultati elettorali. La Dc perse infatti quasi cinque punti percentuali rispetto alle precedenti elezioni del 1987, scendendo per la prima volta sotto il trenta per cento, e tale perdita non fu compensata dai risultati dei tre partiti alleati, i voti dei quali, sommati fra di loro, si mantennero sostanzialmente analoghi a quelli di cinque anni prima.
A fronte del tracollo democristiano, la Lega Nord, che nel 1987 aveva conseguito una percentuale irrisoria, ebbe un grande successo, raggiungendo alla Camera l’8,7 per cento grazie a un vastissimo consenso nelle regioni settentrionali. I risultati del Pds e di Rifondazione comunista furono complessivamente modesti: la somma dei voti dei due partiti fu inferiore a quella che aveva ottenuto il Pci. I partiti tradizionali, che nei decenni precedenti avevano sorretto i governi, già indeboliti dai risultati elettorali, precipitarono in una crisi definitiva anche a seguito dell’inchiesta ‘mani pulite’ relativa all’illecito finanziamento della politica.
Ho ritenuto interessante esaminare l’atteggiamento tenuto dal quotidiano “la Repubblica” in occasione delle elezioni del ’92 sia per la scarsa considerazione dedicata fino ad oggi dalla storiografia alle posizioni dei giornali in generale sia perché questo quotidiano era (e resta), insieme al “Corriere della Sera”, al vertice delle vendite e ha la caratteristica peculiare di non limitarsi ad analisi e commenti sulla situazione politica ed economica del paese, ma di perseguire anche il dichiarato obbiettivo di orientare l’elettorato.
Il periodo oggetto di valutazione comincia con il mese di gennaio, quando venne stabilita la data delle elezioni, e termina con luglio, mese nel quale il nuovo governo Amato adottò alcuni importanti provvedimenti economici e fu conclusa la trattativa per la riforma del costo del lavoro. In tale lasso di tempo si verificarono, oltre alle elezioni, anche altri episodi importanti, quali l’arresto di Mario Chiesa, e il conseguente avvio dell’inchiesta ‘mani pulite’, gli assassinii dell’europarlamentare Dc Salvo Lima e dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, l’elezione del nuovo presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Tanti eventi non si prestano a essere analizzati nelle poche pagine di un articolo. Ho riservato perciò, qui, la mia attenzione alle tesi del direttore della “Repubblica”, Eugenio Scalfari, e degli altri opinionisti del quotidiano, mentre, per la ricostruzione dei fatti, rimando alla storiografia più autorevole[1].

