LA PERSONALITÀ DEL RE SOLE

di Carlo Morandi –

Luigi XIV incarnò l’essenza dell’ancien régime, fondendo l’idea religiosa con quella monarchica. Perseguì una politica estera ed economica espansionistica, lasciando ai posteri l’immagine di un regno che da Versailles diffondeva la luce dell’arte e della cultura su tutto il continente. Lo storico e politologo Carlo Morandi (1904-1950) ci offre un ritratto a tutto tondo del sovrano e della Francia all’apice del suo prestigio.

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«Alto, le spalle un po’ larghe… agile in tutti gli esercizi del corpo», non bello, ma con gli occhi dolci e brillanti che rischiaravano un volto pallido dove il vaiolo aveva lasciato le sue indelebili stigmate, tale doveva apparire, secondo le descrizioni dei contemporanei, Luigi XIV su la soglia dell’età matura. Più tardi la sua fisionomia andrà modificandosi in alcuni particolari, e assumendo una        più netta caratteristica, quasi ad esprimere, insieme col portamento, una regalità ed una forza che Luigi subito non ebbe, ma raggiunse gradualmente, cosi come per gradi innalzò il proprio edificio di sovrana potenza.
Era nato a Saint-Germain-en-Laye, il 5 settembre 1638, da Luigi XIII e Anna d’Austria; e poiché la nascita, dopo ventitré anni di matrimonio, parve miracolosa e provvidenziale, fu battezzato col nome di Louis-Dieudonné. La morte del padre lo elevò solo nominalmente al trono il 14 maggio 1643, di fatto Anna d’Austria ottenne dal parlamento la reggenza «con piena autorità» e se ne giovò per raccogliere e affidare tutto il potere nelle mani del Mazarino. Privo dell’educazione paterna, lontano dall’influenza della madre, che ritrovava solo ora la pienezza di una vita amorosa, il fanciullo crebbe in una sorta d’isolamento, estraneo agli affetti familiari. La scarsa vivacità naturale parve un indice d’intelligenza torpida e fiacca; era invece il faticoso temprarsi d’un carattere nell’ambiente sordo ed ostile d’una Corte che mirava a contrapporre il giovane re al potente ministro. Di qui un istintivo bisogno di sorvegliarsi, di evitare ogni confidente abbandono, un precoce rinchiudersi in se stesso. Tutta la giovinezza di Luigi fu un continuo sforzo di disciplina interiore; anche dopo uno scatto di collera o una disobbedienza improvvisa, la natura calma e riflessiva prendeva il sopravvento.

Fin dal 1646 la Reggente delegava la tutela e la cura del figlio al Mazarino, e accanto al governatore, maresciallo di Villeroy, costituiva un corpo insegnante d’indubbio valore, diretto dall’abate Hardouin di Beaumont e, più tardi, dal gesuita P. Paulin. Luigi mostrò scarsa inclinazione allo studio in senso scolastico; ma un vivo interesse per tutto ciò che richiamava la grandezza della Francia e della dinastia. Non che il giovane allievo rifuggisse dallo studio delle lingue (una versione del primo libro dei Commentari di Cesare porta il suo nome), delle matematiche o del disegno; ma in lui già appariva un senso meno libresco e più concreto del sapere: «Quand il vient au Conseil – notava il Mazarino – il me fait cent questions sur la chose dont il s’agit»; e in questa istruzione diretta il Cardinale ebbe senza dubbio una parte migliore e più attiva di quella che il Saint-Simon gli ha attribuito. Egli si preoccupava infatti d’impedire che il pupillo divenisse uno strumento d’opposizione nelle mani dei suoi nemici; ma non ne trascurò l’educazione politica, e più, forse, avrebbe fatto se il susseguirsi di lotte esterne ed interne non l’avesse continuamente assorbito. Pure, negli ultimi anni, i contatti furono frequenti, talvolta quotidiani, e nell’opera stessa del Mazarino Luigi XIV trovava una scuola di realismo politico feconda d’insegnamenti concreti. Tuttavia agli occhi dei sudditi la figura dominante del ministro sembrava perpetuare l’infanzia del monarca. Questi compiva invece, con regolare e costante sviluppo, la formazione della propria personalità. Si plasmavano le forze virili nella consuetudine degli esercizi fisici (caccia, equitazione) e nell’addestramento prediletto alla vita militare; ed emergevano pure le doti del carattere: riservatezza, senso profondo della dignità, radicata coscienza del dovere, un complesso di solide qualità che stupivano gli ambasciatori stranieri e testimoniavano d’uno spirito ormai maturo.

