LA POLITICA DELL’EQUILIBRIO NELL’EUROPA MODERNA
di Carlo Morandi -
Nata in Italia nel XV secolo per bilanciare le ambizioni di signori e principati, la politica dell’equilibrio – con le frontiere che ne conseguono, naturali o meno che siano – non è che il riflesso delle pulsazioni interne di uno Stato. E i confini sorgono, oscillano e si spostano in virtù dei rapporti di forza. Lo storico e politologo Carlo Morandi (1904-1950) ci offre un efficace excursus della politica del “contrappeso” e delle sue diverse applicazioni nel contesto europeo.
Dal Rinascimento ad oggi si è parlato e si parla di equilibrio politico: tra il Sei e il Settecento si è avuta una ricca elaborazione teorico-pratica del principio, il quale ha poi manifestato, proprio nella varietà ed adattabilità delle sue forme, un profondo vigore di vita. Si tratta quindi d’intendere la vera natura e i limiti del concetto, non di negare che esso abbia una sua consistenza storica, cioè che abbia concretamente operato ed agito. La scuola degli internazionalisti francesi, nella seconda metà del secolo scorso, ha idoleggiato la teoria dell’equilibrio; ha cercato d’infondervi un valore costante e normativo; è giunta ad ammettere un «Diritto dell’equilibrio», a titolo di garanzia di ogni singolo Stato e di tutti gli Stati. Si tratta di una formula attraente, facile a invocare, difficile da respingere a priori, ma altrettanto inefficace sul terreno storico, e quindi astratta.
Di fronte ad un problema concreto, nella sua vera realtà politica (e non giuridica), la formula si scioglie e svanisce; perché in ultima analisi, la teoria dell’equilibrio incontra sempre due limiti: nel maggiore o minore senso di solidarietà d’interessi tra gli Stati, e nell’effettivo spostarsi delle forze morali e materiali le quali vengono ad alterare, profondamente, i termini d’una situazione preesistente. In un particolare equilibrio politico sono già insite le tendenze e le tensioni che, come portarono a crearlo, così condurranno pure a superarlo. Vano è dunque il tentativo di codificare il principio. E così vien fatto di sorridere leggendo nel voluminoso, e per tanti altri aspetti pregevole, trattato dello Stieglitz che «all’epoca… babilonese il principio dell’equilibrio non era applicato perché allora non esisteva il diritto internazionale, ed è perciò appunto che non poteva esservi una norma d’equilibrio». Non si tratta di questo. Anche se il principio di cui discorriamo, nel suo affermarsi, coincise con il sorgere d’una stabile diplomazia e con lo sviluppo del diritto internazionale, tuttavia non può essere elevato a norma giuridica, ma conserva la sua natura di mero concetto politico, e il suo carattere strumentale. Anzi l’efficacia pratica risiede nell’impossibilità di tradurlo in un complesso rigido di regole precise, sempre identiche, e si manifesta invece nell’elasticità e relatività del suo porsi come mezzo per affrontare e risolvere, di volta in volta, i problemi della vita internazionale. Entro questi limiti, il principio d’equilibrio costituisce un elemento ben vivo, e segna una linea maestra della storia moderna, massime nell’aspetto diplomatico, in quanto storia d’un sistema di stati nelle loro necessarie relazioni di interdipendenza. Spaesato sul terreno del puro diritto, esso ritrova il suo significato storico e il suo valore concreto sul terreno più mobile ed elastico della vita politica.
Il principio dell’equilibrio è nato, appunto come esigenza politica, nell’Italia del Quattrocento, dalle lotte delle signorie e dei principati; è sorto come istintiva difesa d’organismi in contrasto, come sistema empirico per cui le concorrenti brame si placavano in una relativa bilancia di forze. Ma gradatamente, esso assurge a consapevole metodo, via via che sovrani e popoli acquistano piena cognizione dell’esistenza di un sistema di stati e degli insopprimibili vincoli che ne stimolano e, in pari tempo, ne condizionano l’attività. Nel medioevo impero e papato facevano sentire la presenza di un «limite» alle aspirazioni e agli antagonismi politici; all’inizio dell’età moderna questo limite scaturisce da un rapporto di forze che si va stabilendo tra gli Stati regionali o nazionali, e si traduce nella consapevolezza di un costante legame, d’un perenne interferire d’interessi, che unisce reciprocamente, volenti o nolenti, varie Potenze. Ed è questo che veramente conta, perché di azioni politiche rivolte a creare o a ristabilire un equilibrio fra Stati diversi, certo ve ne furono anche nei secoli precedenti; ma solo nel Rinascimento quell’azioni vengono concepite e inquadrate in un principio generale. Da istintiva, la politica della bilancia diviene ragionata, e tende ad estendersi abbracciando le grandi e piccole potenze in un giuoco diplomatico di cui il principio d’equilibrio è un motivo sentito, un canone riconosciuto, una degli indici più significativi della comunità internazionale.
