LA RELIGIONE DELLA LIBERTÀ

di Benedetto Croce –

Anche questo mese proponiamo uno scritto di Benedetto Croce, filosofo, storico e pensatore liberale tra i più importanti del XX secolo. Il brano è tratto dal primo capitolo della Storia d’Europa nel secolo decimonono, forse il più significativo saggio storico elaborato dal filosofo nel periodo tra le due guerre (pubblicato nel 1932). Ripercorrendo la genesi del concetto di “libertà” nella prima metà del XIX secolo, Croce illumina e chiarisce – anche ad uso del lettore di oggi -  categorie della filosofia politica come “libertà”, “democrazia”, “liberalismo”, “socialismo”, “nazionalismo” e “giustizia”.

Benedetto Croce negli anni '30.

Benedetto Croce negli anni ’30.

Alla fine dell’avventura napoleonica, sparito quel geniale despota dalla scena che tutta occupava, e mentre i suoi vincitori s’intendevano o procuravano d’intendersi fra loro e di procedere d’accordo per dare all’Europa, mercé restaurazioni di vecchi regimi e opportuni rimaneggiamenti territoriali, uno stabile assetto che sostituisse quello fortemente tenuto ma sempre precario dell’Impero della nazione francese, in tutti i popoli si accendevano speranze e si levavano richieste d’indipendenza e di libertà. E queste richieste si facevano più energiche e frementi quanto più si opponevano repulse e repressioni; e le speranze presto si ravvivavano, e i propositi si rafforzavano, attraverso le delusioni e le sconfitte.
Erano in Germania, in Italia, in Polonia, nel Belgio, in Grecia e nelle lontane colonie dell’America latina, sforzi e moti di oppresse nazioni contro dominatori e tutori stranieri; o di nazioni e di mutilate membra di nazioni costrette all’unione politica con stati che dovevano la loro origine e conformazione a conquiste, a trattati, a diritti patrimoniali di famiglie principesche; o di nazioni tenute scisse in piccoli stati, che, per siffatto sminuzzamento, si sentivano impedite, fiaccate e rese impotenti alla parte che loro spettava di esercitare nella comune vita mondiale, e mortificate nella loro dignità di fronte alle altre unite e grandi. Erano, in quegli stessi e in altri popoli, bisogni di garanzie giuridiche, di partecipazione all’amministrazione e al governo mercé istituzioni rappresentative nuove o rinnovate, di varia associazione tra cittadini per particolari fini economici, sociali e politici, di aperta discussione delle idee e degli interessi mercé della stampa, di «costituzioni», come allora si diceva; e in quelli che avevano ottenuto queste costituzioni in forma di «carte» concesse, come in Francia, necessità di assicurarle e di renderle più larghe; e in altri, infine, in cui i regimi rappresentativi già erano in atto per lunga e graduale formazione, come in Inghilterra, esigenza di togliere superstiti vincoli e disuguaglianze, e di un generale ammodernamento e razionalizzamento per un più snodato e largo modo di vita e di progresso.
Diversi gli antecedenti storici e le condizioni presenti dei vari popoli, e i loro animi e i loro costumi, quelle richieste variavano, secondo i vari paesi, nell’ordine, nella misura, nei particolari e nel tono. La precedenza era data in uno all’affrancamento dal dominio straniero o all’unità nazionale, e in un altro alla sostituzione dell’assolutismo di governo col costituzionalismo; qui si trattava di semplici riforme nell’elettorato e di estensioni della capacità politica, e là, invece, di fondare per la prima volta o su nuove basi il sistema rappresentativo; in un paese, possedendosi già per l’opera delle generazioni anteriori, e segnatamente per quella della Rivoluzione e dell’Impero, l’eguaglianza civile e la tolleranza religiosa, si prendeva a contendere per la partecipazione al governo di nuovi strati sociali, e altrove conveniva preliminarmente attardarsi a combattere privilegi politici e civili di classi feudali e persistenti forme di servaggio, e a levarsi di su le spalle l’oppressura ecclesiastica. Ma, varie d’importanza e varie nell’ordine di successione in cui si presentavano, tutte queste richieste si legavano tra loro, e le une tiravano prima o poi con sé le altre, e ne facevano sorgere altre ancora, che si profilavano in lontananza; e su tutte sormontava una parola che le compendiava e ne esprimeva lo spirito animatore: la parola «libertà».