L’inizio della campagna elettorale

Eugenio Scalfari - Francesca Marchi

Eugenio Scalfari – F. Marchi

Già nelle prime settimane del 1992 “la Repubblica” analizzò la situazione politica, economica e istituzionale italiana nella prospettiva del voto. Esauritesi da tempo le risorse generate dalla forte crescita economica degli anni del ‘miracolo economico’, il sistema politico stava vacillando a causa dell’inefficienza, degli sprechi, della corruzione, delle pratiche clientelari, dell’aggressione della criminalità organizzata allo stato, nonché a causa della sua incapacità di rinnovarsi e riformarsi. A ciò si aggiungeva una gravissima crisi finanziaria con un deficit di bilancio altissimo e, conseguentemente, un debito pubblico in continua crescita. Il peso del debito si era fatto schiacciante proprio nel momento in cui il trattato di Maastricht, al quale l’Italia aveva aderito, imponeva una gestione rigorosa della finanza pubblica. L’Italia venne quindi descritta dal giornale come un paese nel quale dominava un intreccio perverso fra gli interessi delle molte corporazioni che si spartivano le risorse e la classe politica al governo, mentre continuavano a mancare le condizioni per una coalizione sostitutiva della maggioranza uscente, formata, dopo l’uscita del Pri dal VII governo Andreotti, dal quadripartito Dc, Psi, Psdi e Pli.
L’atteggiamento del giornale, fin dall’inizio della campagna elettorale, fu decisamente ostile nei confronti delle forze politiche che componevano il governo uscente, e soprattutto verso la Dc e il Psi. Scalfari, il 5 gennaio, attribuì ai partiti della maggioranza, e principalmente alla Dc, ritenuta una forza politica esausta dopo quasi cinquanta anni di esercizio clientelare del potere, le maggiori responsabilità del “degrado dello Stato e del malcontento della gente”. Dichiarò anche la sua particolare delusione nei confronti del Psi. Sostenne che il riformismo socialista, in tanti anni di presenza ministeriale ai massimi livelli, aveva dato gli stessi esiti del moderatismo democristiano, e cioè “una gestione assistenziale e clientelare dello Stato, con robuste venature di malaffare”. Il Psi si era rivelato del tutto incapace “di rigenerare il costume politico e morale della classe dirigente di governo” e si era conformato alla Dc assumendone i vizi. Ma nonostante le gravi responsabilità delle forze di governo, l’ipotesi che il quadripartito diventasse minoranza non era, a suo dire, probabile. Il direttore cercò quindi di prospettare all’elettorato deluso un’alternativa, indicando una strada per la costituzione di un “punto di riferimento” per quegli elettori che erano irritati nei confronti dei partiti tradizionali. Dopo avere affermato che non intendeva proporre una lista elettorale aggiuntiva, bensì “una grande forza trasversale”, il direttore rilanciò l’idea della redazione di un manifesto che puntasse sulla “riforma elettorale maggioritaria”, da attuare subito, e su poche altre questioni essenziali, in primis il risanamento della finanza dello stato e degli enti locali. Le forze politiche e i singoli candidati che si fossero riconosciuti in quelle indicazioni programmatiche avrebbero dovuto pubblicamente impegnarsi su questo manifesto. Scalfari aggiunse che sapeva che il democristiano Mario Segni stava lavorando su un progetto del genere[2].
Il 2 febbraio il direttore tornò sul tema della necessità della riforma elettorale. Le colpe principali del sistema proporzionale erano di avere reso obbligatorie le coalizioni paralizzando i governi, di avere legittimato la lottizzazione in tutti i luoghi dove arrivavano i “tentacoli dei partiti” e di avere contribuito a tagliare il paese “a fette”. La conseguenza era che di “ogni fetta” si era impadronita una corporazione e chi non apparteneva a una riconosciuta consorteria veniva accantonato. Secondo Scalfari c’erano tuttavia tre rilevanti novità che determinavano le condizioni per “rompere le ingessature” che sostenevano un “potere logoro e avido”. La prima novità consisteva nel “rifiuto della gente” a dare ancora il potere ai partiti che governavano da decenni. La seconda novità era che “una parte dei poteri corporati, degli interessi forti e protetti”, non aveva più interesse a far blocco con la sua tradizionale rappresentanza politica. La terza novità era costituita dal fatto che l’“utopia comunista” in tutto il mondo era stata infranta dalla realtà, il Partito comunista non c’era più, ed era quindi venuta meno la paura della quale i poteri corporati si erano fatti scudo per fare “man bassa” della ricchezza nazionale. Scalfari sostenne che i partiti di opposizione erano troppo diversi fra di loro per poter costituire un’alternativa. Solo se ci fosse stata una legge elettorale maggioritaria si sarebbero potuti modificare gli assetti tradizionali del paese. In tal caso il risultato elettorale avrebbe potuto essere “il licenziamento in blocco” della coalizione di governo “per inefficienza e per comprovata vocazione alla corruttela”. Il meccanismo elettorale proporzionale ostacolava però questo risultato. La maggioranza quadripartita era assediata dalla protesta e aveva accantonato le divergenze pensando soltanto a difendersi. Si trattava, però, di una protesta “confusa, disorganica” e, in alcuni aspetti, “qualunquistica”. In essa c’era di tutto, dai residui del fascismo ai residui del comunismo.
Il probabile successo elettorale della Lega appariva particolarmente preoccupante. Il movimento di Bossi fu definito dalla “Repubblica” una “formazione demagogica, assolutamente priva di programma, competenze e credibilità per amministrare e governare”, purtroppo favorita dalla giustificata avversione di tanti elettori verso la partitocrazia e il malgoverno[3]. Emergevano, in questo quadro, alcune forze politiche, “assai diverse ed anzi reciprocamente ostili”, che erano tuttavia capaci di “intercettare” settori importanti della società: il Pds, il Pri e il “movimento referendario” di Segni. Il Pds si poneva come una “forza di opposizione di sinistra” e rivendicava l’eredità del Pci, “depurata da ogni sedimento ideologico e da ogni continuità politica”. Il Pri era una forza di “opposizione di centro”, che voleva caratterizzarsi per il buon governo, l’europeismo, la cultura industriale e il libero mercato. Il “movimento referendario” era ritenuto dal direttore il più forte tra quanti assediavano il quadripartito, perché ne stava fuori e ne stava dentro ed era quindi il solo in grado di “scardinare i poteri corporati”. L’obbiettivo principale del movimento era infatti abolire il meccanismo della proporzionale e varare una legge elettorale maggioritaria. Per Scalfari la realizzazione di un sistema elettorale maggioritario sarebbe quindi stata l’indispensabile premessa per dare “un colpo d’ascia ai poteri corporati”[4].
L’iniziativa di Segni venne presentata dal giornale come capace di innescare un processo che avrebbe condotto al bipolarismo e, quindi, di incidere significativamente sulle dinamiche e sugli eventi della futura legislatura. Solo una diversa legge elettorale avrebbe potuto favorire la costituzione di due blocchi contrapposti che si alternassero al governo come nelle altre democrazie europee. La prospettiva di un sistema politico bipolare, nel quale ciascun polo avesse tutte le carte in regola per alternarsi all’altro nella guida dell’esecutivo, comportava che il Pds potesse essere la componente essenziale di un futuro polo di sinistra. Il passaggio attraverso un’esperienza di governo, insieme all’adesione all’Internazionale socialista, avrebbe consentito al Pds di presentarsi come un partito facente parte a pieno titolo della sinistra democratica europea. Il giornale si adoperò costantemente, nel corso di tutta la campagna elettorale, per presentare all’opinione pubblica, e in particolar modo agli ambienti imprenditoriali, l’immagine di un Pds in grado di gestire con equità e concretezza la situazione economica e finanziaria.
In parallelo alla condanna del sistema elettorale proporzionale, un altro tema ricorrente sulle pagine del quotidiano fu la critica alla partitocrazia e alle lottizzazioni. Bruno Visentini (che era anche un dirigente del Pri) sostenne che occorreva uscire dalle prassi degli accordi di schieramento e di spartizioni partitiche e correntizie, prassi dalle quali derivavano troppi ministri senza capacità alcuna e che operavano “guardando non al paese, ma al partito, alla corrente e a se stessi”. Il futuro presidente del Consiglio avrebbe dovuto allontanare, invece, tutti i partiti dal governo e dalle sue strutture e, quindi, rivendicare “responsabilità e autonomia” nell’attribuzione degli incarichi ministeriali e nella valutazione della “competenza e dell’idoneità morale”[5]: una tesi che lo stesso Scalfari avrebbe fatta propria vent’anni dopo (al momento della crisi del IV governo Berlusconi).
La linea della “Repubblica” nei confronti del Pds risultò evidente nella vicenda della lettera di Palmiro Togliatti. I primi di febbraio il settimanale “Panorama” diede la notizia che lo storico Franco Andreucci aveva trovato negli archivi di Mosca una lettera del 15 febbraio 1943 nella quale Togliatti, a quel tempo uno dei segretari del Comintern, rispondendo al rappresentante del Pci presso l’Internazionale comunista, affermava di non potersi preoccupare della sorte dei soldati italiani prigionieri dell’Armata rossa e del fatto che molti di quei soldati morissero “in conseguenza delle dure condizioni di fatto”. Secondo Togliatti i lutti che migliaia e migliaia di famiglie italiane avrebbero avuto a causa della guerra di Mussolini sarebbero stati un efficace antidoto per il popolo italiano[6]. Scalfari sostenne che questo “documento togliattiano” gli faceva “orrore” e che Togliatti non aveva valide attenuanti. Volle anche sottolineare che se Togliatti era indifendibile, ciò non doveva far passare in seconda linea le esclusive responsabilità del fascismo delle decine di migliaia di morti nella campagna di Russia, aggiungendo che anche il presidente Cossiga avrebbe dovuto ricordarlo agli italiani. Lanciò poi i suoi strali contro la decisione del capo dello Stato di nominare una commissione di storici di varie appartenenze politiche per acquisire tutti gli elementi possibili sulla autenticità, o meno, della documentazione relativa ai prigionieri italiani morti in Unione sovietica[7].
Obbiettivo del direttore era di evitare che la vicenda potesse essere sfruttata da chi intendeva confermare, pur dopo la caduta del muro di Berlino e la fine dell’Urss, la conventio ad excludendum verso il Pds. Giorgio Bocca, il 6 febbraio, scrisse che gli faceva una pessima impressione che, a cinquanta anni di distanza, buona parte dell’apparato informativo si fosse gettato sull’uso elettorale della tragica vicenda “per portare voti al mulino di una partitocrazia corrotta e bancarottiera”[8]. Il giorno dopo Cossiga comunicò che rinunciava alla commissione e “la Repubblica” accolse la notizia con compiacimento. Il culmine della soddisfazione fu espresso dal giornale quando furono rivelate le prove che la lettera scoperta da Andreucci era stata in alcuni punti, seppur marginali, modificata da Andreucci stesso[9].
Se la difesa del Pds dall’accusa di non avere rotto con l’eredità del Partito comunista fu uno dei punti fermi dell’orientamento della “Repubblica”, non mancarono anche critiche al programma di quel partito. Il 26 febbraio Alberto Ronchey scrisse che il Pds, in materia di governo dell’economia, “si teneva sul generico esigente” e, in materia di progetti sociali, reclamava “il meglio sperimentato e concepibile al mondo” e non rinunciava a raccogliere “tutte le proteste ancorché incompatibili tra loro”. Il giornalista diede tuttavia atto ai postcomunisti del Pds di essersi proclamati fuori dall’esperienza del Pci, che era quella degli “assillanti (….) intellettuali politici di professione mobilitati a conquistare l’egemonia”. Ricordò che il pensiero di Gramsci e Togliatti implicava “incompatibilità con il pluralismo”. Tutto questo, se non altro, era finito. Il Pds, concluse il giornalista, sembrava non subire più condizionamenti ideologici[10]. “La Repubblica” aveva quindi affidato proprio a Ronchey, colui il quale nel 1979 aveva coniato la locuzione ‘fattore K’[11] e non era davvero sospettabile di simpatia per il Pci, il ruolo di certificare l’avvenuta deideologizzazione del Pds.
Le valutazioni della “Repubblica” in materia economica furono affidate allo stesso Scalfari e a Massimo Riva. Il direttore ricordò che occorreva raggiungere gli obbiettivi di Maastricht e quindi attuare una drastica riduzione della spesa corrente, del disavanzo pubblico e della proporzione tra debito pubblico e prodotto interno. Tali obbiettivi erano raggiungibili, ma con un “costo sociale”, e cioè la riforma del sistema pensionistico e di quello sanitario, la privatizzazione di alcuni servizi pubblici e delle imprese pubbliche vendibili, lo sfoltimento del pubblico impiego, l’adozione di un sistema fiscale che mettesse “a contribuzione il settore terziario”. Per far sì che i cittadini fossero disposti a sopportarne i sacrifici, ci voleva una “maggioranza credibile”, poiché era impensabile che i partiti che erano stati ed erano protagonisti dello “scandaloso sistema degli sperperi e delle tangenti” potessero credibilmente presentarsi a chiedere risorse e a “prelevare nuovi balzelli dalle tasche degli italiani”[12]. Secondo Riva, la Dc e il Psi, responsabili del disastro economico, limitandosi a “vagheggiare di mirabolanti e improbabili rinascite economiche” non stavano facendo “discorsi seri”, perché non tenevano in nessun conto i termini drammatici della nostra finanza pubblica né quelli comunque negativi della situazione economica generale. L’economia italiana era stata sostenuta dalla spesa pubblica, in via diretta con provvidenze specifiche e, in via indiretta, con “il combustibile” fornito da un consumo tenuto artificiosamente alto dai disavanzi dello Stato e dagli interessi sul debito pubblico. Non sarebbe stato possibile continuare come in passato, essendo giunto il momento di arrestare bruscamente la “rapina del tenore di vita delle generazioni future”. La gravità della situazione avrebbe dovuto indurre a concentrare l’attenzione della vigilia elettorale su quale cura di “lacrime, sudore e sangue” mettere in campo per la futura legislatura[13].