La politica di Lorenzo il Magnifico nella seconda metà del XV secolo, e analogamente quella degli altri principi della penisola, trova già la sua definizione nel noto giudizio del Guicciardini: «e conoscendo (Lorenzo de’ Medici) che alla Repubblica Fiorentina, e a sé proprio, sarebbe molto pericoloso se alcuno dei maggiori potentati ampliasse più la sua potenza, procurava con ogni studio che le cose d’Italia in modo bilanciate si mantenessero, che più in una che in una altra parte non pendessero».
Ma la prima esplicita formulazione italiana del concetto di equilibrio non si trova nel Guicciardini e non si riferisce a Firenze. S’incontra in un politico umanista veneziano, Francesco Barbaro, il quale fin dal 1439 attribuiva alla Repubblica Serenissima il merito d’aver cercato e garantito l’equilibrio degli Stati Italiani. E dal Barbaro trae origine quella caratteristica scuola politica veneta che culmina col Partita, nei cui «Discorsi», tenuto presente che Venezia non era così forte da poter continuare una politica d’espansione, né «tanto debole» da dover temere «di restare da altri facilmente oppressa», si conclude: «essere il migliore e il più sicuro consiglio, per la quiete d’Italia, tenere in modo bilanciate le cose che non possano aver luogo negli animi dei Principi quegli effetti di timore e d’ambizione i quali sono stati, in altri tempi, cagione di perturbarla».
Ma anche dinanzi alle mire crescenti delle forti monarchie nazionali d’oltralpe, gli Stati italiani si regolarono come prima avevano fatto nell’interno della penisola, vale a dire secondo la politica della bilancia che consigliava d’unirsi al più debole per contrapporsi alla potenza del più forte, nella vana speranza di salvare in tal modo la così detta «libertà d’Italia». E appunto in questa inutilità degli sforzi diretti a creare, con le famose leghe dell’equilibrio, una sufficiente difesa contro le ambizioni straniere, si manifestava una prima fondamentale illusione, che cioè potesse bastare un equilibrio concepito in senso rigidamente conservatore, statico, per ovviare alle altrui minacce e garantire la propria tranquillità. Lo scopo non doveva essere di bilanciare le forze per immobilizzarle, ma per organizzarle, per renderle vive ed operanti.
Comunque, nei primi decenni del secolo XVI, attraverso le guerre di preponderanza, il principio dell’equilibrio da italiano diventa europeo, contribuendo a creare un orientamento dello spirito politico che segna un netto distacco nei confronti dell’Europa medioevale. Il sistema prima coltivato dagli Stati della penisola, si diffonde in un’orbita ben più ampia, perché viene necessariamente adottato anche dalle grandi potenze; per esempio, dalla Francia di Francesco I, che ne fa un vessillo di lotta contro la minaccia egemonica costituita dalla «monarchia universale» di Carlo V.
E, a sua volta, Enrico VIII d’Inghilterra, che ama essere considerato l’ago della bilancia tra Spagna e Francia, inserisce la politica inglese nel grande giuoco di equilibrio tra le potenze marittime e continentali.
In questo periodo il principio assolve, in primo luogo, una funzione polemica contro l’imperialismo asburgico e alimenta la resistenza dei paesi che si sentono minacciati. Ma, nelle lotte religiose della seconda metà del Cinquecento, è dato anche scorgerne un aspetto nuovo, quasi un corollario: la politica d’intervento in favore dei correligionari d’altre nazioni; intervento che per ora è giustificato con motivi di prevalente carattere religioso, ma che, in sostanza, riflette un ampliamento della politica d’equilibrio in rapporto ai problemi sempre più complessi che legano tutta la vita europea e che vietano ad uno Stato di straniarsi dalle grandi questioni comuni e di far parte per se stesso.
Di pari passo, procede l’elaborazione del concetto attraverso la pubblicistica politica. Il Botero fu tra i primi a riconoscere il valore che andava assumendo nei rapporti internazionali il sistema ch’egli chiama del «contrappeso», che «ha per fondamento l’ordine della natura e il lume della ragione». Ma, secondo l’Autore della «Ragion di Stato», le lotte che agitano l’Europa sono, in generale, vane e sterili, perché esse non hanno di mira il vero e sano equilibrio, quello cioè universale, di tutta la cristianità, ma una sua forma inferiore ed angusta, che si riferisce al benessere di uno stato particolare. Dove è visibile un errore di giudizio e di prospettiva perché, mentre si è dissolta l’idea ecumenica della «respublica christiana», si è andata radicando la persuasione d’una comunità politica europea in cui gli interessi di un paese sorgono, si mantengono, si sviluppano «in reazione» agli interessi di altri Paesi, acuendone la reciproca sensibilità. Infatti nella pubblicistica francese del Seicento, in cui si sviluppa chiaramente questo concetto degli «interessi» degli Stati, anche l’idea d’equilibrio trova la sua piena giustificazione e assurge a teoria. Enrico di Rohan ritiene che lo scopo principale dei governi europei debba consistere nel bilanciare le due potenze opposte di Francia e Spagna, perché «solo in questo equilibrio risiede la tranquillità e la sicurezza di tutti». Più astrattamente il Sully vagheggia una uguale distribuzione «di potenza, sovranità, ricchezza, dominio», tra i quindici stati dell’Europa cristiana, assegnando a ciascuno «limiti equi e ben commisurati». Ma è significativa, in quasi tutti gli scrittori, la persistente esclusione della Turchia, il voler restringere la sfera di attuazione del principio ai rapporti del mondo cristiano, laddove più d’una volta l’alleanza col mondo mussulmano era stata, essa stessa, strumento della politica europea d’equilibrio.