Non era, di certo, una parola nuova nella storia, come non era nuova nella letteratura e nella poesia, e nella rettorica finanche della letteratura e della poesia. Grecia e Roma avevano tramandato le memorie d’innumeri eroi della libertà, e di gesta sublimi e di tragedie nelle quali si era, magnanimamente, per la libertà «che è sì cara», rifiutata la vita. Libertà avevano invocato i cristiani e, nei secoli, le loro chiese; libertà, i comuni contro gl’imperatori e i re, e libertà da parte loro i feudatari e baroni contro gli stessi re e imperatori, e questi a lor volta contro i baroni e i grossi vassalli e contro le comunità usurpatrici di diritti sovrani; libertà, i regni, le provincie, le città, solleciti dei propri parlamenti e capitoli e privilegi, contro le monarchie assolute che si sbarazzavano o tentavano di sbarazzarsi di questi ostacoli e limiti alla loro azione. La perdita della libertà era stata sempre considerata cagione o segno di decadenza nelle arti, nelle scienze, nella economia, nella vita morale, o che si guardasse alla Roma dei Cesari o all’Italia degli Spagnuoli e dei Papi. Pur testé, la «libertà», in compagnia dell’«eguaglianza» e della «fratellanza», aveva scosso e sparso in rovine, con la forza di un terremoto, tutto l’edificio della vecchia Francia e quasi tutto quello della vecchia Europa; e l’impressione paurosa ancora ne durava, e parrebbe avesse dovuto togliere a quel nome l’aureola di cosa bella e l’attraenza di cosa nuova. E, in effetto, il trinomio, di cui aveva fatto parte, – l’«immobile triangolo immortale della Ragione», come lo aveva chiamato il poeta Vincenzo Monti, – cadde in discredito e quasi venne in aborrimento; ma la Libertà riascese da sola sull’orizzonte, ammirata come stella d’impareggiabile fulgore. E quella parola era pronunziata dalle giovani generazioni con l’accento commosso di chi ha pur ora scoperto un concetto d’importanza vitale, rischiaratore del passato e del presente, guida nell’avvenire.
La novità del concetto onde si riempiva quell’antichissima parola non isfuggì, nonché al sentimento, alla riflessione dei contemporanei, come si vede dal problema, a cui assai presto esso diè origine, circa il carattere differenziale della libertà che era propria dei moderni rispetto a quella degli antichi greci e romani e dei recentissimi giacobini: un problema che fu proposto e trattato, tra i primi, dal Sismondi e da Beniamino Constant (che tenne sull’argomento un discorso all’Ateneo di Parigi nel 1819), ed è stato molte volte ripreso fino ai nostri giorni. Ma, se il problema aveva il suo nòcciolo di realtà, non era posto rettamente con quel contrasto di antico e di moderno, in cui da una parte stavano Grecia, Roma e la Rivoluzione francese, che avrebbe seguito gli ideali greco-romani, e dall’altra, il tempo presente: come se il presente non fosse la confluenza di tutta la storia e l’ultimo atto di essa, e si potesse, con una statica contrapposizione, spezzare quel che forma un’unica serie di svolgimento. Di conseguenza, la ricerca, che sopra l’asserito contrasto s’istituiva, correva rischio di sperdersi in astrattezze, dividendo individuo e stato, libertà civile e libertà politica, libertà del singolo individuo e libertà degli altri tutti singoli nei quali quella trova il suo limite, e via discorrendo, e assegnando agli antichi la libertà politica e non quella civile, e ai moderni la civile e non la politica, o quella politica solo in grado subordinato, o anche invertendo questi giudizi e attribuendo agli antichi maggiore libertà dell’individuo verso lo stato che non sia avuta dai popoli moderni. Errore di astrattezza che si rinnova sempre che si cerca di definire l’idea della libertà per mezzo di distinzioni giuridiche, le quali hanno carattere pratico e si riferiscono a particolari e transeunti istituti, e non a quell’idea superiore e suprema che tutti li comprende e tutti li supera.