L’arresto di Mario Chiesa e l’appello di Monti e Spaventa

Mario_Chiesa

Mario Chiesa

Il 18 febbraio il giornale diede la notizia dell’arresto di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio (per i milanesi “la Baggina”), istituto pubblico per l’assistenza agli anziani. L’evento offrì alla “Repubblica” la possibilità di confermare ai lettori la validità delle sue analisi. Il giornale mise in evidenza che si trattava di un esponente del Psi e che l’accusa era di concussione. I carabinieri erano entrati nell’ufficio di Chiesa subito dopo che questi aveva ricevuto “settanta biglietti da centomila” da un imprenditore a fronte di un appalto per la fornitura di pulizie: 140 milioni il valore dell’appalto, 14 milioni quello della tangente, “il rituale 10 per cento diviso in due tranche”[14]. Sulla vicenda intervenne Giorgio Bocca, enfatizzando l’appartenenza di Chiesa al Psi e la sua vicinanza a esponenti craxiani. Il giornalista estese la sua analisi al malcostume dei pubblici amministratori in generale, sostenendo che la vicenda Chiesa non era affatto un caso isolato. Appariva chiaro da quanto avvenuto che la tangente del 10 per cento era “una regola canonica”, la normalità. Altrimenti Chiesa non l’avrebbe chiesta a una piccola azienda di pulizie per un “modesto appalto di centoquaranta milioni”[15]. Anche Vittorio Testa ripeté che la vicenda Chiesa non era un caso isolato, ma probabilmente un vero e proprio “sistema universale”, dagli aeroporti agli ospedali, dagli asili alle pompe funebri, dalle licenze commerciali alle varianti ai piani regolatori. Dunque era un sistema, quello dell’“amministrazione pubblica occupata dai partiti”, che inghiottiva qualsiasi tangente, qualunque fosse la sua provenienza[16]. Il giornale, pur non sostenendo in modo esplicito che le tangenti date al presidente della “Baggina” finivano anche nelle casse del Psi, cercò comunque di far capire che le indagini giudiziarie andavano in questa direzione, nonostante che Craxi avesse dichiarato di essere proprio lui “una delle vittime” del comportamento di Chiesa, definito dal segretario del Psi un “mariuolo che gettava un’ombra su tutta l’immagine di un partito”[17]. Nella medesima pagina dell’articolo che riferiva dell’epiteto di “mariuolo” dato da Craxi a Chiesa, fu pubblicata, non casualmente, un’intervista al senatore socialista Guido De Martino, che aveva deciso di lasciare il Psi per candidarsi alle future elezioni nel Pds. Fra le motivazioni addotte per la sua scelta, De Martino aveva indicato “la questione morale” e, in particolare, la “degenerazione del costume e delle pratiche politiche”[18].
Mentre lanciava allarmi sulla gravità della corruzione politica, il giornale ricordava anche costantemente ai lettori l’esistenza di un vincolo imprescindibile, determinato dall’ingresso in Europa, che poneva al paese condizioni molto rigide in materia di politiche economiche. Su tale argomento “la Repubblica” pubblicò il 27 febbraio un appello ai partiti firmato dagli economisti Mario Monti, rettore della Bocconi, e Luigi Spaventa, già senatore eletto a suo tempo nelle liste del Pci. I due economisti ricordavano che il futuro Parlamento sarebbe stato chiamato a ratificare entro l’anno il trattato firmato a Maastricht, che subordinava l’adesione all’unione monetaria a condizioni di convergenza di inflazione e di riduzione sostanziosa di disavanzi e debiti pubblici in eccedenza rispetto ai livelli medi comunitari. Nessuna forza politica rifiutava l’Europa comunitaria, metteva in discussione l’unione monetaria, eccepiva sulle condizioni fissate nel trattato, o ammetteva la possibilità di rinviare l’entrata dell’Italia nell’Unione. Sarebbe quindi stato auspicabile che il dibattito politico avvenisse su come compiere in brevi anni questo “cammino lungo e faticoso” e su come distribuire i costi da sopportare. Purtroppo di questi temi i partiti dibattevano poco o nulla e si presentavano agli elettori con altri argomenti. L’appello, pur non volendo dettare programmi, ma solo definire i vincoli da rispettare, indicò i problemi più urgenti da risolvere, definiti “le anomalie italiane”: eccesso d’inflazione, ostacoli alla concorrenza, assenza di una politica dei redditi nel settore pubblico, fabbisogno statale senza controllo, crescita del debito pubblico superiore a quella del Pil e finalizzata per la maggior parte al finanziamento delle spese correnti. Per avvicinarsi alle condizioni di Maastricht, l’Italia avrebbe dovuto annullare il disavanzo corrente e per fare ciò sarebbe stata necessaria “una riduzione duratura del fabbisogno dell’ordine del 5 per cento del Pil (80 mila miliardi in cifre 1993)”. Una correzione di tale dimensione avrebbe comportato un intervento principalmente sul lato della spesa, ma avrebbe riguardato anche le entrate e avrebbe reso necessaria la dismissione di proprietà pubbliche. Sarebbe stato inoltre compito delle forze politiche correggere le “tendenze insostenibili innescate nel passato” in materia di previdenza e pubblico impiego. L’adozione delle misure idonee all’eliminazione delle anomalie italiane non sarebbe stata un’operazione indolore, ma di ciò nei programmi elettorali dei partiti non si teneva alcun conto. Monti e Spaventa concludevano che se gli italiani non fossero stati disposti a sopportare l’onere di tale operazione, sarebbero stati i loro figli e le nuove generazioni a sopportare un ben più pesante onere fatto di maggiori tasse e contributi, minori servizi, minore occupazione e minore crescita[19].            All’appello ai partiti dei due economisti replicò Alfredo Reichlin, ministro del bilancio nel ‘governo ombra’ del Pds. L’esponente del Pds non contestò le singole analisi di Monti e Spaventa circa gli eccessi di spesa corrente, ma osservò che il dissesto della finanza pubblica dipendeva sempre più dal fatto che il costo del “coacervo di parassitismi, sprechi, inefficienze, rendite”, e quindi, in pratica “dei settori protetti proliferati all’ombra del sistema”, si rifletteva sul deficit e sull’eccesso d’inflazione. In Italia si era infatti insediato una sorta di “complesso politica–affari-spesa pubblica” che aveva comportato un uso distorto e clientelare delle risorse pubbliche. Il Pds proponeva uno spostamento di risorse molto consistente, e in tempi brevi, “dai settori protetti e assistiti a quelli produttivi”, e quindi “una vera politica dei redditi” che avrebbe comportato di “mettere sotto controllo le dinamiche salariali”, comprese quelle dei dipendenti pubblici, e riformare i meccanismi che regolavano la gestione delle imprese pubbliche, l’intervento nel Mezzogiorno, gli appalti, la sanità e le pensioni. Si trattava di una politica difficile, ma la sola realistica, che avrebbe consentito all’Italia di cominciare a sgonfiare il bubbone del debito senza distruggere l’economia reale[20].
Scalfari, commentando l’appello del 27 febbraio e l’intervento di Reichlin, scrisse che la lezione di Monti e Spaventa era “lucida e rigorosa” e che il “ministro ombra” del Pds aveva dato un “consenso critico” alle loro tesi. Aggiunse di condividere interamente l’analisi di Reichlin sulle cause che avevano condotto al dissesto del paese[21]. Nel sostenere che c’erano alcuni punti di coincidenza fra le tesi di Monti e Spaventa e quelle di Reichlin è evidente che il direttore si poneva come obbiettivo anche la legittimazione del Pds come forza politica responsabile, europeista, dotata di equilibrio e realismo e, quindi, idonea a governare. Il giornale dette anche rilievo a tutte le dichiarazioni di esponenti del Pds che criticavano l’inattività del quadripartito in merito al risanamento della finanza pubblica[22].