I trattati di Westfalia segnano un primo riconoscimento ufficiale della solidarietà d’interessi degli Stati moderni, i quali non ammettendo più alcuna autorità estranea alla propria, sono indotti a cercare in se stessi e nei mutui rapporti d’alleanze un rimedio contro ogni abuso di forza ed ogni minaccia egemonica; e quindi si organizzano, e pongono in primo piano il principio d’equilibrio considerato come garanzia di stabilità e di sicurezza. Infatti, non appena la politica di espansione di Luigi XIV sembra compromettere il vecchio ordine europeo, il motivo dell’equilibrio minacciato, che occorre difendere o restaurare, non solo anima le corrispondenze diplomatiche dei paesi coalizzati contro la Francia, ma alimenta anche la libellistica e dilaga nelle gazzette, agitando dinanzi alla opinione pubblica lo spauracchio d’una nuova «monarchia universale». Ecco perché l’atto di rinuncia al trono di Francia, imposto a Filippo V (5 novembre 1712) esprime la fiducia «che il sistema non venga mai alterato e che perciò le potenze siano equamente bilanciate». In modo anche più solenne il trattato di Utrecht tra l’Inghilterra e la Spagna (13 luglio 1713) afferma che la pace è conclusa «ad firmandam stabilendamque pacem ac tranquillitatem christiani orbis, justo potentiae equilibrio» (articolo 2). Con lo stesso trattato, per la prima volta, fu enunciato ufficialmente il principio, definendo l’equilibrio : «quod optimum et maxime solidum mutuae amicitiae et duraturae concordiae fundamentum est», e lo si volle porre come regola esplicita per assicurare una più ordinata convivenza internazionale. Che, se tale enunciazione rimase sterile nel senso normativo, non per questo mancò d’esercitare un’influenza profonda sullo spirito e le forme dei rapporti politici durante tutto il secolo fino alla Rivoluzione francese. Infatti il Settecento segna il pieno affermarsi della politica di equilibrio nella teoria e nella pratica. Fénelon scrive: «Tutte le Nazioni vicine sono talmente legate, dai loro interessi, le une alle altre e a tutta l’Europa, che i più piccoli progressi particolari possono alterare questo sistema generale ch’è l’equilibrio e che solo può garantire la sicurezza collettiva. Togliete una pietra da una volta e tutto l’edificio crolla, perché tutte le pietre si sostengono contrapponendosi». E, poco dopo, lo Hume in Inghilterra, invoca il principio della bilancia delle forze come elemento moderatore nella grande rivalità marittima e coloniale franco-britannica. Ma più ci si inoltra nel Settecento e più si nota un progressivo distacco, di fronte al nostro problema, tra la posizione di pensiero assunta dagli scrittori e la quotidiana prassi politica. Quest’ultima segna un accentuarsi del carattere instabile, dinamico dell’equilibrio, dovuto al premere di vecchie e nuove forze di espansione. Invece nella formulazione dottrinale, sotto l’influenza delle ideologie cosmopolitiche e umanitarie, il concetto tende a svolgersi in senso pacifista e conservatore, con una sfumatura moralistica che sfocia in una esplicita condanna d’ogni sete di dominio. «Un’intemperante voglia di conquistare – scriveva il Roberti nel suo libretto «Dell’amore verso la Patria» – giudico essere la maggior disgrazia che possa affliggere un popolo». E il Muratori gli faceva eco: «la gloria dei conquistatori patisce delle difficoltà, perché talvolta scompagnata dalla giustizia, o perché bene spesso acquistata con tante lagrime del proprio popolo e dell’altrui».
Intanto, il campo d’azione della politica di equilibrio si è nuovamente esteso: investe ormai anche i settori periferici dell’Europa. Già nel secolo XVII era apparso il problema dell’equilibrio baltico, negli aiuti accordati da Inghilterra, Olanda e Francia alla Danimarca minacciata dalla marea militarista svedese; ma nei primi decenni del secolo XVIII, tutto il problema si sposta, perché entra nel giuoco la Russia che si afferma come potenza europea proprio su le rive del Baltico, accelerando il tramonto dell’egemonia svedese.