Ricercando il contenuto di quel concetto nella storia a cui appartiene, e che è la storia del pensiero o della filosofia che si dica, la coscienza che allora si ebbe della sua novità si ritrova non esser altro che la coscienza di quel che di nuovo era sorto nel pensiero e per esso nella vita, il nuovo concetto dell’umanità e la visione della via che le si apriva dinanzi, ampia a chiara quale non era apparsa prima. Non si era pervenuti a questo concetto per caso e di un subito, e all’entrata di questa via per un salto o per un volo, ma ci si era arrivati per virtù di tutte le esperienze e le soluzioni della filosofia nel suo lavoro secolare, che sempre più avevano avvicinato la distanza e composto il dissidio tra cielo e terra, Dio e mondo, ideale e reale, e, conferendo idealità alla realtà e realtà all’idealità, ne avevano riconosciuto e inteso l’inscindibile unità, che è identità. E, dicendo della storia del pensiero e della filosofia, intendiamo insieme di tutta la storia, anche di quella che si chiama civile e politica ed economica e morale, che dà e riceve alimento dall’altra; e perciò non solo di Platone, Aristotele, Galileo, Cartesio e Kant, ma è della grecità che si pose contro la barbarie, e di Roma che incivilì i barbari stessi facendoli romani, e della redenzione cristiana, e della Chiesa che lottò contro l’Impero, e dei comuni italiani e fiamminghi nell’evo medio, e più particolarmente del Rinascimento e della Riforma che rivendicarono l’individualità nel suo duplice valore fattivo e morale, delle guerre di religione, del «lungo parlamento» inglese, della libertà di coscienza asserita dalle sette religiose nell’Inghilterra e nell’Olanda e nelle colonie americane, delle dichiarazioni che in queste ultime si fecero dei diritti dell’uomo, e di quella a cui la Rivoluzione francese diè singolare efficacia, e altresì delle scoperte tecniche e delle conseguenti trasformazioni industriali, e di tutti gli altri avvenimenti e creazioni storiche, che tutti concorsero a formare quel concetto della realtà e della umanità, e a riporre nelle cose la legge e la regola delle cose, e Dio nel mondo. Ma l’ulteriore avanzamento che si era compiuto allora, tra la fine del sette e i principi dell’ottocento, era stato più fortemente risolutivo e quasi conclusivo, perché aveva criticato il dissidio, che si era acuito nel razionalismo settecentesco e nella Rivoluzione francese, tra ragione e storia, onde s’inviliva e condannava questa al lume di quella: l’aveva criticato e risanato mercé la dialettica, che non distacca l’infinito dal finito, né il positivo dal negativo, e con ciò aveva fatto coincidere la razionalità e la realtà della nuova idea della storia, ritrovando il senso pieno del detto di Giambattista Vico, che la repubblica, cercata da Platone, non è altro che il corso delle cose umane. L’uomo, ora, non si vedeva più schiacciato dalla storia o vindice di sé stesso contro di essa e respingente lungi da sé il passato come il ricordo di un’onta; ma, vero e infaticato autore, si contemplava nella storia del mondo come in quella della sua vita medesima. La storia non appariva più deserta di spiritualità e abbandonata a forze cieche, o sorretta e via via raddrizzata da forze estranee, ma si dimostrava opera e attualità dello spirito, e, poiché spirito è libertà, suo unico ed eterno momento positivo, che solo si attua nella sequela delle sue forme e conferisce ad esse significato, e che solo spiega e giustifica l’ufficio adempiuto dal momento negativo della illibertà, con le sue compressioni, oppressioni, reazioni, reazioni e tirannie, le quali (come altresì avrebbe detto il Vico) paiono «traversie» e sono «opportunità».
