LA NASCITA DELLA SCRITTURA, TRA STORIA E LEGGENDA
di Luca Vinotto -
E’ in Mesopotamia che ha origine, circa 5000 anni fa. Ma non per merito di un sapiente alle prese col problema di conservare e diffondere la conoscenza. Bensì grazie a funzionari e mercanti che, più prosaicamente, devono rendere conto delle merci di cui sono responsabili.
Il contesto storico
Nel IV millennio a.C. la Mesopotamia è una delle regioni più avanzate del mondo, insieme all’Egitto predinastico e alla nascente civiltà di Harappa nella valle del fiume Indo.
È un processo che parte da lontano. La presenza umana nella regione è provata fin dal XII millennio a.C., durante il quale si sviluppano numerosi villaggi lungo il corso dell’Eufrate. Si tratta di piccoli nuclei dediti alla caccia e alla raccolta, spesso nomadi o seminomadi; nel X millennio a essi si affiancano i primi villaggi di agricoltori, dapprima lungo la fascia pedemontana dei Monti Zagros, una catena che si estende parallela al corso del Tigri dall’Anatolia al Golfo Persico, e quindi in tutto l’alluvio. Nei villaggi la vita è organizzata intorno ai nuclei famigliari, che in assenza di rapporti gerarchici conservano la massima autonomia; la differenziazione sociale sembra basata solo sull’età. L’architettura, prevalentemente di tipo domestico, è costituita da case circolari o ovali, di dimensioni standardizzate, in pietra o mattoni crudi. Alcune presentano piccole suddivisioni interne destinate allo stoccaggio dei cibi. La religione è basata sul culto degli antenati (sono frequenti i casi di asportazione del cranio che veniva conservato separatamente).
Fa eccezione il sito di Göbekli Tepe, una collina dominante la estesa pianura di Urfa nella Turchia sud-orientale. Gli scavi hanno messo in luce ambienti circolari costruiti in pietra e dotati internamente di enormi pilastri monolitici a forma di T che raggiungono in alcuni casi i 5 metri di altezza, che riportano scolpiti a bassorilievo lineamenti umani e un ampio spettro di animali selvatici come cinghiali, volpi, onagri, gazzelle, leoni, serpenti e uccelli acquatici, specchio di una società ancora fondamentalmente di cacciatori. Le strutture circolari di Göbekli Tepe, datate intorno al 9000 a.C, non sembrano aver avuto funzioni abitative, ma dovevano essere destinate a scopi cerimoniali e rituali per eventi quali la nascita, l’iniziazione, il matrimonio, la morte. Il sito rappresenta anche un importante centro di produzione per l’industria della selce.
Nei due millenni successivi i villaggi si moltiplicano, spesso per gemmazione, e si ingrandiscono dando origine alla cultura Hassuna dove l’agricoltura e l’allevamento sono ormai le fonti principali di sostentamento della comunità, e poi alla Samarra, che per prima sviluppa forme arcaiche di irrigazione artificiale. Con la cultura Halaf la produzione di ceramica diventa più ricca e i prodotti più sofisticati.
Questa rete di piccoli villaggi dalle caratteristiche case di forma circolare o rettangolare, dalle pareti intonacate e dotate di nicchie e con ambienti dedicati alla conservazione del cibo si estende velocemente per tutto i Levante: dalle sponde del Mediterraneo all’Anatolia centrale e all’altopiano iraniano, dando origine a un fitto commercio su brevi distanze.
Tra il VII e VI millennio (cultura di Ubaid), complice il progressivo ritiro delle acque del Golfo Persico, inizia l’occupazione da parte dell’uomo della Mesopotamia meridionale e con essa assistiamo a un cruciale cambiamento nel rapporto con la natura.
Mentre nella parte settentrionale della Mesopotamia le precipitazioni sono sufficienti a garantire un buon raccolto senza necessità di grandi opere, in quella meridionale la situazione è molto differente. La regione è pianeggiante, il terreno fertile e grazie al Tigri e all’Eufrate l’acqua vi abbonda; il clima però è secco e lontano dai fiumi le coltivazioni sono impossibili. Inoltre, le periodiche inondazioni dei fiumi sono un costante pericolo per gli insediamenti e i coltivi. Non basta più coltivare i campi per garantire la sopravvivenza della propria famiglia; è necessario realizzare imponenti opere idriche, quali i canali di irrigazione e i bacini di raccolta e contenimento delle acque, che non sono alla portata dei singoli nuclei famigliari.