Anche per questo l’equilibrio degli stati nordici, subito dopo la pace di Nystadt, assume una fisionomia caratteristica e ben definita: non è un equilibrio di antagonismi, ma di solidarietà dettata da comuni esigenze di fronte ad eventuali comuni pericoli. Infatti nel 1788 Gustavo III scriveva a Cristiano VII di Danimarca: «Il colosso russo pesa su tutti noi, ed io Vi confido lo sdegno che provo nel vedere questo Stato, appena uscito di barbarie, arrogarsi il diritto di dominare il Nord, minacciandone il pacifico assetto». E con la Russia, che inizia nel Settecento la sua espansione verso il Mar Nero, sorge il problema dell’equilibrio dell’Europa orientale, che andrà crescendo d’importanza sul finire del secolo e nell’Ottocento fino a coinvolgere gli interessi di tutte le potenze (questione di Oriente). Ma anche nel cuore dell’Europa la rapida ascesa della Prussia ha sconvolto l’ordine uscito dai trattati di Vestfalia; e nella penisola italiana il Piemonte è diventato a sua volta, nel XVII e XVIII secolo, fattore di primo piano nelle lotte diplomatiche e nei conflitti armati tra i grandi stati. Inoltre, dal Cinquecento in poi, la politica d’equilibrio abbraccia anche il mondo coloniale. Ma è ovvio che le colonie non possano essere, esse stesse, protagoniste d’una politica d’equilibrio; sono semplici mezzi e strumenti, o anche fini, della lotta che si svolge sul continente tra le potenze marittime e colonizzatrici. Per cui il concetto di equilibrio, fino a tutto il Settecento, rimane tipicamente europeo, cosicché il Voltaire potrà annoverarlo tra i principi politici sconosciuti alle altre parti del mondo. Comunque, il problema, nel suo aspetto pratico, si è venuto modificando e complicando. Non si tratta più di contenere e bilanciare l’antagonismo borbonico-asburgico; lo scacchiere politico s’è popolato di nuove individualità statali, forti e decise ad esercitare il loro peso nella vita europea.
D’altra parte, se il numero accresciuto degli stati potenti non consente più ad alcuno di aspirare a dominarli tutti, ciò non impedisce che ciascuno aspiri a migliorare e ad espandersi; solo costringe ogni stato a calcolare, non soltanto le proprie, ma anche le altrui ambizioni, e a manovrare nel composito organismo internazionale in modo da conseguire risultati vantaggiosi senza provocare una pericolosa coalizione di tutte le forze avversarie. In questo periodo è soprattutto l’Inghilterra che vigila sull’equilibrio del continente e che, dopo un ventennio di assenteismo dalla politica europea (1721-42), trae profitto dai contrasti che vi si accendono per accrescere e consolidare il proprio dominio coloniale e marittimo. La «Prammatica Sanzione» di Carlo VI era stata promulgata «pro conservando duraturo in Europa aequilibrio» e la Francia l’aveva garantita, col trattato di Vienna del 1738, «per il mantenimento della pace e per la tutela dell’equilibrio in Europa». Tutto ciò non impedì, alla morte di Carlo VI, il formarsi di una coalizione antiaustriaca; ma il principio dell’equilibrio minacciato dalla Francia, dalla Spagna, dalla Prussia, fu difeso dall’Inghilterra, «perché questa bilancia — scriveva il Voltaire — bene o male intesa, era divenuta la passione del popolo inglese»; passione — aggiungeremo noi — che coincideva perfettamente con l’interesse politico britannico. E ancora, dopo il rovesciamento delle alleanze, l’Inghilterra schierandosi a fianco della Prussia nella guerra dei Sette anni, mirò ad esercitare una politica d’equilibrio nell’Europa centrale, alterando però a proprio beneficio l’equilibrio coloniale con la Francia.
Nella prima metà del XVIII secolo si era molto parlato di «sistema delle Potenze marittime» (soprattutto Inghilterra e Olanda). Giorgio II non appena salito al trono proclamava, il 7 luglio 1728, dinanzi al Parlamento: «L’Inghilterra è al massimo di reputazione e di gloria; essa ha nelle mani la bilancia per mantenere l’equilibrio così necessario tra le potenze d’Europa ». Un nuovo e peculiare valore veniva attribuito al commercio che, secondo il Bertola, «forma oggi una delle più gran basi della felicità e grandezza dei popoli, e in ciò gran parte entra nella politica dominante di Europa: sorgente di guerra, fondamento de’ trattati di pace e possente contrappeso a mantenere l’equilibrio europeo» Analogamente, si trova accennato nella pubblicistica settecentesca, anche prima della guerra dei sette anni, il concetto del commercio inglese come elemento nocivo all’equilibrio europeo perché predominante. D’altra parte, dinanzi alla rivolta delle colonie inglesi del Nord America, il Raynal avverte che se l’Inghilterra fosse battuta in quella guerra, i Borboni di Francia e Spagna dovrebbero nondimeno adoperarsi perché in America rimanessero due Potenze (Francia e Inghilterra) a controllarsi e ad equilibrarsi reciprocamente, e ciò sia nell’interesse del medesimo equilibrio europeo, sia perché qualora il Nuovo Mondo restasse un giorno del tutto libero diverrebbe in breve rifugio e covo degli intriganti e degli esuli di ogni paese, e vi si accentuerebbero i latenti germi di discordia tra Nord e Sud America. Dove si vede come il concetto d’equilibrio tenda ad allargarsi investendo e comprendendo nella sua area il continente americano il cui nesso con l’Europa è ritenuto inscindibile.