Era questo il pensiero e la filosofia dell’età che s’iniziava, una filosofia che sbocciava dappertutto, che si diffondeva dappertutto, che si coglieva sulle bocche di tutti, attestata dalle strofe della poesia e dai motti degli uomini dell’azione non meno che dalle formole dei filosofi di mestiere. Trascinava dietro di sé scorie del passato, si rivestiva talvolta di vesti non confacenti, si avvolgeva e si dibatteva in contraddizioni, e tuttavia sempre si faceva strada e avanzava ogni altra. E’ dato rinvenirne le tracce anche presso gli avversari, i retrivi, i reazionari, i preti e i gesuiti; e non è senza ironia il fatto che il nuovo atteggiamento spirituale ricevesse il suo battesimo donde meno si sarebbe aspettato: dal paese che, più di ogni altro europeo, era rimasto chiuso alla filosofia e alla cultura moderne, dal paese per eminenza medievale e scolastico, clericale e assolutistico, dalla Spagna, che allora essa coniò l’aggettivo «liberal» col suo contrapposto di «servil». Anzi giova osservare ( a fin di scansare uno scoglio nel quale spesso si urta) che la filosofia di un’età, non solo non deve ricercarsi unicamente nei filosofi o nei grandi filosofi, e deve invece desumersi da tutte le manifestazioni di quell’età, ma può perfino non trovarsi o trovarsi in modo meno spiccato, appunto nei filosofi specialisti, e nei grandi tra questi. I quali sono pur sempre singole persone, e se, oltre taluni problemi del loro tempo, ne pongono e risolvono, anticipando i tempi, altri che l’età loro non sente ancora e non intende o non ben comprende, accade anche talvolta, per i limiti che ogni individuo ha, che certi problemi posti e risoluti al loro tempo non raccolgano nei loro sistemi e al luogo di essi serbino concetti invecchiati ed erronei. I grandi filosofi, come del resto gli uomini di ogni qualità, non hanno il loro posto destinato e fisso né nell’avanguardia né nella retroguardia né nel mezzo delle schiere dei contemporanei, ma a volta a volta si ritrovano in ciascuno di questi diversi posti. Anche i grandi filosofi della libera Atene, i più splendidi fiori di quella libertà, tra le agitazioni democratiche che offendevano il loro senso dell’armonia, e legati com’essi erano alla loro logica naturalistica, non si mostrarono nelle loro teorie pari a quella realtà di vita che vivevano; ma meglio calza al caso nostro l’esempio del massimo filosofo dell’età di cui discorriamo, Hegel, che più profondamente di ogni altro pensò e trattò dialettica e storia, definendo lo spirito per la libertà e la libertà per lo spirito, e tuttavia, per certe sue tendenze e teorizzamenti politici, meritò di esser designato piuttosto come «servil» che come «liberal». Tanto più alto di lui stanno per questa parte, e tanto meglio di lui rappresentano il pensiero della nuova età, ingegni filosoficamente minori o che addirittura si sogliono considerare non filosofici: per esempio, una donna, la signora di Staël.