L’avversione al quadripartito e l’appoggio al patto Segni

Mario Segni

Mario Segni

Dopo l’arresto di Mario Chiesa e gli sviluppi delle indagini sulla corruzione a Milano, “la Repubblica” intensificò gli attacchi al Psi. Gianni Corbi scrisse che il Psi aveva subito una “mutazione genetica e geografica della natura elettorale”. Le elezioni del 1987 avevano indicato che era in corso un profondo cambiamento nella base sociopolitica del partito, che perdeva nelle zone industriali, crollava nelle zone ‘rosse’ e avanzava in quasi tutto il sud. Non era più il partito dei tempi di Nenni, vivo, turbolento, caratterizzato però da un intenso dibattito interno, dove era consistente la “presenza di operai, artigiani, intellettuali”. Questo dato di fatto era la conseguenza di una continua presenza al governo e di una “sistematica massiccia occupazione dei posti di sottogoverno”. Il risultato era stato che “i più prestigiosi intellettuali” del paese, quasi tutti di area socialista, erano stati costretti, “per ostilità o indifferenza”, ad abbandonare il Psi. Da Antonio Giolitti a Furio Diaz, da Vittorio Foa a Paolo Sylos Labini, centinaia di personalità di area socialista erano state invitate a fare posto a una “ristretta nomenklatura di spregiudicati yes-man”[23]. Mentre attaccava pesantemente il Psi, il giornale, nel contempo, riorientò anche i suoi obbiettivi politici. In gennaio Scalfari aveva scritto che era poco probabile che i quattro partiti che costituivano il governo Andreotti non riconquistassero la maggioranza. All’inizio di marzo, invece, il giornale illustrò ai lettori un progetto politico per il dopo elezioni fondato su di un risultato elettorale che facesse mancare alla maggioranza uscente i numeri necessari per ricostituire un governo. In tale caso i partiti di opposizione ritenuti più ‘costruttivi’, il Pds e il Pri, avrebbero potuto imporre, come condizioni per l’appoggio a un nuovo esecutivo, la riforma delle istituzioni e della politica economica.
Il costituzionalista Andrea Manzella (già collaboratore di Ugo La Malfa e di Giovanni Spadolini, repubblicano) scrisse che di fronte ai quattro partiti del 53 per cento dello “scombinato governo” c’erano due opposizioni. Una era l’opposizione “di protesta”. L’altra era l’opposizione che aveva il compito non solo di protestare ma anche di costruire, ed era composta da due soli partiti: il Pri, con la sua cultura di governo, e il Pds, con il suo faticoso rinnovamento post-comunista, ma anche con il suo “impegno contro le prevaricazioni sulla Costituzione” e con il suo “patriottismo di partito”. Il costituzionalista riconobbe che si trattava di partiti diversissimi e tendenzialmente conflittuali, ma tuttavia uniti “di fronte a una straordinaria occasione di cambiamento nella democrazia repubblicana”. Se la sera del 6 aprile il risultato dei ‘quattro’ fosse stato sotto il cinquanta per cento, il potere di governo sarebbe infatti “passato di mano”. Se Pds e Pri fossero diventati necessari per governare, avrebbero potuto imporre riforme delle istituzioni e della politica economica. Era infatti illusoria l’alternanza tra blocchi di partiti contrapposti, che erano inesistenti, ma era concreta l’alternativa nel potere di condizionare il governo del Paese[24].
Anche Mino Fuccillo sostenne che le future elezioni offrivano la possibilità concreta del cambiamento, qualora i partiti di La Malfa e Occhetto avessero ottenuto dei buoni risultati[25]. Le riforme istituzionali furono un altro tema utilizzato dalla “Repubblica” per criticare la Dc e il Psi. Manzella sottolineò “le resistenze conservatrici” alle riforme da parte di democristiani e socialisti, ritenuti responsabili della “difesa ad oltranza del sistema preferenziale e della proporzionale”. Il Psi, in particolare, si era caratterizzato per l’ostruzionismo alla politica riformista, dal veto alla elezione diretta dei sindaci nel 1990 alla lotta contro i referendum elettorali del 1991[26]. Democristiani e socialisti erano quindi, per il giornale, incapaci di risanare l’economia, di moralizzare la vita politica e costituivano anche un ostacolo al miglioramento delle istituzioni.
Se il dichiarato obbiettivo della “Repubblica”, a partire dal mese di marzo, fu di far perdere la maggioranza alla coalizione del quadripartito, il deciso appoggio al patto Segni rimase un punto fermo nel corso di tutta la campagna elettorale. Nonostante che quel progetto politico avesse come oggetto solo le riforme dei sistemi elettorali e altri argomenti di carattere istituzionale e potesse, quindi, incidere esclusivamente su tali temi, l’iniziativa del deputato democristiano venne presentata come capace di avere un peso determinante sulla futura legislatura. Giovanni Valentini, il 10 marzo, scrisse che si trattava di un fatto inedito nella storia politica italiana. I firmatari del patto erano candidati che appartenevano a un ampio ventaglio di partiti, poiché, oltre a Segni e ad altri esponenti democristiani, vi avevano aderito ufficialmente il Pds, il Pri, i Verdi e la Rete, nonché, a titolo personale, alcuni liberali. Disponendo di un consistente numero di parlamentari, il patto era destinato a condizionare il Parlamento futuro, in quanto i suoi firmatari si erano impegnati a sostenere la riforma elettorale “anche al di là della disciplina interna”, e quindi, nel caso che il quadripartito fosse riuscito a conservare la maggioranza, gli eletti del patto sarebbero stati la sua “spina nel fianco”[27].