Reso scettico dall’abuso che si veniva facendo del principio dell’equilibrio, il D’Argenson annota in una pagina dei suoi Mémoires : «Siamo pazzi a credere di ordinare l’Europa, mentre la turbiamo. Siamo in buona fede nella nostra malafede. Sempre sospettosi che i nostri rivali mirino alla monarchia universale, finiremo con il suscitare l’incendio in ogni parte. Prendiamo degli impegni e non ci facciamo scrupolo di tradirli. Da Carlo V in poi non si è parlato di equilibrio europeo se non per sacrificare a questa illusione più uomini di quanti non ne siano periti alle Crociate».
Ma anche sul continente, attraverso l’opera d’una astuta e raffinata diplomazia, la politica della bilancia veniva piegata fino a diventare coefficiente d’espansione per alcuni stati e mezzo per giustificare le conquiste violente e le spoliazioni a danno dei paesi più deboli. Nella seconda metà del secolo XVIII, per le Corti di Berlino, di Vienna e di Pietroburgo, un nuovo principio, quello delle «spartizioni», diviene il corollario naturale e quasi indispensabile del principio d’equilibrio; e, a sua volta, si riveste di norme procedurali e di formule teorico-pratiche. Così, la scomparsa della Polonia dalla scena politica d’Europa viene giustificata con la necessita di conservare l’equilibrio tra l’Austria, la Russia, la Prussia, e gli smembramenti sono stabiliti in modo che le parti assegnate non alterino la proporzione prima esistente fra i tre stati. Federico II ne è fiero: «E’ il primo esempio, scrive nei suoi Mémoires, che la storia fornisce d’una spartizione terminata pacificamente fra tre Potenze». Ma, nonostante questi veli e queste sfumature, o forse proprio in ragione dei vani sforzi compiuti per mascherare la realtà prepotente delle ambizioni, l’idea dell’equilibrio comincia a subire i primi attacchi. Essa era circondata da un’aureola di giustizia fino a che veniva intesa come una garanzia degli stati deboli ottenuta attraverso il reciproco controllo, la mutua vigilanza, degli stati più forti. Ma ora la politica d’equilibrio scopriva un altro volto e si trasformava in un complotto dei potenti per inghiottire gl’inermi. L’equilibrio, scriveva Luigi XV al marchese d’Hautefort, è «une chose de pure opinion», che ogni stato interpreta a suo modo, secondo il proprio vantaggio. Nulla di nuovo in questa definizione, ma è significativo che si acquisti coscienza più chiara dell’incompatibilità d’un equilibrio statico di potenze con la vita internazionale che è, per sua natura, moto continuo, rivolgimento di forze, nascita e morte di organismi politici. E gli stessi governi, che hanno protestato contro l’altrui violazione del principio, sono poi scesi sul terreno comune reclamando «compensi» per ristabilire l’equilibrio perduto, originando nuove partizioni, compromessi, smembramenti, tutto un artificioso mercato di territori e di popoli.
Ma, nel Settecento, occorre sottolineare il presentarsi d’un aspetto particolare del concetto di equilibrio in relazione al problema delle «frontiere naturali». La recente storiografia (Zeller, Febvre, Ancel) ha posto in luce come si debba far risalire, in gran parte, ad Alberto Sorel la nota tesi d’una costante aspirazione della politica francese al raggiungimento dei confini naturali, ed ha insistito sul carattere erroneo ed illegittimo d’una ricerca tendente a rintracciare in poche testimonianze o voci isolate anteriori una teoria che in Francia si affermò solo nel periodo della Legislativa e della Convenzione.
In questi rilievi critici c’è molto di vero. Tuttavia, la politica delle barriere che è tipica dei primi anni del Settecento (barriera alpina franco-piemontese, barriera olandese, per cui tanto si discusse nel corso delle trattative per la pace di Utrecht) non è se non il preludio (e mi pare che gli studiosi non l’abbiano ancora notato con sufficiente chiarezza, né esattamente valutato) di quell’altra politica dei confini naturali che trionferà negli ultimi anni del secolo. Le barriere sono considerate come un mezzo efficace per stabilire l’equilibrio, per assicurare la reciproca difesa e la pace; i confini naturali come un limite equo alle tendenze espansionistiche d’un Paese, ma in pari tempo come un’aspirazione legittima da realizzare che, appunto perché tale, e cioè rispondente ad un diritto di natura, può e deve conciliarsi con l’equilibrio generale. La differenza consiste in un diverso modo di prospettare il problema delle frontiere in rapporto all’esigenze politiche di uno o più stati nei diversi momenti storici; ci troviamo cioè dinanzi, ancora una volta, o ad una interpretazione conservatrice, pacifista, o ad una concezione che tende ad indicare, in una linea che si reputa tracciata naturalmente, una meta necessaria da perseguire nell’interesse nazionale. Montesquieu dichiara: «vi sono certi limiti che la natura ha dato agli Stati per mortificare la ambizione degli uomini»; e questa, in massima, è la posizione illuministica. Ma Danton e Carnot (nel 1791 e nel 1793) le infonderanno un ben diverso contenuto con i loro ripetuti appelli alla necessità che la Francia giunga ai Pirenei, alle Alpi e al Reno, e vi si insedi solidamente.