La concezione della storia come storia della libertà aveva suo necessario complemento pratico la libertà stessa come ideale morale: ideale che, infatti, era concresciuto con tutto il pensiero e il moto della civiltà, ed era passato nei tempi moderni dalla libertà come complesso di privilegi alla libertà come diritto di natura, e da questo astratto diritto naturale alla libertà spirituale della personalità storicamente concreta; e si era fatto via via più coerente e saldo, avvalorato dalla corrispondente filosofia, per la quale quella stessa che è legge dell’essere è legge del dover essere. Negarlo non si poteva se non da coloro che in qualche modo ancora straniavano il dover essere dall’essere, conforme alle viete filosofie della trascendenza, o che di straniarlo non si avvedevano e pur questo operavano nelle loro argomentazioni. Così, per esempio, quando si obiettava che l’ideale morale della libertà non permetteva e non prometteva di scacciare il male dal mondo, e perciò non era veramente morale; e in ciò dire non si considerava che, se la moralità distruggesse il male nella sua idea, dissolverebbe sé medesima, che solo nella lotta contro il male ha realtà e vita, e solo mercé di essa si estolle. Così parimente quando si lamentava che cotesta affermazione e accettazione della lotta di continuo rinascente precludesse all’uomo la pace, la felicità, la beatitudine a cui egli sempre anela, non considerando che per l’appunto la grandezza del concetto moderno stava nell’aver convertito il senso della vita da idilliaco (e di conseguenza, elegiaco) in drammatico, da edonistico (e, di conseguenza, pessimistico) in attivo e creativo, e della libertà medesima fatto un continuo riacquisto e una continua liberazione, una continua battaglia, in cui è impossibile la vittoria ultima e terminale, perché significherebbe la morte di tutti i combattenti, ossia di tutti i viventi. Dopo di che, si scorge agevolmente in qual conto siano da tenere altre obiezioni, che allora pur si proposero e che furono dipoi, e sono, molte volte ripetute, come questa: che l’ideale della libertà, per la sua stessa eccellenza, sia dei pochi e non dei molti, degli eletti e non del volgo, il quale ha uopo d’imposizioni dall’alto, di autorità e di sferza: obiezione che troverebbe pieno riscontro nella sentenza, di cui è evidente l’assurdo, che la verità sia dei pochi e ai più si convenga la non-verità e l’errore, come se la verità non fosse tale per la sua intrinseca forza, espansiva e avvivatrice e trasformatrice nei modi che via via le sono consentiti. O come quest’altra, anche più stravagante: che la libertà appartenga in proprio a certi popoli, che in condizioni singolarissime l’hanno elaborata, quale l’insulare Inghilterra, o a stirpi dal sangue generoso, quali le germaniche, che la coltivarono nell’incoltura delle loro foreste: obiezione che a sua volta abbassa lo spirito a materia e lo sottomette a meccanico determinismo, e che, d’altra parte, il fatto smentisce, mostrando che l’Inghilterra molto insegnò ma anche non poco apprese nei concetti liberali dai popoli del continente, e che la Germania assai a lungo dimenticò la libertà nelle sue foreste e idoleggiò l’autorità e la sudditanza.
Era, dunque, affatto ovvio che alla domanda quale fosse l’ideale delle nuove generazioni si rispondesse con quella parola «libertà» senz’altra determinazione, perché ogni aggiunta ne avrebbe offuscato il concetto; e torto avevano i frigidi e i superficiali che di tal cosa si meravigliavano e la facevano oggetto di scherno, e, tacciando di vuoto formalismo quel concetto, interrogavano ironici o sarcastici: «Che è mai la libertà? la libertà da chi e da che cosa? la libertà di fare che cosa?».
Essa non pativa aggettivi né empiriche determinazioni per la sua intrinseca infinità; ma non perciò non si poneva da sé di volta in volta i suoi limiti, che erano atti di libertà, e così si particolareggiava e si dava un contenuto. La distinzione, molte volte fatta, delle due libertà, di quella al singolare e di quella al plurale, della libertà e delle libertà, si svela antinomia di due astrattezze, perché la libertà al singolare esiste soltanto nelle libertà al plurale. Se non che essa non si adegua mai e non si esaurisce in queste o quelle delle sue particolarizzazioni, negli istituti che ha creati; e perciò non solo, come si è notato, non si può definirla per mezzo dei suoi istituti, ossia giuridicamente, ma non bisogna porre un legame di necessità concettuale tra essa e questi, che essendo fatti storici, le si legano e se ne slegano per necessità storica.