Dall’omicidio di Salvo Lima alle votazioni

Salvo Lima

Salvo Lima

Il 12 marzo si verificò un grave fatto di sangue, l’uccisione a Palermo dell’europarlamentare democristiano Salvo Lima. L’assassinio di Lima dette alla “Repubblica” l’occasione di ripetere i suoi giudizi sulla Dc e, in particolare, su Andreotti. Per Scalfari le motivazioni di quanto avvenuto erano sufficientemente chiare e riconducibili alla contiguità con la mafia di significative parti del sistema di potere democristiano in Sicilia. La causa dell’assassinio non era dovuta al fatto che Lima costituiva una minaccia per la criminalità organizzata, come era stato per le uccisioni di Terranova, La Torre, Dalla Chiesa e tanti altri. La mafia colpiva anche chi, avendo avuto “legami familiari e tradizionali con la Cupola”, se ne era affrancato e ne era diventato avversario, oppure uccideva per un regolamento di conti al proprio interno derivante dalla lotta fra le cosche o dall’emergere di forze nuove e di nuovi capi. Lima, da sempre “proconsole di Andreotti in Sicilia”, aveva indubbiamente avuto contiguità con la mafia[28]. Anche Giorgio Bocca attaccò con forza la Dc per le complicità che la legavano alla malavita organizzata. Il quadro che si ricavava dall’esame della situazione del sud Italia era gravissimo in quanto il “nuovo blocco storico” fra politici e malavita era alla luce del sole e ostentava “contiguità, complicità, immunità”. In vari decenni di potere senza opposizione e senza alternanza, i partiti di governo si erano convinti che la democrazia, lo Stato, la giustizia, l’economia e la finanza pubblica erano un “impasto di politica e di malavita, di legalità e di illegalità” e stavano conducendo la campagna elettorale basandosi su questa certezza[29].
Secondo il sociologo e studioso della mafia Pino Arlacchi, sulla figura di Salvo Lima era più che sufficiente quanto descritto dai documenti giudiziari, da relazioni della commissione parlamentare antimafia e da mafiosi pentiti di provata attendibilità, e cioè che si trattava di “un uomo politico immerso nelle dinamiche più interne del potere mafioso in Sicilia lungo l’arco degli ultimi trent’anni”. Egli avrebbe così finito con l’essere vittima delle “normali e feroci logiche del ricambio dell’élite di comando” che si svolgevano in quei contesti[30].
Nell’ultima parte della campagna elettorale “la Repubblica” ribadì le critiche al sistema di potere dei partiti, che si basava sullo scambio di favori, finanziati dal deficit del bilancio e dalla crescita del debito pubblico. Il giornale non dette mai un esplicito consiglio di voto a favore di un determinato partito, insistendo peraltro nell’appoggio ai candidati del patto Segni. Affermò tuttavia con trasparenza che il suo progetto politico implicava che i due partiti che maggiormente avrebbero potuto indirizzare in senso positivo gli sviluppi futuri della politica italiana erano il Pds e il Pri. Se la maggioranza quadripartita fosse andata “sotto il 50 per cento”, essa avrebbe infatti avuto bisogno del sostegno di altre forze per governare. Repubblicani e Pds sarebbero stati disponibili, secondo Scalfari, a queste condizioni: 1) formazione di un governo sorretto in Parlamento dai partiti che ne accettavano il programma, ma non composto dalla nomenklatura dei partiti stessi. Composizione del governo fondata, invece, su uomini adeguati, senza alcun riguardo alle tessere che avevano in tasca e nessuna contrattazione preventiva con le segreterie dei partiti che appoggiavano il programma, in applicazione rigorosa dell’articolo 92 della Costituzione; 2) misure urgenti di risanamento finanziario, riforma fiscale in linea con l’obbiettivo di non gravare ulteriormente la mano sul lavoro dipendente, contenimento della spesa pensionistica, snellimento del costo del lavoro; 3) riforma della legge elettorale in senso maggioritario e uninominale[31].
Nei giorni immediatamente antecedenti al voto il giornale dedicò particolare attenzione alla campagna elettorale di Giorgio La Malfa, segretario del Pri. Fuccillo scrisse che sul Pri, il cui risultato si prevedeva potesse raggiungere il 6 per cento, convergeva un tipo di consenso, aggiuntivo rispetto a quello tradizionale, che poteva indurre elettori dei partiti di maggioranza, soprattutto democristiani, ma anche socialisti, “a portare i loro voti fuori dal recinto del quadripartito”. Era sufficiente che una piccola percentuale, “un due per cento al massimo”, di votanti tradizionalmente democristiani cambiassero idea o, al contrario, restassero fedeli alla Dc perché le elezioni segnassero la sconfitta o la conferma della coalizione al governo[32]. L’appoggio della “Repubblica” al partito di La Malfa è spiegabile col fatto che il Pri era sostanzialmente funzionale al progetto del giornale in quanto si era collocato all’opposizione già dal mese di aprile del 1991 e raccoglieva in quel momento la simpatia di alcuni importanti industriali. Si aggiunga inoltre che l’europeismo di quel partito era indiscutibile, che alcuni punti delle proposte di La Malfa in tema di rigore nella politica di bilancio coincidevano con quelle di Scalfari, che Spadolini era una delle personalità politiche più gradite alla Confindustria e che esponenti influenti del Pri, Ferrara, Manzella e Visentini, collaboravano al giornale.
“La Repubblica” dedicò una rilevante attenzione anche alle ultime battute della campagna elettorale del Pds, mettendone soprattutto in risalto la fortissima polemica più che contro la Dc, contro il Psi.
Con le elezioni del 5 e 6 aprile 1992 la politica italiana, dopo decenni di stabilità elettorale, subì in effetti una specie di scossa sismica. La Dc perse quasi il 5 per cento passando dal 34,3 per cento delle precedenti politiche del 1987 al 29,7 per cento. Il Psi si attestò al 13,6 per cento con una perdita dello 0,7 per cento. Il Psdi perse lo 0,3 per cento, mentre del quadripartito il solo Pli guadagnò lo 0,7 per cento. La coalizione di governo, che partiva da un 53,7 per cento dei voti, scese sotto il 50 per cento. Il Pds ottenne il 16,1 per cento e Rifondazione comunista il 5,6 per cento. La Lega Nord si attestò all’8,7 per cento, l’Msi al 5,4 per cento, il Pri al 4,4 per cento, i Verdi al 2,8 per cento, la Rete all’1,9 per cento, la lista Pannella all’1,2 per cento. I risultati furono, tuttavia, inferiori alle aspettative del giornale. Il Pri aumentò solo dello 0,7 per cento e la perdita del Pds fu consistente. Soprattutto, nonostante il significativo calo di voti (sotto il 50% nel complesso, come abbiamo visto) il quadripartito mantenne una pur modesta maggioranza assoluta in seggi in entrambe le Camere: 331 su 630 alla Camera, 163 su 315 elettivi al Senato.
Nel suo commento Mino Fuccillo sostenne che la maggioranza che aveva governato l’Italia era stata “respinta e battuta dagli elettori”, ma liquidò sinteticamente quell’elemento decisivo per il futuro scenario politico: che il quadripartito, risultato nelle urne in minoranza, aveva comunque ottenuto la maggioranza, pur risicata, dei seggi[33]. Eugenio Scalfari, dal canto suo, non fece il benché minimo accenno a quello che tutto era meno che un dettaglio, limitandosi a rimarcare il fatto che la maggioranza uscente era divenuta minoranza nelle urne.