Con la morte del Mazarino giungeva l’ora della prova, l’istante «que je souhaitais et craignais tout ensemble depuis longtemps» (Mémoires, I). Luigi XIV aveva nutrito per il grande ministro un sentimento misto di riconoscenza e d’ammirazione; ma sentiva che la propria opera di re doveva differire da quella del Cardinale. Fino a quel momento egli era rimasto escluso dalla partecipazione diretta alla vita dello Stato; ma non estraneo, poiché da anni ne osservava attentamente ogni aspetto, cercando di formarsi dei giudizi propri, e di precisare una futura linea di condotta aderente ai bisogni che l’esperienza gli suggeriva. Negli anni della Reggenza i pericoli esterni e i disordini interni, lungi dall’abbatterlo, gli avevano dato piena coscienza dei suoi doveri e delle sue alte responsabilità. Le splendide vittorie militari, la conquista dell’Alsazia, la stessa pace dei Pirenei (1659) che riscattava, dopo un secolo, i duri patti di Cateau-Cambrésis (1559) ed escludeva per sempre la Spagna dall’egemonia in Europa, non lo avevano illuso: si trattava di possessi ancora precari, sempre contestati, che occorreva completare e garantire con una politica di sicurezza. Ma la nazione era stanca e le classi inferiori avevano molto sofferto: bisognava quindi «soulager les peuples», perché fossero poi in grado di rispondere all’appello del Re. Non così per la nobiltà ed il clero: il periodo della Fronda era ben vivo nel ricordo e pieno d’insegnamenti, Luigi ne aveva tratto una più intima conoscenza degli uomini, schiva d’illusioni e di debolezze, e in pari tempo una cresciuta volontà di ordinato dominio. Richelieu e Luigi XIII avevano lasciato, morendo, scarso rispetto per il Re, avversione per il Ministro; anche ora, nell’ansiosa attesa che circondava il sovrano ventitreenne, affioravano le ambizioni dei cortigiani e i desideri di potenti famiglie (Bouillon, Montmorency) pronte a trarre profitto da un primo segno di debolezza monarchica. Speranze subito troncate: in Luigi XIV l’istintiva avversione per «les rois fainéants» si tramutava in una ferma volontà di governo, e questa si manifesto anzitutto nel ristabilirsi della preminenza regia e delle funzioni sovrane che, dopo il 1624, i due cardinali avevano troppo usurpato. Ma non si tratta di un semplice ritorno al governo personale di Enrico IV; vi è qualcosa di più, la creazione di una complessa struttura gerarchica, di cui tutti gli organi non solo ricevono dal re l’impulso, ma lavorano sotto i suoi occhi e sotto il suo controllo. In tal senso Luigi XIV proseguiva e perfezionava la tradizione dell’assolutismo monarchico, attuando nella sua pienezza la massima del Le Bret « que le roi est seul souverain dans son royaume et que la souveraineté n’est non plus divisible que le point en géometrie» (De la souveraineté du roi, 1632).

Egli d’altronde non aveva bisogno di far appello ad una dottrina politica; vinta la Fronda, ormai la regalità sentiva intorno a sé il tacito consenso dell’opinione pubblica che la sorreggeva e stimolava ad una totalitaria affermazione. L’opera di Luigi XIV doveva soddisfare quest’esigenza, ed essere animata da un solo proposito, l’unità politica e morale del regno, perseguito sino in fondo, con una consapevolezza quasi religiosa della missione sovrana. Ciò traspare chiaramente dai Mémoires, che, se non possono considerarsi creazione diretta di Luigi XIV (furono in gran parte stesi dal Perigny e poi dal Pellisson), pure conservano quell’impronta personale che Sainte-Beuve chiama la «note royale», e certo esprimono assai bene il concetto ch’egli si formò dello Stato e del «métier de rot». L’idea nacque con l’inizio del regno; come ministro di se stesso, Luigi volle dare la giustificazione dei suoi atti, al pari di Richelieu (Testament politique) e del Sully (Economies royales); ma piú che «leçons éternelles de ce qu’il faut éviter ou suivre», come li giudicò il Pellisson, questi Mémoires volevano raccogliere il frutto delle riflessioni, il tesoro di una ricca esperienza, e giovare così all’educazione politica del Delfino. Emergono infatti i criteri direttivi del nuovo governo congiunti ad una comprensione notevolissima dello stato interno della Francia alla morte del Mazarino. Il giudizio che ne dà il sovrano («le désordre régnait partout», Mémoires, I), può apparire eccessivo quando si pensi all’opera restauratrice che il Cardinale intraprese dopo il 1653, e a cui contribuirono il Séguier, Le Tellier, e, in parte, lo stesso Colbert. Pure molto restava a compiere: occorreva un’opera complessiva di organizzazione che partendo dal centro (governo e corte) giungesse alla periferia attraverso una maggior disciplina degli intendenti e un riassetto generale dell’amministrazione.