Ora, se il nesso che lega il concetto di equilibrio alla teoria delle frontiere naturali è innegabile, in quanto si presuppone che proprio il riconoscimento e il rispetto reciproco di questi limiti siano coefficienti preziosi d’uno stabile e pacifico assetto internazionale, pure non si può non scorgere l’illusione naturalistica che vi si annida; perché le frontiere, di qualunque origine esse siano, non fanno che riflettere alla periferia d’uno Stato le sue pulsazioni interne, ed i confini sorgono, oscillano, si spostano in virtù dei rapporti di pressione, cioè di potenza, che si esercitano tra gli stati contermini. In altre parole, quando un popolo si prefigge una frontiera naturale, è semplicemente un limite, spesso provvisorio, che esso stabilisce all’intensità del suo desiderio d’espansione. Di conseguenza, il problema dell’equilibrio, lungi dal poter essere ancorato a un dato fermo, immutabile, d’ordine naturale, riprende per intero il suo carattere di principio politico mutevole e flessibile, pronto a giustificare anche una violazione dei così detti «confini segnati da madre natura», non appena ad uno Stato ciò appaia suggerito dal declinare delle forze altrui o richiesto dal crescere delle proprie. Si guardi alla politica napoleonica: nei suoi esordi non differisce gran che da quella in auge presso la diplomazia dell’ «ancien régime» (basti pensare a Campoformio e alla cessione di Venezia all’Austria come «compenso»), ma alla fine l’imperialismo trionfa su ogni scrupolo d’equilibrio e travolge il vecchio assetto europeo.
Ed è proprio per restaurare il perduto equilibrio che lavora la diplomazia dal 1813 al 1815. Nel trattato preliminare d’alleanza tra la Inghilterra e l’Austria, concluso a Toeplitz il 3 ottobre 1813, si indica come scopo «il ristabilimento d’un giusto equilibrio tra le Potenze che assicuri la tranquillità all’Europa», e nel trattato tra Vienna e Napoli, dell’11 gennaio 1814, si vagheggia una «pace durevole fondata su l’indipendenza e l’equilibrio delle Potenze». Talleyrand è d’accordo con Castlereagh nell’intendere l’equilibrio come «un rapporto fra le forze di resistenza e le forze d’aggressione reciproche dei diversi organismi politici», e nell’auspicare per l’Europa un regime di giusta e saggia bilancia dei poteri.
Il 5 febbraio 1814, quando s’apriva il congresso di Châtillon, il Gentz scriveva che la politica di Vienna non era mai stata «soltanto quella di scambiare un pericolo con un altro, e di distruggere la preponderanza della Francia per preparare o favorire quella della Russia; … Metternich guarda oggi più che mai alla Porta Ottomana come ad uno dei contrappesi più essenziali nell’equilibrio generale dell’Europa» («Notizie ai Gospodar della Valacchia»).
Negli anni successivi rivolge la sua attenzione al problema dell’equilibrio anche uno storico italiano, Luigi Blanc, il quale ricorda che l’Ancillon, nel suo Tableau des révolutions du système politique de l’Europe depuis le XV siècle (Paris, 1803), mostra come «si è formata, sopra ogni società particolare una società generale delle nazioni». E’ nato cioè un diritto pubblico degli Stati, il quale trova la sua forza non nelle monarchie universali o nelle potenze egémoni, «ma unicamente nel concerto degli Stati minori che, opponendo la massa vittoriosa delle forze secondarie alla forza aggressiva di una potenza preponderante, la riduce nei limiti legittimi». Il Blanc aggiunge che «per attuare un sistema di equilibrio… si richiede che tutti i popoli abbiano qualcosa di comune, quasi membri di una stessa famiglia, e un modo medesimo di civiltà che differisca nei gradi e non nel carattere»; «l’equilibrio perfetto è contrario alla nostra natura, ma la tendenza all’equilibrio è nella natura…».
Ciò che conta è che da quello sforzo di riorganizzazione generale dell’Europa che fu il Congresso di Vienna, scaturì anche il tentativo d’imprimere nuova vita al vecchio sistema, nel senso cioè che la garanzia dell’equilibrio non dovesse più essere lasciata ai singoli Paesi, ma si dovesse affidarla ad un gruppo di grandi Potenze. Nasce così il «concerto europeo» che in sede teorica ripete la sua origine, attraverso il pensiero del Genz e quindi del Metternich, dalla riconosciuta necessità di non confondere l’equilibrio con un mero livellamento delle forze, e che, in sede pratica, ha operato, se non continuativamente almeno a tratti, e con grande varietà di criteri, nella vita internazionale fino ai nostri giorni.
Ma ormai la politica d’equilibrio si sposta decisamente dal terreno dinastico a quello nazionale, anzi entra in funzione delle lotte di nazionalità. Dapprima gli stati assoluti, attraverso i congressi della Restaurazione, vogliono salvare, sotto il pretesto della difesa del legittimismo e della tutela dell’ordine interno, lo statu quo, rinnovando il principio di «intervento», che già nel XVI e XVII secolo era stato addotto, anche se non formulato nei termini moderni, legittimandolo sulla base di altre ideologie.