Dall’autocandidatura di Segni alla nascita del governo Amato

Giuliano Amato

Giuliano Amato

Nonostante l’insufficiente risultato del Pri e del Pds e la riconferma della maggioranza dei seggi a Dc, Psi, Psdi e Pli, l’atteggiamento post elettorale della “Repubblica” rimase inalterato rispetto alla linea dei mesi precedenti. Il giornale continuò, infatti, a insistere sulla tesi della sconfitta politica del quadripartito e sulla necessità di un governo nuovo di più ampie convergenze e non lottizzato dalle segreterie dei partiti.
Il 10 aprile “la Repubblica” dette la notizia che Mario Segni si candidava per la guida del governo. Il leader referendario precisava che non avrebbe aperto “trattative con i partiti” e ipotizzava un “governo riformatore di transizione”, in grado di realizzare un programma “essenziale” che portasse l’Italia verso una democrazia dell’alternanza. Egli non proponeva pertanto una “formula di governo” o un’“alleanza strategica”, perché la vecchia maggioranza era stata sconfitta alle elezioni e una nuova coalizione sarebbe potuta nascere solo dopo la riforma elettorale. Gli obbiettivi programmatici prioritari sui quali Segni avrebbe ricercato i consensi in Parlamento sarebbero stati l’approvazione di nuove leggi elettorali fondate sul sistema uninominale maggioritario e sull’elezione diretta del sindaco, lo ’“smantellamento degli strumenti del potere partitocratico”, partendo dalle unità sanitarie locali, dalla Rai e dalle aziende a partecipazione statale, l’inizio di una “coraggiosa operazione di risanamento finanziario,” accompagnata da drastiche misure contro la corruzione, un piano di emergenza per combattere radicalmente l’“intollerabile dominio della criminalità mafiosa” in Sicilia, in Calabria e in Campania. Il leader referendario motivava la sua decisione affermando che il 5 aprile gli italiani avevano “mandato un segno inequivocabile” contro la partitocrazia e che la spinta che veniva dall’elettorato imponeva comportamenti coerenti a favore delle riforme[34].
“La Repubblica” appoggiò la candidatura di Segni e dette spazio ai commenti di chi si era dichiarato ad essa favorevole, pur registrando che la maggior parte delle forze politiche era silenziosa o apertamente contraria[35]. Il 13 aprile Ferdinando Adornato, facendo il punto della situazione sulla proposta Segni, valutò come “estremamente preoccupanti” le risposte, definite “distratte o infastidite”, che quasi tutti, salvo La Malfa e Orlando, avevano riservato alla candidatura del leader referendario alla guida del governo[36]. Con l’insistente campagna a favore della candidatura di Segni a presidente del Consiglio, “la Repubblica” intendeva quindi fare pressione sui vertici della Dc e del Pds per convincerli che un governo presieduto dal leader referendario sarebbe stato utile per entrambi. La Dc, partito di maggioranza relativa, avrebbe avuto un proprio esponente a gestire una delicata fase di transizione verso un sistema politico ‘bipolare’. Il Pds avrebbe avuto l’occasione di entrare in una maggioranza di governo con la coscienza tranquilla nei confronti del suo elettorato, e non si sarebbe così trovato nella necessità di dare l’adesione a un progetto politico globale, ma solo di dare la propria collaborazione in una fase di emergenza istituzionale ed economica.
Il giornale non considerava, tuttavia, che mancavano le condizioni perché l’incarico di formare il governo fosse attribuito a Mario Segni. Seppur sostenuto da molti intellettuali e da alcuni industriali, le sue chances erano infatti scarsissime: ciò non solo perché il quadripartito era numericamente autosufficiente e non intendeva rinunciare a dar vita a un esecutivo ‘lottizzato’ secondo le prassi consolidate. La debolezza politica del leader referendario era conseguente anche ad altri fattori. Egli era in netta minoranza nella Dc e aveva l’opposizione del Psi. La maggior parte del Pds, per di più, nutriva riserve nei suoi confronti. Infine Segni non aveva esperienze di governo, circostanza che apparve rilevante in una congiuntura economica particolarmente delicata.
Lo spazio che il giornale dedicò al leader referendario diminuì comunque significativamente a partire dagli ultimi giorni di aprile. Gli eventi successivi, nel corso dei quali Segni dimostrò di non possedere le capacità decisionali e il carisma necessari per assumere un ruolo di primo piano nella politica italiana, confermarono che “la Repubblica” lo aveva sopravvalutato[37].
Il 13 maggio iniziarono le votazioni per l’elezione del nuovo capo dello Stato. Secondo Scalfari il Psi puntava all’obbiettivo di dirigere il governo e per questo motivo desiderava un presidente della Repubblica democristiano, patteggiando in anticipo “l’investitura” del futuro presidente del Consiglio. Se questo gioco di spartizione fosse riuscito, il paese sarebbe riprecipitato in pieno “nel regno della nomenklatura”, con una divaricazione fortissima fra istituzioni e paese. Invece che muovere un “primo passo verso il nuovo”, l’Italia avrebbe assistito a una battaglia di retroguardia delle “vecchie strutture” per non scomparire e a un’ondata di trasformismo che avrebbe sommerso il poco che restava ancora in piedi delle istituzioni repubblicane. Perciò i “settori del Parlamento” che respingevano la prospettiva del patteggiamento fra Dc e Psi non avrebbero avuto altra alternativa valida che convergere su una personalità istituzionale, “capace di esercitare un ruolo di alta garanzia e di accompagnarlo con un magistero morale” del quale aveva già dato in passato ripetute prove. Il direttore affermò che la persona che possedeva questi requisiti era il presidente del Senato Spadolini. Il suo nome poteva incontrare diversi livelli di gradimento e quindi poteva piacere molto o poco, ma egli era il solo che poteva contrapporsi a candidature che nascevano da “pattuizioni partitocratiche”[38].
Nel corso delle votazioni furono molte le candidature proposte e fallite: fra di esse anche quella del segretario Dc Arnaldo Forlani, bruciato da numerosi franchi tiratori del suo stesso partito. Il 23 maggio, mentre si era svolta a Montecitorio una quindicesima votazione senza esito, avvenne la strage di Capaci, presso Palermo: il magistrato antimafia Giovanni Falcone fu ucciso insieme alla moglie e a tre agenti della scorta. La strage determinò la direzione degli eventi. Scalfari lamentò che nel corso delle votazioni per la presidenza della Repubblica si fossero “persi giorni in balletti inverecondi”. Si stava arrivando alla soluzione istituzionale, ma purtroppo si disputava ancora se fosse più utile “per i futuri equilibri partitocratici” liberare la presidenza della Camera eleggendo Scalfaro o quella del Senato eleggendo Spadolini[39].
Il 25 maggio, dopo tredici giorni di votazioni, venne eletto presidente della Repubblica il cattolico Scalfaro, parlamentare dal 1946. Il commento del giornale al primo messaggio pronunciato il 28 maggio da Scalfaro fu particolarmente positivo[40]. Il 3 giugno Napolitano fu eletto alla presidenza della Camera in sostituzione di Scalfaro e “la Repubblica” espose con toni elogiativi la biografia politica del neoeletto[41]. Si poteva quindi procedere alle consultazioni per la formazione del governo. Il 4 giugno il giornale mosse a Craxi un pesante attacco, che continuò anche nei giorni successivi[42]. Le grandi trasformazioni previste dalla “Repubblica” in campagna elettorale non si erano realizzate e, perciò, l’unico obbiettivo concretamente raggiungibile diventava, al momento, quello di impedire che l’incarico di formare il governo fosse attribuito a Craxi, già fortemente indebolito dalle notizie provenienti dalle indagini milanesi sulla corruzione politica e, in particolare, a seguito della pubblicazione delle dichiarazioni di Mario Chiesa ai magistrati inquirenti[43]. Secondo il direttore il capo dello Stato stava cercando correttamente di saggiare la possibilità di una maggioranza parlamentare “possibilmente ampia e possibilmente solida”. Scalfaro aveva dovuto tuttavia constatare che una maggioranza “ampia e solida” nel Parlamento non esisteva. C’era solo il vecchio quadripartito, con pochissimi voti di scarto. Occorreva tuttavia evitare di ricorrere a un leader che esasperasse gli animi, mentre nel frattempo la magistratura inquirente, procedendo nella sua strada a Milano, ma ormai non più soltanto a Milano, sarebbe arrivata a coinvolgere il “cuore del sistema ed i suoi protagonisti partitocratici”, come appariva evidente a tutti. La sola “alternativa possibile” per il presidente della Repubblica sarebbe stata di scegliere un uomo che fosse “il meno compromesso con Tangentopoli e il meno possibile legato alla vecchia nomenklatura”. La scelta sarebbe dovuta avvenire in uno dei due partiti della vecchia maggioranza, nella Dc o nel Psi, nei quali, fortunatamente, con quelle caratteristiche qualcuno c’era. Si sarebbe trattato di un “compromesso tra il vecchio e il nuovo”, ma un compromesso era inevitabile in una fase di transizione nella quale la democrazia poteva correre dei pericoli nello “stretto sentiero tra il trasformismo, il ladrocinio di Stato e la tentazione dell’avventura”[44].
Il 18 giugno “la Repubblica” dette la notizia che il segretario del Psi aveva annunciato a Scalfaro il suo ritiro dalla corsa per Palazzo Chigi. Mino Fuccillo scrisse che Craxi aveva dovuto rinunciare poiché si era reso conto di essere divenuto politicamente “debole”. Dopo numerose “batoste”, la sua non era più l’immagine del “capo vittorioso” per il quale i subalterni erano disposti a combattere battaglie disperate. Il segretario socialista aveva finalmente avuto la lucidità di capire che “il gioco era finito” e che era arrivato il suo turno, dopo quello di Forlani e Andreotti, di farsi da parte[45]. Il giornale aveva quindi operato una ‘correzione di rotta’, avendo preso atto con realismo che il ‘terremoto’ elettorale, pur avendo significativamente contribuito alla sconfitta del centro di potere costituito da Craxi, Andreotti e Forlani, non era stato di entità tale da modificare radicalmente gli equilibri esistenti.
Il giorno dopo Scalfaro incaricò Amato di formare il governo. Occhetto e La Malfa confermarono l’opposizione dei rispettivi partiti[46], e così il nuovo esecutivo nacque come quello precedente, quadripartitico.  Il 28 giugno Amato presentò la lista dei ministri del suo governo. Il presidente del Consiglio aveva spiegato le novità del suo primo gabinetto, consistenti in una riduzione del numero dei ministri, da trentuno a venticinque, nell’accorpamento di ministeri, nell’equilibrio tra parlamentari e non parlamentari e nella parziale rotazione in base a criteri di anzianità. Secondo Barbara Palombelli, Scalfaro aveva almeno ottenuto di eliminare i nomi “chiacchierati” e di rimuovere dai ministeri “le solite facce, quelle che la gente non voleva più vedere”[47]. Eliminata la candidatura di Craxi, il giornale non bocciò pregiudizialmente l’incarico ad Amato e ne accreditò l’immagine di intellettuale di sicura moralità e di profonda conoscenza dei meccanismi di governo[48]. La posizione della “Repubblica” nei confronti del governo diventò di approvazione quando il presidente del Consiglio riuscì a far concludere alle parti sociali, il 31 luglio, la vertenza sul costo del lavoro[49]. Il nuovo capo del Governo, anche per l’indebolimento dei partiti causato dal procedere dell’inchiesta ‘mani pulite’, appariva credibile per la realizzazione di alcuni degli obbiettivi che “la Repubblica” aveva indicato come condizioni irrinunciabili per non uscire dal processo di integrazione europea, e cioè il taglio della spesa pubblica e l’eliminazione degli automatismi salariali.