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Jean-Baptiste Colbert presenta i membri dell’Accademia reale delle scienze a Luigi XIV, di Henri Testelin, 1667

Il 9 marzo 1661 il re annunciava alla Corte che ormai nulla si farebbe nello Stato senza suo ordine. Tutto il potere si doveva raccogliere nelle sue mani, ed i ministri non dovevano essere che fedeli collaboratori del Sovrano. Il quale fissò i limiti delle loro attribuzioni, e cominciò col ripristinare l’antico Conseil d’État o Conseil d’en haut, ma ridotto a tre membri e con esclusione dei familiari, dei principi del sangue e degli ecclesiastici; il che non gl’impedì di giovarsi, quando volle, di consiglieri estranei e massime del vecchio maresciallo di Turenne. Ma i ministri vennero scelti con assoluta preferenza tra i borghesi («il n’était pas de mon intérêt de prendre des sujets d’une qualité plus éminente», Memoires, I), e non ebbero «ni charge, ni patente, ni serment» (Saint-Simon). Luigi XIV mirava ad impadronirsi degli strumenti che avevano già fatto buona prova e a considerare i piú diretti collaboratori come leve di comando. Tuttavia la sua volontà trovò dei limiti nella realtà stessa delle cose. Quel l’influenza politica ch’egli cercò di togliere agli ecclesiastici, escludendoli dal Consiglio di Stato, di fatto risorgeva attraverso lo stesso «Conseil de conscience» o l’autorità personale dei singoli confessori (P. De La Chaise, P. Tellier); e i maggiori e piú fortunati ministri furono quelli (Colbert, Louvois, Torcy) che seppero dare al re l’impressione di essere semplici esecutori d’ordini, mentre in realtà erano i loro progetti e le loro idee che trionfavano attraverso il crisma della volontà sovrana. Luigi stesso lo riconosceva implicitamente nei Mémoires, dichiarando che gli ordini del Re dovevano essere fondati «sur la raison» e che occorreva perciò «laisser agir le bon sens» e, infine, ammettendo che del genio dei sudditi è fatto «le plus grand talent des princes».
Senza dubbio egli sapeva ascoltare con molta pazienza prima di decidere con pari fermezza. Tutti gli affari dovevano essergli sottoposti: la vigoria fisica, «son héroïque santé», gli rendeva possibile un lavoro assiduo, un’attività instancabile e prodigiosa. Profondo il contrasto fra i due aspetti della vita di Corte: quello frivolo e galante delle feste e degli intrighi amorosi, e l’altro denso di opere e di fatica che si attuava nelle quotidiane cure dello Stato. Né il trasferimento da Parigi a Versailles era stato casuale, sibbene indice d’una profonda mutazione di consuetudine e di norme. S’introdusse un cerimoniale solenne, sul tipo spagnolo e austriaco e si costituì una gerarchia regolata da un’etichetta severa. La persona del re divenne oggetto di culto da parte d’una folla di cortigiani che s’assiepava nei palazzi di Versailles, e il fulcro della vita della reggia, ove ogni atto e momento della giornata del sovrano dava origine ad una cerimonia e dove il tono dell’ambiente e le costumanze dovevano apparire come l’espressione perfetta della maestà regale.
Luigi XIV era veramente «le Roi Soleil»: luce dominante nel centro d’un mondo che da lui prendeva vita e intorno a lui armonicamente si muoveva. In quell’atmosfera le lodi diventavano inni, i consensi espressioni di servilismo, che lo spirito mordace del Saint-Simon giudicava come «fadeurs les plus vomitives». L’eco della vita di corte giungeva al Paese deformata e dava esca ai gazzettieri e libellisti, nei quali Luigi ebbe nemici ostinati, critici acerrimi, denigratori instancabili. Le stesse vicende private e familiari del re offrivano un facile bersaglio.