Ma nel 1830-31 la soluzione del problema nazionale belga viene giustificata col proposito «di far concorrere quelle provincie alla creazione d’un giusto equilibrio in Europa». Da questo momento tale principio è invocato in tutte le crisi europee (questione egiziana del 1840, questione d’Oriente, questione danese dal 1852 al 1863, questione germanica dal 1851 al 1866), pur rivelandosi spesso insufficiente a prevenirle e a risolverle, sia per l’interpretazione unilaterale che i singoli stati ne danno su la base dei propri interessi, sia per i frequenti urti fra le aspirazioni delle nazionalità oppresse e la struttura di alcune potenze come l’Austria-Ungheria e la Turchia. Nel 1851 Palmerston di fronte al problema germanico insiste per «la conservazione della bilancia delle forze in Europa». Nel 1852 si afferma che l’integrità danese è intimamente «legata agli interessi generali dell’equilibrio europeo»; nel 1854 lo statu quo dell’Impero Ottomano è considerato essenziale «al mantenimento della bilancia tra gli Stati civili» (preambolo del trattato anglo-turco del 12 marzo 1854).
Eppure, lentamente, si fa strada il concetto che un migliore equilibrio dell’Europa moderna può scaturire solo dalla soluzione dei problemi nazionali, dall’accoglimento dei voti dei popoli soggetti. Per ciò che concerne l’Italia, già Vincenzo Cuoco, anticipando la visione del Risorgimento come problema di rapporti politici europei e come questione internazionale, aveva scritto: «l’equilibrio tanto vantato in Europa non può essere affidato se non all’indipendenza italiana, a quell’indipendenza che tutte le potenze, quando seguissero più il loro vero interesse che il loro capriccio, dovrebbe procurare».
Ma, nel vivo della lotta, Giuseppe Mazzini, ergendosi contro il vecchio mondo e contro le soluzioni di compromesso auspicate dai moderati e dai riformisti, proclama: «l’equilibrio conducente alla pace, la cosiddetta bilancia dei poteri, è menzogna inefficace se non è equilibrio e bilancia di giustizia: a fondarla è necessaria una revisione di quelle ingiuste, ineguali, tiranniche convenzioni, alle quali i popoli non intervennero, né diedero conferma mai».
Se il Mazzini respinge le consuete forme della politica di equilibrio da un punto di vista etico-nazionale, il Thiers – al contrario – lamenta, muovendo da un presupposto sostanzialmente conservatore, lo sconvolgimento recato dalle nuove idee: e nelle sue critiche ai risultati della guerra d’Italia del ’59, pronunciate dinanzi al Corpo Legislativo nel 1865, rimprovera al principio trionfante delle nazionalità di distruggere l’antico concetto della politica di equilibrio, così prezioso per la stabilità e la pace dell’Europa. Sono i vani rimpianti d’un vecchio ordine di cose che si dissolve e che sfuma. Dopo i trionfi prussiani del ’70, Disraeli alla Camera dei Comuni commenta: «l’equilibrio europeo è interamente distrutto. Non vi è tradizione diplomatica che non sia stata spezzata; noi ci troviamo dinanzi ad un mondo nuovo, a nuove influenze». E’ la fase critica della politica inglese, che di lì a non molto, dovrà abbandonare il suo splendido isolamento e prepararsi a combattere, non più come ago della bilancia europea, ma come un piatto che cerchi ostinatamente di difendere il suo peso.
Nel periodo bismarckiano, sul libero giuoco dell’equilibrio prevalse il sistema del concerto europeo, ed anche quando la pratica del contrappeso delle forze riapparve, sul calare del secolo, con la Triplice alleanza e con la Duplice franco-russa, di fronte a molti problemi continuò ad agire il Direttorio delle grandi Potenze, attraverso la formula dei compensi o quella delle zone di influenza. Così nel Congresso di Berlino del 1878 (Cipro all’Inghilterra, l’amministrazione della Bosnia all’Austria), così nelle questioni coloniali. Dove si rendeva impossibile il mantenimento dello statu quo si ricorreva alla norma risolutiva dei compensi reciproci (accordi franco-inglesi per l’Africa, questione cinese, crisi marocchina del 1911).
La politica dell’equilibrio investe interessi e zone sempre più lontani, perché i bisogni che essa esprime non si esauriscono in semplici ed immediati problemi di contiguità territoriale, ma abbracciano un più vasto rapporto di prestigio e di potenza che dev’essere ovunque garantito e difeso. La caratteristica puramente europea della teoria tende a sparire, in quanto, sul finire del secolo XIX e nei primi anni del XX, con l’ingresso definitivo degli Stati Uniti e del Giappone nel novero delle grandi Potenze, la politica d’equilibrio da europea accenna a diventare mondiale. Se per l’Africa si può dire che essa costituisca parte integrante dell’equilibrio europeo dal momento che l’Europa l’ha assorbita, al contrario si può e si deve tener conto di un equilibrio asiatico, scaturito dalle rivalità anglo-russe e russo-nipponiche, e di un equilibrio americano stabilitosi fra gli Stati di quel continente. Il che, in altri termini, significa che il moderno equilibrio, europeo e mondiale, ha assunto un carattere eminentemente composito, in quanto risulta di molti equilibri parziali. Così è lecito parlare di un equilibrio del Pacifico, del Mediterraneo, del Baltico, o di un equilibrio danubiano, balcanico. Inoltre, il concetto meramente politico si è venuto arricchendo, più che nel passato, di altri elementi, fra cui dominano la energia morale, la cultura, la compattezza etnico-nazionale dei popoli. E infine una politica di equilibrio non può non essere anche una «politica economica», che miri a realizzarsi, sia mediante una più equa distribuzione delle materie prime, sia in virtù di soluzioni autarchiche.