Conclusioni

Durante la campagna elettorale “la Repubblica” aveva dunque perseguito l’obbiettivo di indebolire la Dc e il Psi, partiti ritenuti privi ormai di riferimento etico-politico, corrosi dai particolarismi sociali da loro stessi alimentati e quindi incapaci di ridurre la spesa pubblica. Il Psi era stato il bersaglio principale delle critiche del giornale, che lo aveva identificato con la figura di Craxi e sembrava considerarlo ormai strutturalmente inidoneo a una politica dotata del minimo necessario rigore morale. “La Repubblica” non prese neanche in esame se il Psi si sarebbe potuto evolvere positivamente nel caso di un ricambio al vertice. L’invito implicito ai socialisti che non condividevano la condotta del loro partito era quello di lasciarlo. Quanto al Pli e al Psdi, essi furono quasi ignorati e comunque considerati solo stampelle dell’asse Dc-Psi. “La Repubblica” aveva dato poco spazio anche alla Lega, limitandosi a condannarne la demagogia populista, l’esclusiva natura di movimento di protesta e l’incompetenza a governare. Le ragioni della crescente propensione per quel movimento da parte di vaste aree della società dell’Italia settentrionale furono del tutto trascurate. Non si può peraltro escludere che a motivare la scarsa attenzione fosse stata anche la valutazione che, scrivendo sulla Lega, la si sarebbe potuto favorire elettoralmente. La medesima motivazione potrebbe essere stata alla base della scarsa attenzione dedicata a Rifondazione comunista, il cui risultato avrebbe inevitabilmente condizionato la linea politica del Pds.
Alla luce dei dati dell’inizio del 1992 il rischio di non entrare in Europa era grande. La situazione finanziaria del paese, come ripetutamente denunciato dal direttore e da altri commentatori, era assai grave, con un deficit del bilancio, un tasso d’inflazione e un tasso d’interesse molto lontani da quelli fissati dal trattato di Maastricht. Il mancato ingresso in Europa era considerato dal direttore e dagli opinionisti del giornale, accomunati da un orientamento decisamente europeistico, una catastrofe politica, culturale ed economica. Per dare un’evoluzione positiva alla crisi italiana occorreva che il sistema politico italiano diventasse bipolare. La riforma dei sistemi elettorali era perciò ritenuta indispensabile per costruire, come negli altri paesi europei, una democrazia dell’alternanza, ormai possibile dopo la deideologizzazione del Pds. Da qui l’appoggio al patto Segni.
Mentre sosteneva l’iniziativa trasversale del deputato democristiano, “la Repubblica” si era impegnata anche perché il risultato elettorale non desse alla maggioranza uscente i numeri necessari per ricostituire un governo. Se il quadripartito avesse perso la maggioranza, il Pds e il Pri avrebbero potuto imporre le loro condizioni per l’appoggio a un nuovo esecutivo. Il giornale aveva indicato i punti programmatici e le modalità di formazione di un governo, appoggiato dai partiti ma senza la loro partecipazione diretta, che avesse il consenso anche del Pds e del Pri. Quel tipo di governo sarebbe dovuto rimanere in carica il tempo necessario per il risanamento economico. Successivamente ci sarebbe stato il ritorno alle urne, ma non prima del varo di un sistema elettorale che costringesse le forze politiche a un processo di disgregazioni e aggregazioni in direzione di un sistema politico bipolare.
Il punto debole di questa strategia non stava nel ragionamento astratto, ma nella concreta possibilità che il ragionamento si trasformasse in realtà. Il progetto rimase comunque sulla carta e non dovette subire la prova dei fatti poiché il quadripartito mantenne l’autosufficienza numerica. Si possono tuttavia formulare su quel progetto alcune considerazioni critiche. Occorre in primo luogo rilevare che il giornale ritenne che la perdita della maggioranza da parte del quadripartito sarebbe potuta avvenire per una significativa crescita del Pri a scapito della Dc. La realizzazione dell’obbiettivo fu legata anche alla possibilità che il Pds, che aveva reciso i legami con l’eredità comunista e che avrebbe certamente avuto grosse perdite a sinistra, riuscisse a sottrarre una certa quantità di voti al Psi. I risultati furono di gran lunga inferiori alle previsioni del giornale. Il Pri aumentò solo dello 0,7 per cento e il Pds scese al 16,1 per cento. I repubblicani, pur sostenuti dalla maggior parte dei mezzi di comunicazione che si rivolgevano all’opinione pubblica moderata, continuarono ad avere, come in precedenza, scarsa capacità di attrazione nei confronti di coloro che votavano Dc. Buona parte dell’elettorato democristiano moderato conservava, nonostante il crollo del comunismo, la paura del ‘salto nel buio’, o diffidava comunque di un partito laico con un’immagine prevalentemente tecnocratica ed elitaria quale il Pri. Si aggiunga che i piccoli e medi imprenditori, tradizionale base di consenso del partito di maggioranza relativa, erano abituati al lassismo fiscale della Dc e temevano un possibile maggior rigore in tema di tassazione da parte dei repubblicani.
Anche il travaso di voti dai socialisti al Pds si rivelò, a ben vedere, problematico: com’era prevedibile proprio per i motivi che “la Repubblica” stessa aveva evidenziato nel corso della campagna elettorale, e cioè da un lato per la mutazione genetica che il Psi aveva subito con la segreteria Craxi, diventando un partito prevalentemente clientelare, e dall’altro lato per lo scarso carisma del segretario del Pds Occhetto. Inoltre, anche ammesso che i partiti della ex maggioranza avessero rinunciato alla spartizione degli incarichi ministeriali, non era affatto certo che il vertice del Pds sarebbe stato disponibile a convergere su di un programma comune insieme al Pri e alle forze del quadripartito. È infine da evidenziare che l’incondizionato appoggio della “Repubblica” a Mario Segni e al suo ‘patto’ fu palesemente incoerente con il punto da cui partiva il progetto del giornale. La precondizione necessaria di una svolta positiva per il paese era che il quadripartito diventasse minoranza, ma Segni era un deputato democristiano che si ricandidava nelle liste di quel partito, e fra i candidati del ‘patto’ ce n’erano una novantina nella Dc e altri nel partito liberale. Votare esprimendo la preferenza per tali candidati nella Dc e nel Pli significava dare voti al quadripartito, ovvero l’esatto contrario di quello che “la Repubblica” invitava a fare.
Il giornale, nel corso della campagna elettorale, sostenne costantemente che la partitocrazia traeva alimento dai sistemi proporzionali. Oltre ad esprimersi, in termini peraltro piuttosto vaghi, per un sistema elettorale che promuovesse il bipolarismo e l’alternanza, il giornale affrontò anche il tema delle ulteriori riforme istituzionali da realizzare, dichiarando la propria preferenza per un rafforzamento del ruolo dell’esecutivo. All’asserita necessità del superamento delle leggi elettorali proporzionali non corrispose, tuttavia, alcuna indicazione o previsione, né prima né dopo le elezioni, su come i partiti in quel momento esistenti si sarebbero potuti disaggregare e riaggregare nel futuro sistema bipolare.