Ma di là dalla cerchia degli interessi familiari c’era pur sempre lo Stato con le sue esigenze supreme, cui tutto bisognava sacrificare e posporre.
Immenso il lavoro compiuto all’interno, nonostante un quarantennio di lotte diplomatiche e di guerre che assorbirono danaro, uomini ed energie. Luigi conosceva bene la Francia per averla percorsa piú volte, a lungo; e non gli erano sfuggiti i particolarismi, le diseguaglianze, gli abusi, tutto ciò che ancora rimaneva di eterogeneo e di non assimilato nell’organismo statale. Pur senza ricorrere a mutamenti radicali e improvvisi, e spesso mantenendo gli antichi quadri amministrativi, riuscì a soffocare le autonomie e a sostituirvi un sistema di rigorosa centralizzazione. Con l’istituzione progressiva degli intendenti quali rappresentanti diretti dell’autorità monarchica nelle province, si videro esautorati i vecchi governatori militari; «ces pauvres gouverneurs», li chiamò Madame de Sévigné, ai quali non rimase che «jouer des grands ròles de comédie». Insieme con le franchigie provinciali caddero quelle comunali; lo stesso simulacro delle elezioni municipali scomparve e le cariche si trasformarono in uffici. Rimasero i parlamenti, ma svuotati di ogni loro valore e funzione, sottomessi agli intendenti; e gli stati generali non vennero più convocati, lasciando che ne svanisse anche il ricordo. Innovazioni meno sensibili furono introdotte nell’amministrazione della giustizia, che faceva capo al re attraverso il Conseil des Parties: un’ordinanza del 1667 regolò la procedura civile ed un’altra del 1670 quella penale. Personalmente Luigi ebbe un senso austero, ma un po’ rigido della giustizia; né gli fu sempre possibile evitare che la sua autorità degenerasse in arbitrio (come si vede nei casi del Lauzun e del Mattioli); ed impedire il diffondersi dei mezzi abusivi di denuncia («lettres de cachet»).

Un’attività ben più feconda fu svolta nel campo dell’economia nazionale, ove però è assai difficile scindere l’opera del sovrano da quella di J. B. Colbert. Le finanze erano sconvolte dalle guerre, dalle lotte civili, dalle malversazioni dei funzionari. La creazione del «Conseil des finances» (1664), il processo per peculato e la condanna del Fouquet, la nomina del Colbert a controllore generale delle finanze (1665), posero le basi di un nuovo ordinamento che consentì una provvida revisione fiscale. Tolti parecchi abusi, vigilati i metodi di esazione, accresciuto il numero dei contribuenti, il gettito netto delle imposte salì da 32 milioni (1661) a 97 nel 1683. Il re verificava spesso i registri contabili, e firmava ogni anno «l’état au vrai» controllando le modifiche apportate ai bilanci preventivi. Ma riponeva piena fiducia nel Colbert.
Tutto il primo ventennio di regno è segnato da una vigorosa impronta costruttrice: nell’agricoltura con le ordinanze sulle acque e sulle foreste (1669), con il miglioramento del patrimonio zootecnico, con la distribuzione di sementi e di premi ai coltivatori; nell’industria con le provvidenze dirette a favorire le manifatture nazionali; nei lavori pubblici con la costruzione di strade, di ponti, di canali (Canal du midi), con la creazione di Versailles e gli abbellimenti di Parigi. Circondato da una folla di artisti e di tecnici, Luigi voleva il primato della Francia in ogni campo d’attività e non s’arrestava dinanzi ad una ardita innovazione; e se v’era taluno, come il La Bruyère, che si lagnava dell’eccessivo numero di nuovi edifici, di vie e giardini, di carrozze, rimpiangendo l’antica parsimonia, non mancavano le voci, come quella di Claude Perrault, che plaudivano ad ogni conquista della vita moderna.
Questa politica di efficienza e di prestigio doveva trovare nell’espansione commerciale e coloniale il suo naturale completamento. Il Re non ostacolò l’opera del Colbert che fu il vero animatore dell’emancipazione economica della Francia e che mirò ad imprimere il massimo impulso all’esportazione mediante il controllo della produzione e il vasto impiego dei dazi protettivi. Fu creata quasi dal nulla la marina mercantile; ampliato il porto di Marsiglia, attrezzati gli arsenali di Brest, Rochefort, Tolone, accresciuti i possessi coloniali in America e in Africa e, soprattutto, valorizzati con la formazione delle due Compagnie (1664), una per le Indie occidentali e l’altra per le Indie orientali, con la colonizzazione della Luisiana, col generale aumento dei traffici. Politica di sviluppo delle forze nazionali che, elevando la Francia al rango delle grandi potenze marittime, doveva fatalmente accrescere il numero dei suoi nemici, perché, insieme con la rivalità tradizionale del blocco absburgico, suscitava le gelosie dell’Olanda e dell’Inghilterra. Di qui l’urgenza di un programma di organizzazione militare che Luigi, assistito dal Louvois e dal Vauban, ideò e diresse con vigile cura e che, partendo da modifiche tecniche negli armamenti terrestri e da un aumento dei mezzi offensivi della flotta, giungeva ad un più vasto concetto di difesa nazionale imperniato sulla sicurezza dei confini e sulla copertura del Paese, mediante le linee fortificate di protezione e quelle «places de la frontière», il cui valore politico e strategico testimonia dell’intuizione esatta che Luigi XIV aveva avuto del compito avvenire della Francia.