Le richieste politiche, che di sopra abbiamo per sommi capi enumerate, formavano allora, a un dipresso, il suo corpo storico e, in certo senso, il suo corpo fiorente di bellezza e di rinato vigor giovanile, e di congiunta baldanza e spensieratezza. Spiritualità corporificata, e, per ciò stesso, corporeità spiritualizzata, il loro significato si traeva unicamente dal fine a cui tendevano e che era di un più largo respiro alla vita umana, di una sua maggiore intensità ed estensione. L’idea della nazionalità, opposta all’astratto umanitarismo del secolo precedente e all’ottusità che verso l’idea di popolo e di patria dimostravano persino scrittori quali Lessing, Schiller e Goethe, e alla poca o nulla ripugnanza che si era allora sentita verso gl’interventi stranieri, intendeva promuovere l’umanità nella sua forma concreta che era quella della personalità, come dei singoli uomini così dei complessi umani legati da comuni origini e memorie, costumi e attitudini, delle nazioni storicamente esistenti e attive o da svegliare all’attività; e intrinsecamente non poneva barriere a sempre più larghe e comprensive formazioni nazionali, ché «nazione» è concetto spirituale e storico e perciò in divenire, e non naturalistico e immobile, come quello di razza. La stessa egemonia o primato che si rivendicava per questo o quel popolo, dal Fichte e da altri al germanico, dal Guizot e da altri al francese, dal Mazzini e dal Gioberti all’italiano, e da altri ancora al polacco o agli slavi in genere, era teorizzato come il diritto e il dovere di mettersi alla testa di tutti i popoli per farsi antesignano di civiltà, di umano perfezionamento, di grandezza spirituale.

Anche i nazionalisti tedeschi dicevano, bensì, che il popolo tedesco era un popolo eletto, ma si affrettavano ad aggiungere che era tale perché cosmopolitico e non puramente nazionale. Le costituzioni e i governi rappresentativi dovevano portare all’efficacia e all’operosità politica uomini e ceti sociali di maggiore capacità e di migliore volontà rispetto a quelli che le avevano fino allora esercitate o in emulazione di quelli. La libertà di stampa era il campo aperto allo scambio delle idee, allo scontro e alla misura delle passioni, allo schiarimento delle situazioni, alle dispute e agli accordi, e, come altri ha ingegnosamente avvertito, voleva, nei grandi stati, nell’Europa e nel mondo, tenere l’ufficio che nelle piccole città antiche aveva tenuto l’agora. Il favore di cui fu circondato il sistema dei due grandi partiti che componevano i parlamenti, il conservatore e il progressista, il moderato e il radicale, la destra e la sinistra, conteneva l’intenzione di graduare l’impeto del moto sociale e di evitare i danni degli scotimenti rivoluzionari e gli spargimenti di sangue, rendendo mite e umana la lotta degli interessi. Il trepido affetto e il desiderio delle autonomie locali contro l’accentramento e il dispotismo amministrativo della Rivoluzione e dell’Impero, e delle stesse monarchie assolute restaurate, erano mossi dal timore che l’accentramento, uniformando, impoverisse e inaridisse la pienezza della vita, laddove le autonomie meglio conseguivano la buona amministrazione e coltivavano un vivaio di capacità politiche. Le monarchie costituzionali, sull’esempio inglese, mediavano tra quelle assolute, troppo storiche, e le repubbliche, troppo poco storiche, e venivano proposte quasi sola forma di repubblica adatta ai tempi; ché, del resto, repubblica e non monarchia tenevano i politici di vecchia scuola l’Inghilterra dopo la sua rivoluzione. Similmente, in generale, tutta la ripresa delle tradizioni storiche era animata dal desiderio di raccogliere e serbare quanto di vivo e adoperabile per la vita moderna, o per un buon tratto ancora di questa vita, fosse in istituti e costumanze paesane, nella vecchia nobiltà e nei contadini, nelle ingenue credenze religiose. La rottura dei vincoli, che avevano impacciato o ancora impacciavano industrie e commerci, ubbidiva al bisogno di dare impulso alla inventiva e alla virtù individuale e alla gara, e di accrescere la ricchezza che, da chiunque prodotta e da chiunque posseduta, era pur sempre ricchezza dell’intera società, e a vantaggio di questa e del suo innalzamento morale finiva, in un modo o in un altro, un po’ prima o un po’ dopo, col servire. È così per tutti gli aspetti e le particolari determinazioni di quelle varie richieste.