Note


[1] Si vedano S. Colarizi, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, Bari, Laterza, 1996; P. Craveri, La repubblica dal  1958 al 1992, Torino, Utet, 1995; G. Galli, Mezzo secolo di Dc, 1943-1993, Milano, Rizzoli, 1993 e I partiti politici italiani (1943-2004), Milano, Rizzoli, 2010; P. Ginsborg, L’Italia del tempo presente, Torino, Einaudi, 2007; G. Mammarella, L’Italia contemporanea 1943-2007, Bologna, Il Mulino, 2008.
[2] E. Scalfari, Se Segni si muove qualcosa accadrà, in “la Repubblica”, 5 gennaio 1992.
[3] P. Flores d’Arcais, Da Brescia a Milano, in “la Repubblica”, 4 gennaio 1992.
[4] E. Scalfari, Il castello di Kafka è cinto d’assedio, in “la Repubblica”, 2 febbraio 1992.
[5] B. Visentini, Un governo senza partiti, in “la Repubblica”, 17 gennaio 1992.
[6] Stalin lo vuole, in “Panorama”, 9 febbraio 1992.
[7] E. Scalfari, Il Migliore non li aiutò il Peggiore ce li mandò, in “la Repubblica”, 5 febbraio 1992.
[8] G. Bocca, Dimenticare Hitler, in “la Repubblica”, 6 febbraio 1992.
[9] G. Rocca, Una pagina allucinante, in “la Repubblica”, 15 febbraio 1992.
[10] A. Ronchey, Mutazioni genetiche sotto la quercia, in “la Repubblica”, 26 febbraio 1992.
[11] Il fattore K era, per Ronchey, il motivo della mancata alternanza al governo delle forze politiche nell’Italia del secondo dopoguerra. L’alternanza era impedita dal fatto che il Partito comunista, principale forza di opposizione, per ragioni di equilibri internazionali non poteva fare parte dell’esecutivo. Vedasi A. Ronchey, La sinistra e il fattore K, in “Corriere della Sera”, 30 marzo 1979.
[12] E. Scalfari, L’Italia è stanca, il voto è mobile, in “la Repubblica”, 21 febbraio 1992.
[13] M. Riva, I ministri distratti, in “la Repubblica”, 21 febbraio 1992.
[14] C. Sasso, Il notabile Psi aveva la tangente nel cassetto, in “la Repubblica”, 19 febbraio 1992.
[15] G. Bocca, La mediocre avventura di “un pollo”, in “la Repubblica”, 19 febbraio 1992.
[16] V. Testa, Ma Milano non si stupisce più, in “la Repubblica”, 25 febbraio 1992.
[17] P. Colaprico, L. Fazzo, Milano, nuovo arresto. S’allarga il caso Chiesa, in “la Repubblica”, 3 marzo 1992.
[18] P. Melati, Con il Pds, da socialista europeo, in “la Repubblica”, 3 marzo 1992.
[19] M. Monti, L. Spaventa, Quanto costerà entrare in Europa, in “la Repubblica”, 27 febbraio 1992. L’appello dei due economisti fu pubblicato contemporaneamente anche sul “Corriere della Sera”.
[20] A. Reichlin, Io dico basta al reaganismo all’italiana, in “la Repubblica”, 29 febbraio 1992.
[21] E. Scalfari, Quella legge di padre ignoto, in “la Repubblica”, 1 marzo 1992.
[22] Si trattava prevalentemente di dichiarazioni di esponenti della cosiddetta ‘ala migliorista’ del partito facente capo a Giorgio Napolitano.
[23] G. Corbi, Dc-Psi, da 30 anni sposi, in “la Repubblica”, 4 marzo 1992.
[24] A. Manzella, E neanche il 5 aprile andremo al mare, in “la Repubblica”, 5 marzo 1992.
[25] M. Fuccillo, Tre maggioranze nell’urna di aprile, in “la Repubblica”, 5 marzo 1992.
[26] A. Manzella, Un comunista sul ring delle riforme, in “la Repubblica”, 18 marzo 1992.
[27] G. Valentini, Ora è nato il partito che non c’era, in “la Repubblica”, 10 marzo 1992.
[28] E. Scalfari, Chi c’è dietro quella pistola, in “la Repubblica”, 14 marzo 1992.
[29] G. Bocca, Onorevole Forlani, le risulta che?, in “la Repubblica”, 14 marzo 1992.
[30] P. Arlacchi, La campagna di Cosa Nostra, in “la Repubblica”, 17 marzo 1992.
[31] E. Scalfari, La patacca dei Bot congelati, in “la Repubblica”, 2 aprile 1992.
[32] M. Fuccillo, Tutto in un milione di voti, in “la Repubblica”, 29 marzo 1992.
[33] M. Fuccillo, Il referendum punisce quei quattro, in “la Repubblica”, 7 aprile 1992.
[34] S. Messina, Segni si candida per Palazzo Chigi, in “la Repubblica”, 10 aprile 1992.
[35] S. Messina, Il Palazzo snobba Segni presidente, in “la Repubblica”, 11 aprile 1992.
[36] F. Adornato, E perché non Segni, in “la Repubblica”, 13 aprile 1992.
[37] Sul patto Segni cfr. S. Colarizi, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, cit., p. 704. L’autrice, dopo avere messo in evidenza che la Dc si sentì apertamente sfidata dal leader referendario, ricorda che il patto Segni, alla prova dei fatti, nell’undicesima legislatura “finirà per dissolversi rapidamente”.
[38] E. Scalfari, La coda del vecchio regime, in “la Repubblica”, 15 maggio 1992.
[39] E. Scalfari, Ai Signori del Parlamento, in “la Repubblica”, 25 maggio 1992.
[40] Dio l’assista, ne ha bisogno, in “la Repubblica”, 29 maggio 1992.
[41] Ambasciatore del partito in occidente, in “la Repubblica”, 4 giugno 1992.
[42] Addio Palazzo Chigi?, in “la Repubblica”, 4 giugno 1992.
[43] L’ex presidente del Pio Albergo Trivulzio aveva raccontato che nella primavera del 1990 aveva barattato con Craxi la riconferma nella carica alla ‘Baggina’ con l’appoggio alla candidatura del figlio Bobo e che quindi, a seguito di questo accordo, aveva impiegato mezzi politici, di struttura ed economici a sostegno di Bobo Craxi. Vedasi P. Colaprico, L. Fazzo, “Bettino, se tu mi aiuti …”, in “la Repubblica”, 4 giugno 1992.
[44] E. Scalfari, Scalfaro alla guerra d’Algeria, in “la Repubblica”, 14 giugno 1992.
[45] M. Fuccillo, Il tramonto di Sansone, in “la Repubblica”, 18 giugno 1992.
[46] S. Bonsanti, “Governo Amato? No grazie”, in “la Repubblica” 23 giugno 1992.
[47] B. Palombelli, Ghigliottina al Quirinale e saltano nomi e poltrone, in “la Repubblica”, 30 giugno 1992.
[48] E. Scalfari, Dottor Jekyll o mister Hide, in “la Repubblica”, 21 giugno 1992.
[49] E. Scalfari, Coraggio Amato, si può e si deve, in “la Repubblica”, 4 agosto 1992.