Ma nel complesso di tutta la politica interna è possibile scorgere l’affermarsi di due tendenze diverse e quasi contraddittorie: da un lato l’accrescimento del potere personale del re, dall’altro la formazione di una monarchia burocratica, ordinata nei nuovi quadri amministrativi. Queste linee direttrici coesistono e si equilibrano nei primi decenni del regno e sono rappresentate dalla stretta collaborazione del re e di Colbert. Attraverso l’organizzazione dello Stato la volontà sovrana penetra in ogni parte: non vi è cellula del corpo sociale che non sia permeata di dispotismo. La nobiltà, da turbolenta e faziosa, ridotta a docile strumento della vita di corte; l’alto clero vincolato al re nella comune difesa della libertà della chiesa gallicana; la borghesia divenuta forza operante al servizio del monarca. Ma, d’altra parte, lo sviluppo del sistema amministrativo crea nello Stato delle istituzioni stabili che limitano, in virtù della loro stessa esistenza, la volontà personale del re; e quando questi, negli ultimi decenni del regno, sotto l’urto delle difficoltà esterne ed interne, accentua il carattere personale del proprio governo, tra le due forze già si delinea il futuro conflitto. Il dispotismo regio ha il sopravvento, ma deve ricorrere all’esercito, alla polizia, alla censura per governare, e, ciò nonostante, vede crescere le correnti intellettuali d’opposizione (Fénelon, Saint-Simon, Boulainvilliers). Si rende più manifesta la contraddizione latente nella politica di Luigi XIV: l’aver fatto appello all’iniziativa borghese, pur conservando la struttura tradizionale della società con i suoi privilegi ed abusi, e limitandosi ad accentrarli nelle mani del sovrano con lo scopo di renderli inoffensivi. Cosi, di fronte ai sacrifici resi necessari dalle guerre, dalle carestie, dal rapido crescere delle imposte (benché Luigi dichiarasse che la sola idea di dover elevare la tassazione gli causava «des peines infinies»), la nazione cominciò ad avvertire profondamente il peso dell’arbitrio. La nobiltà, resa inutile e dispendiosa, fece di Versailles una capitale falsa e fittizia, estranea alla vita del Paese, e il re circondandosene parve solidarizzare con essa ed allontanarsi dal popolo.
La monarchia di Luigi XIV, dispotica e al tempo stesso amministrativa, non poteva fruire che di un equilibrio precario: nell’urto delle due opposte tendenze è già in germe la crisi dell’ancien régime.

Anche la politica religiosa condusse a risultati analoghi. Coerente ai principi generali del suo governo, Luigi aveva mirato a tre scopi ben definiti: unità di culto, parziale autonomia della chiesa francese dal papato, assoluta dipendenza del clero dal re.
Nei confronti degli Ugonotti gli editti posteriori al 1661segnarono una progressiva restrizione dei loro privilegi; alle tenaci resistenze si rispose con le dragonnades, finché nel 1685 la revoca dell’editto di Nantes, attuata con estremo rigore, pose fine alla lotta. I protestanti erano senza dubbio una minoranza, ma ricca, attiva, intelligente: il loro annientamento creò, secondo il giudizio del Basville, intendente di Linguadoca, «un peuple irrité», ed ebbe profonde ripercussioni nella vita economica sociale ed intellettuale della nazione. Più grave, sotto certi aspetti, fu la lotta contro i giansenisti, in quanto apriva un dissidio nelle stesse coscienze cattoliche. Ma Luigi aveva bisogno di cancellare ogni interno contrasto religioso e di circondarsi dell’aureola di Cristianissimo, per sostenere di fronte al pontefice, in un’alternativa di aspri conflitti e di non durevoli accordi, la propria supremazia sulla chiesa gallicana. Senonché la politica regia, appoggiandosi ai vescovi e ai grandi prelati, fini con l’isolare, specie nelle campagne, la massa ecclesiastica e con l’accrescere quel distacco morale e sociale tra alto e basso clero, che, alla fine del XVIII secolo, sfocerà in un aperto contrasto politico.