Poteva accadere, e sarebbe di certo accaduto, che alcuni o molti di cotesti istituti liberali, nel corso ulteriore della storia, sarebbero morti, venendo meno le loro condizioni di fatto, e altri di essi sarebbero di ventati inefficaci, insufficienti o inadatti, e si sarebbe dovuto modificarli o addirittura rovesciarli e sostituirli; ma ciò appartiene alle sorte di tutte le cose umane, che vivono e muoiono, si trasformano e ripigliano vita, o si meccanizzano e conviene disfarsene, e, a ogni modo, l’agente di quelle modificazioni, di quei riadattamenti e abolizioni, sarebbe stata pur sempre la libertà, che si formava, in tal guisa, un nuovo corpo, dotato di nuova gioventù o pervenuto ad adulta robustezza. Così niente impediva di pensare — nella rigorosa e preveggente logica che si attiene all’essenza del concetto liberale — che il sistema dei due partiti, antiquati contrasti che gli avevano dato vita, si sarebbe cangiato in quello dei vari e mobili aggruppamenti su particolari problemi, e l’autogoverno avrebbe ceduto al bisogno di maggiore regolarità e accentramento, e le monarchie costituzionali alle repubbliche, e gli stati nazionali si sarebbero composti in stati plurinazionali o stati uniti (col formarsi, cioè, di una più larga coscienza nazionale, per esempio europea), e il liberismo economico sarebbe stato temperato e ridotto in più stretti confini da leghe d’industriali o da statificazioni di servizi. Certo, quei liberali delle prime generazioni non pensavano in generale a tali possibilità, e anche talvolta o per solito le negavano; ma non però esse non erano contenute nel principio posto da loro, e bisogna tenerle presenti, così come possiamo ora scorgerle noi dopo oltre un secolo di molteplice esperienza e di lavorio mentale: avvertenza che vale per tutto quanto andiamo dicendo di quel periodo germinale, nel quale, com’è necessario, noi guardiamo, nel germe, anche l’albero di cui era germe e che solo faceva che esso fosse plastico germe e non cellula abortita. E poteva anche accadere (e perciò si era allora delineata la nuova e goethiana figura del progresso non più in linea retta ma secondo spirale) che, nelle crisi dei ringiovanimenti, i regimi liberali sarebbero soggiaciuti a reazioni e a regimi autoritari di varia origine e di più o meno larga estensione e lunga durata; ma la libertà avrebbe seguitato ad operare dentro di questi e a corroderli e, infine, ne sarebbe tornata fuori più sapiente e più forte.

Anche allora, del resto, alla corporeità che abbiamo detta spiritualizzata, se ne accompagnava talvolta un’altra non spiritualizzata e perciò malsana; e il culto della nazionalità dava qualche segno, in qualche suo torbido apostolo, di trapassare in boria e prepotenza di dominio materiale, o di chiudersi verso gli altri popoli in una cupa libidine di razza; e il culto della storia e del passato, di pervertirsi in insulsa idolatria, e la riverenza per le religioni in riscaldamenti pseudoreligiosi, e l’attaccamento alle istituzioni esistenti in timidezza conservatrice, e l’osservanza delle forme costituzionali in mancanza di coraggio dinanzi al necessario modificarsi di esse, e la libertà economica in protezione degli egoistici interessi di questo o di quel gruppo sociale; e così via. Ma queste debolezze, questi errori, questi annunzi di futuri danni erano inseparabili dal pregio stesso delle richieste che allora si facevano e delle istituzioni che si proponevano, né scemavano al movimento liberale la sostanziale sua nobiltà, la sua possente virtù etica, che s’irraggiava di poesia, era armata di logica e di scienza, tornava tenace all’azione e si preparava alla conquista e al dominio.