Tutto ciò accresce gli aspetti elastici e mutevoli del concetto, dovuti al formarsi di condizioni sempre nuove; ciononostante, una siffatta politica tende a sussistere su la stessa instabilità e relatività del sistema. «L’Europe n’est plus», esclamò scoraggiato il Thiers dopo Sadowa, quando vide il capovolgimento di forze che s’operava nel mondo germanico e intuì il rapido cammino verso l’unificazione dei paesi d’oltre Reno. Ma poi si constatò che un equilibrio era ancora possibile, se pur faticoso e difficile, e ne faceva l’elogio Delcassé in un celebre discorso alla Camera francese del 24 gennaio 1908 in risposta ad una interpellanza di Jaurès che accusava la sua precedente politica di essere viziata da uno spirito d’avventura pericoloso per la pace europea.
Intorno al 1902, con il rinnovo della Triplice da un lato, e con gli accordi italo-francesi e italo-inglesi dall’altro, proprio il nostro Paese aveva raggiunto una notevole e singolare funzione tra le Potenze occidentali e gli Imperi centrali. Naturalmente era un equilibrio soggetto a turbamenti continui, che le vicende avrebbero messo alla prova; e così fu, massime durante la prima crisi marocchina e la crisi bosniaca. Ma in sostanza, come notava nel 1904 l’ambasciatore austriaco a Roma, Pasetti, l’Italia si veniva a trovare in una delicata e in pari tempo privilegiata situazione, in quanto la sua azione, diretta in un senso piuttosto che in altro, era sufficiente per spostare la bilancia europea. Sennonché, l’assetto generale appariva sempre più difficile a mantenere sotto la pressione dilagante e incalzante dei vecchi e nuovi imperialismi. Mentre un particolare sistema d’equilibrio, quello degli Stati nordici, si rinchiudeva in un vero e proprio isolazionismo, che rispecchiava in ugual misura la coscienza dei propri peculiari interessi e una posizione di limitata aderenza ai problemi generali dell’Europa, nel resto del continente la minaccia d’una frattura, di un urto fra i gruppi antagonisti, si faceva sempre più forte.
Durante la guerra mondiale non sono mancate le critiche al principio d’equilibrio e alla politica dei blocchi contrapposti, critiche che sembravano trovare una loro, sia pure superficiale, giustificazione proprio nel fatto che la conclamata teoria della bilancia delle forze e il complesso sistema delle alleanze (Triplice alleanza, Triplice intesa) si erano mostrati impotenti a scongiurare un così vasto conflitto.
Ma, via via che l’esperienza del periodo post-bellico ha rivelato la necessità di una graduale revisione dei trattati di pace, per correggerne gli errori o per adeguarli alla mutata realtà politica internazionale, tutti gli Stati hanno ripreso a tessere il filo delle alleanze e a ricostituire dei gruppi di potenze in presunto equilibrio. Si è avuta così una fioritura di patti di amicizia, di non aggressione, di garanzia, solo – a tratti – interrotta dal tentativo di sostituire al concetto egualitario di tutti gli Stati e all’immaginaria visione di una perfetta distribuzione generale delle forze, il riconoscimento della superiore funzione attiva e responsabile di un gruppo costituito dai principali organismi nazionali, il cui intervento potesse essere veramente decisivo nella soluzione dei maggiori problemi politici, dal concetto – insomma – di una gerarchia delle Potenze.
Da questa estrema mobilità e ricchezza di significati (nonostante le apparenti superficiali analogie) che il concetto d’equilibrio ha storicamente assunto, scaturiscono due conseguenze, prima di tutto la impossibilità di giovarsi di quel concetto come d’un canone d’interpretazione storiografica, nel senso cioè di voler ricercare la continuità di un’unica politica d’equilibrio. In tal caso si correrebbe il rischio di ridurre ad uno pseudo-problema, ad una vana indagine fatta d’accostamenti estrinseci, la reale complessità del processo storico, che risulta da un perenne porsi e scomporsi di relazioni d’interessi e di rapporti di forze. In secondo luogo, la convinzione del valore effimero d’una politica d’equilibrio intesa in senso meramente empirico, come bilancia di pesi contrapposti, quando non vi agiscano motivi ben diversamente profondi e operanti.
(in Carlo Morandi, L’idea dell’unità politica d’Europa nel XIX e XX secolo, Milano, Marzorati, 1948)