Pure, l’impronta unitaria data alla Francia dall’opera personale del re fu così forte da lasciare tracce indelebili e da reggere allo sforzo di un cinquantennio quasi ininterrotto di lotte europee. Luigi è il continuatore della politica estera del Richelieu e del Mazarino, ma si accinge a proseguirla con una preparazione più vasta e più organica. La diplomazia francese compie, sotto la sua guida, un passo gigantesco: sviluppa una rete fittissima cli relazioni, un’attività senza soste, un’abilità fatta d’esperienza, di prestigio, d’intrigo. Il re ne difende gelosamente le prerogative dinanzi alle Corti straniere (donde gli energici interventi, presso Filippo IV nel 1662 e Alessandro VII nel 1664, per offese recate ai suoi ambasciatori), ma vuole che ogni ministro sia consapevole del valore della propria missione.
Luigi XIV s’avvantaggiò, in un primo tempo, della favorevole situazione europea; l’Impero impegnato a fondo coi Turchi, parecchi principi tedeschi legati alla Francia, Carlo Il d’Inghilterra desideroso d’aiuto e così poco vigile degli interessi britannici da lasciarsi indurre alla vendita di Dunkerque (1662), la Spagna indebolita, l’Olanda intesa a conservare la sua posizione commerciale. Furono anni di attesa e di intensa preparazione diplomatica e militare. Luigi maturava il primo disegno della sua politica estera : l’isolamento della Spagna; e alla morte di Filippo IV, valendosi del cosiddetto diritto di devoluzione derivante da una consuetudine del Brabante, si appoggiò al Portogallo e alla Lega Romana e invase le Fiandre (1667). La reazione europea fu pronta, ma non molto efficace; tuttavia la triplice alleanza dell’Inghilterra, Olanda e Svezia (23 gennaio 1668), indusse la Francia al trattato di Aquisgrana (2 maggio 1668) riconoscendole il possesso di dodici città fiamminghe e obbligandola a restituire la Franca Contea.

La pace, frutto della diplomazia dell’Aja, rivelò nell’Olanda l’ostacolo maggiore alle mire espansionistiche francesi. Da questo momento la politica di Luigi fu rivolta a creare il vuoto intorno all’Olanda, togliendole l’appoggio inglese e svedese. Ma la guerra, iniziata nel 1672 con una marcia vittoriosa del Turenne, ebbe sviluppi impreveduti, e, dopo il fallimento delle prime trattative di pace (1673), degenerò in una conflagrazione europea. La Francia aveva manifestato la sua forza ma anche la sua volontà aggressiva che suscitava l’esigenza di una comune difesa. Il re vide crescere nel giro di pochi anni il numero dei suoi avversari: l’Impero, la Spagna, la Danimarca, gli elettori di Colonia e del Brandeburgo. Perduta l’alleanza inglese, cercò nuovi aiuti legando a sé la Polonia e fomentando rivolte nei Paesi nemici, come in Ungheria e a Messina. Con la pace di Nimega (1678) dovette restituire i territori olandesi occupati, ma poté rifarsi sulla Spagna con l’annessione definitiva della Franca Contea e di altre città delle Fiandre occidentali. Però l’Olanda, raccolta intorno a Guglielmo d’Orange, aveva rivelato insospettate capacità di resistenza: ed ecco la diplomazia francese all’opera per allontanarla nuovamente dall’Inghilterra, e per alterarne l’equilibrio politico interno con gl’intrighi dell’ambasciatore D’Avaux presso i deputati degli Stati Generali. Per Luigi XIV la pace si risolveva effettivamente in una preparazione politica, economica, militare, della guerra. Ciò si vide anche meglio con l’intenso lavorio rivolto a sistemare la zona alsaziana-lorenese: furono richiamati antichi diritti non ben definiti dai trattati di Westfalia e convocate le «camere di riunione» che decisero in favore delle aspirazioni francesi. La politica dei confini al Reno si avvia a rapida attuazione con la presa di possesso di Strasburgo (1681); poco dopo, col consenso del Duca di Mantova, il Catinat occupa Casale. Clausa Gallia Germanis, mentre la porta d’Italia s’apre ai Francesi. È una tenaglia che mira a stringere l’Austria e che Luigi cerca di rendere più pericolosa sollecitando una nuova avanzata turca su Vienna (1683). Nello stesso tempo s’impadronisce del Lussemburgo, di Courtrai e Dixmude, costringendo la Spagna con la tregua di Ratisbona (1684) a riconoscere il fatto compiuto.