Poeti, teorici, oratori, pubblicisti, propagandisti, apostoli e martiri attestavano la profonda serietà di quell’ideale, e poiché sorgevano e si moltiplicavano intorno ad esso, e non già o assai più radi e meno risoluti e meno gagliardi si vedevano intorno ad altri ideali, il suo vigore prevalente e la sicura vittoria che l’attendeva. E non solo il fatto, ma anche la dottrina confutava ormai quella separazione, che era stata grave segno di abbassamento e di decadenza, fra la teoria e la pratica, la scienza e la vita, la vita privata e la vita pubblica, come se sia cosa possibile cercare e trovare la verità senza insieme patirla e viverla nell’azione o nel desiderio dell’azione, e cosa possibile staccare l’uomo dal cittadino, l’individuo dalla società che lo forma e che esso forma. Il mero letterato e filosofo, imbelle e trasognato, l’intellettuale e il retore che maneggiavano le immagini del sublime ma rifuggivano dalla fatica e dal periglio dei doveri che quelle immagini richiamano e richiedono, ed erano proni al servilismo e alla cortigiana adulazione, diventarono oggetti di disprezzo; e oggetto di riprovazione lo scrivere per incarico e il farsi mantenere dalle corti o dai governi, invece di aspettare dal solo consenso del pubblico il favore e i mezzi stessi del vivere, il compenso al proprio lavoro. Si volle la sincerità della fede, la coerenza del carattere, l’accordo tra il dire e il fare, si rinnovò moralmente il concetto della dignità personale, e con essa il sentimento dell’aristocrazia vera, con le sue regole, le sue rigidezze e le sue esclusioni, dell’aristocrazia che era diventata ormai liberale e perciò affatto spirituale. La figura eroica, che parlava ai cuori, era quella del poeta milite, dell’intellettuale che sa combattere e morire per la sua idea: una figura che non rimase nei rapimenti dell’immaginazione e nei paradigmi educativi, ma apparve in carne ed ossa sui campi di battaglia e sulle barricate in ogni parte d’Europa. I «missionari» ebbero compagni i «crociati» della libertà.

Ora chi raccolga e consideri tutti questi tratti dell’ideale liberale, non dubita di denominarlo, qual esso era, una «religione»: denominarlo così, ben inteso, quando si attenda all’essenziale e intrinseco di ogni religione, che risiede sempre in una concezione della realtà e in un’etica conforme, e si prescinda dall’elemento mitologico, pel quale solo secondariamente le religioni si differenziano dalle filosofie. La concezione della realtà e l’etica conforme del liberalismo erano, come si è mostrato, generate dal pensiero moderno, dialettico e storico; e a conferirgli carattere religioso non vi bisognava altro, perché personificazioni, miti, leggende, dommi, riti, propiziazioni, espiazioni, classi sacerdotali, paludamenti pontificali e simili, non appartengono all’intrinseco e malamente vengono astratti da particolari religioni e posti come esigenze di ogni religione. Nel che è l’origine delle parecchie religioni artificiali o «religioni dell’avvenire», escogitate nel corso del secolo decimonono, cascate tutte, come meritavano, nel ridicolo, essendo contraffazioni e caricature; laddove quella liberale dimostrò la sua essenza religiosa con le sue proprie forme e istituzioni, e , nata e non fatta, non fu un’escogitazione a freddo e di proposito, tantoché, dapprima, credé persino di poter convivere con le vecchie religioni o di venir loro compagna, complemento ed aiuto. In verità, si contrapponeva ad esse, ma, nell’atto stesso, le compendiava in sé e proseguiva: raccoglieva, al pari dei motivi filosofici, quelli religiosi del passato prossimo e remoto, accanto e sopra di Socrate poneva l’umano-divino redentore Gesù, e sentiva di aver percorso le esperienze del paganesimo e del cristianesimo, del cattolicismo, dell’agostinismo e del calvinismo, e quante altre erano state, e di rappresentare le migliori esigenze, e di essere purificazione, approfondimento e potenziamento della vita religiosa dell’umanità. Perciò non segnava punti cronologici del suo inizio e nuove ère che la distaccassero con taglio netto dal passato, come aveva fatto la chiesa cristiana e poi l’islamismo, e come rifece, imitando quelle chiese e sètte, la Convenzione nazionale, con un decreto che rispondeva alla sua astratta concezione della libertà e della ragione, e che, dopo aver trascinato vita parimente astratta, fu dimenticato prima che abolito. E nondimeno diffuso risuonava dappertutto il grido della palingenesi, del «secol si rinnova»: quasi saluto augurale a quella «terza età», l’età dello Spirito, che nel secolo dodicesimo Gioacchino da Fiore aveva profetata, è ora si schiudeva dinanzi all’umana società che l’aveva preparata e aspettata.