La potenza di Luigi XIV ha raggiunto l’apice: nelle sue mani la Francia è divenuta una grande macchina in movimento, che avanza senza soste e minaccia di sommergere le potenze vicine e lontane. Da questo momento la reazione europea s’intensifica, sorretta e stimolata da un vasto moto d’opinione pubblica che accusa la volontà egemonica del Re Sole di tendere ad una nuova monarchia universale. L’umiliazione inflitta a Genova (1684), la persecuzione dei protestanti, la pressione diplomatica esercitata sui grandi e sui piccoli Stati (Spagna, Savoia, Brandeburgo), affrettarono il formarsi della Lesa d’Augusta (1686). Luigi sperò di poter vincere i nemici separatamente abbattendo le forze dell’Impero, già impegnate dai Turchi, prima che gli altri collegati fossero in grado di agire. Ma soprattutto fece assegnamento sull’aiuto o almeno sulla neutralità dell’Inghilterra travagliata dalla crisi politica e dinastica. Invece la rivoluzione del 1688 e l’ascesa al trono di Guglielmo d’Orange sconvolsero i suoi piani, isolarono la Francia e fecero sì che il blocco anglo-olandese divenisse il fulcro della Grande Alleanza (1690). Luigi non desiste dalla guerra, anche se l’iniziativa in parte gli sfugge e se si trova costretto, su molti fronti, a mutare l’offesa in difesa. Ma non può nascondersi che la sua politica estera ha urtato troppi interessi e li ha coalizzati invece di dissociarli. Particolarmente significativa l’adesione alla Grande Alleanza dell’elettore di Brandeburgo e di Vittorio Amedeo Il, il che dimostra che nel tradizionale antagonismo tra Borboni e Absburgo s’inseriscono forze nuove, Stati più giovani che tendono a salire e devono fatalmente affrontare la potenza che impedisce o limita il loro sviluppo. Ed accanto ad essi vi sono l’Inghilterra o l’Olanda, cioè gli Stati che hanno debellato l’assolutismo monarchico e religioso, e che esprimono le esigenze economiche e mercantili della nuova borghesia capitalistica.

La guerra si protrasse dal 1690 al 1694 con alterne vicende, estendendosi anche alle colonie: i Francesi vinsero a Fleurus (1° giugno 1690), a Staffarda (1690), a Marsiglia (1693) e a Neerwinden (1693), ma furono nettamente battuti sul mare alla Hougue (29 maggio 1692). L’esercito era stanco, il paese esausto. Fallite le prime trattative di pace, con la mediazione della Svezia e della Danimarca, Luigi preferì premere sul Duca di Savoia per staccarlo dalla Lega, e vi riuscì cedendo Pinerolo e restituendo le terre occupate (1696) (1). Cosi cessarono, in Italia, le operazioni militari che da un biennio si trascinavano fiaccamente, e gli alleati si videro costretti a riprendere trattative generali di accordo che si conclusero nella pace di Ryswyk (20 settembre 1697). Pace di compromesso, che Luigi XIV sottoscrisse con l’evidente proposito di non esasperare gli avversari e di essere libero per imprimere un nuovo orientamento alla sua diplomazia. Infatti il consolidamento della potenza anglo-olandese e la migliorata situazione dell’Austria in Oriente, precludevano alla espansione francese altri sbocchi che non fossero i territori della corona spagnola. Ciò rendeva assillante il problema della successione di Carlo II, problema che senza dubbio Luigi ebbe presente fin dai primi anni di regno e che segna, in un certo senso, il punto di partenza e di arrivo della sua politica estera. Nell’inquieta atmosfera creata dalla lunga malattia del Cattolico, il Cristianissimo tenne a bada, in Europa, le ambizioni dei pretendenti elaborando progetti di partizione. Ma intanto fece svolgere nella corte di Madrid una finissima opera di penetrazione diplomatica; gli stessi ambasciatori stranieri ebbero modo di constatare come l’opinione pubblica spagnola si orientasse verso la Francia, mentre l’Austria s’illudeva di aver partita vinta mercé l’appoggio della regina. Il testamento di Carlo II, designando come successore il secondogenito del Delfino, Filippo d’Angiò, rappresentò il trionfo della politica di Luigi; ma questi accettandolo e delineando il compito del nuovo re come rivolto a «entretenir l’union entre les deux nations», dava il segnale di un più vasto conflitto europeo.

Risorse, ingrandita, la coalizione del 1689. La Francia ebbe per alleati, oltre la Spagna, il Portogallo, la Baviera, e, per breve periodo, il Piemonte che nel 1703 passò al nemico. Invano Luigi cercò altri appoggi minori, inviando in Italia (1701-1702) un abile diplomatico come il cardinale d’Estrées per promuovere una lega tra i principi della Penisola contro  l’Austria. Dovette far conto sulle proprie forze: e ancora una volta il mirabile organismo militare resistette alla durissima prova. Dopo le sconfitte di Ramilles, di Torino (1706), e la perdita dei domini spagnoli in Italia, la Francia attraversò un periodo di crisi profonda; ma il re seppe reagire, tenne testa al malcontento interno, rianimò l’esercito, avviò trattative diplomatiche pur continuando a combattere. Colse ancora una vittoria a Denain (1712) e poco dopo, sfruttando i mutamenti politici europei (avvento del partito tory al governo inglese, morte dell’imperatore Giuseppe I) concluse le paci di Utrecht (1713) e di Rastadt (1714). La Francia fu salva nelle sue migliori frontiere, che Vauban aveva reso quasi inviolabili; ma perdette l’egemonia politica, e vide ristabilirsi un nuovo equilibrio europeo a vantaggio dell’Inghilterra e dell’Austria. Anche più grave era il senso di profonda stanchezza, di impoverimento, di ristagno delle energie, che traspariva dalla vita interna del paese.
Troppo tardi per ricominciare: Luigi è al tramonto del suo regno; pure fino all’ultimo vuol assolvere il compito di sovrano, e disporre ogni cosa per l’avvenire. Assalito dal male, affida al duca del Maine l’educazione e la stessa persona fisica e morale del Delfino; inoltre gli rimette il comando di tutte le forze militari di Parigi. Sentiva l’approssimarsi di giorni oscuri e il timore dei disordini lo tormentava; ancora, dal letto di morte, ammoniva: «Ce qui importe… c’est l’union». Spirò, dopo una lunga agonia, il 10 settembre 1715.

Si chiudeva così un regno durato più di mezzo secolo, nel corso del quale la Francia aveva dominato nella vita politica e culturale europea. Il grande re, come riconobbe il Bossuet, aveva «bien servi Dieu et la France», aveva fuso l’idea religiosa e l’idea monarchica, aveva plasmato molte forze che, abbandonate, avrebbero finito col dissociarsi o disperdersi. Ma il suo regno ebbe un alto valore e un significato particolare anche per la luce che da Versailles si diffuse nell’Europa del tempo: un’arte, una cultura, un costume di vita; il segno tangibile di un’influenza che giustificava e insieme accresceva il prestigio della Francia. Tuttavia la fortuna di Luigi non fu grande negli anni che seguirono la morte («cette oraison funèbre n’est point un panégyrique» disse il Massillon, il 24 ottobre 1715 a Notre-Dame); continuava il Paese a vivere nel solco di questa tradizione, ma avvertiva in pari tempo gli aspetti negativi dell’eredità del Re Sole. Fu il Voltaire che, creando l’espressione «siècle de Louis XIV», diede rilievo e carattere proprio a un’epoca accentuando l’identità tra il sovrano e il suo tempo, tra l’impronta personale del re e l’opera collettiva della Francia. Il Regno del Grande Luigi apparve poi, nella storiografia romantica, come il momento tipico dell’ancien régime, nella sua fase solare, non ancora avvolto dall’ombre del tramonto.

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Note
(1) In realtà Vittorio Amedeo II si decise alla pace separata perché il peso della guerra d’Italia gravava quasi esclusivamente su le sue spalle. A più riprese, ma invano, aveva chiesto a Madrid e a Vienna aiuti più seri ed efficaci. Nel 1695 domandò alla Spagna il governatorato del Milanese, ma ottenne un rifiuto che finì con l’esasperarlo. D’altra parte la demolizione di Casale e il recupero di Pinerolo allontanavano dal Piemonte e dall’Italia la minaccia francese.

(da C. Morandi, “La personalità di Luigi XIV”, in Annali di Scienze Politiche, Pavia, 1934)