Gradualmente l’organizzazione sociale si adegua alle nuove necessità: singoli individue e gruppi emergono come leader della comunità, migliorando il loro status (come si vede da una progressiva differenziazione nelle unità abitative) e si assiste allo sviluppo di forme di gestione comunitaria delle risorse. Inoltre, all’interno dei villaggi compaiono edifici di grandi dimensioni: i templi. Nascono con una duplice funzione, da un lato sono la “Casa del Dio”, in cui la divinità si manifesta “fisicamente”, dall’altro diventano il centro di raccolta e di conservazione delle risorse agricole – del resto, quale luogo più sicuro della dimora stessa della divinità?
Il surplus di produzione a disposizione del villaggio viene impiegato anche per nutrire la parte di popolazione impegnata nella realizzazione di opere di interesse comune – canali e bacini di irrigazione – che a loro volta creano le condizioni per aumentare i raccolti, determinando una spirale virtuosa di sviluppo. Inutile dire che col tempo colui che sovraintende al Tempio assume la guida non solo religiosa ma anche civile della comunità: nasce la figura dell’En, il “sacerdote-re”.
L’aumento della produzione permette il rapido sviluppo un commercio che coinvolge regioni anche lontane grazie al quale affluiscono in Mesopotamia materie prime di cui la regione è priva, soprattutto legname, rame e stagno. La lavorazione del metallo si intensifica e assume un ruolo sempre più importante. Questa nuova organizzazione sociale si estende progressivamente nel nord della Mesopotamia sostituendosi alle preesistenti.
Intorno al 4500 a.C., fa la sua comparsa un’altra etnia, che si affianca e amalgama con quella semitica: i Sumeri. Ho usato il termine “comparsa” non a caso, perché le circostanze che hanno determinato la loro presenza in quella regione sono ancora avvolte dal mistero. L’unica cosa che sappiamo sulla base dei primi testi scritti è che la loro lingua era profondamente diversa da quella parlata dalle popolazioni semite, per cui si ritiene che non fossero autoctoni, ma siano arrivati attraverso un processo di migrazione. Anche sulla loro provenienza il dibattito è ancora aperto. Gli studiosi propendono per considerarli originari o della valle dell’Indo o delle coste africane di Dilmun (attuale Bahrein). Secondo alcuni autori sarebbero fuggiti dalle regioni costiere dell’India, sommerse dal progressivo innalzamento delle acque dell’oceano conseguente alla fine dell’ultima glaciazione. È una tesi affascinante (ma tutta da confermare) che spiegherebbe il racconto del Diluvio Universale, elaborato dai Sumeri e poi ripreso dalla civiltà ebraica. In ogni caso, si stabiliscono nella Mesopotamia meridionale dove ben presto diventarono l’etnia dominante (a quanto ne sappiamo senza ricorrere a metodi cruenti, ma anzi convivendo pacificamente con i semiti).
Gli insediamenti semitici e sumerici crescono in numero ma soprattutto in dimensioni e complessità, fino a dare origine alla prima città.
L’urbe mesopotamica differisce dal villaggio non tanto per le dimensioni, quanto per le funzioni. Vi si svolgono una quantità di attività altamente specializzate, legate al suo ruolo di centro politico ed economico di un territorio più vasto. Coordinate dal potere centrale, masse di lavoratori sono sottratte permanentemente al lavoro nei campi e impiegate nella realizzazione di opere di interesse comune (canali di irrigazione, edifici pubblici, opere di difesa). L’amministrazione centralizzata di buona parte dei beni prodotti dalla comunità è il fulcro dello sviluppo: la loro redistribuzione a chi, svolgendo mansioni diverse, non può contribuire direttamente alla loro realizzazione, permette non solo la realizzazione di nuove infrastrutture, ma anche lo studio e lo sviluppo di nuove conoscenze e nuove tecniche.
Il primo centro abitato con queste caratteristiche è Uruk, sviluppatosi intorno al 3800 a.C. e che viene definitivamente abbandonata solo nel 200 d.C., diventando quindi una delle città più longeve della storia. Situata su uno dei rami con cui l’Eufrate all’epoca si gettava nel Golfo Persico, nel suo periodo di massima espansione (2900 anni prima di Cristo) è circondata da imponenti mura lunghe 9,5 chilometri che racchiudono un’area abitata di 5,5 kmq.: dimensioni più che doppie rispetto a quelle raggiunte nel 500 a.C. dall’Atene di Temistocle e pari alla metà di quelle che la stessa Roma imperiale raggiungerà ben 3.000 anni dopo.
Accoglie, oltre a edifici pubblici imponenti (alcuni più ampi del Partenone ateniese), diversi opifici, tra cui una fonderia che occupava un gran numero di lavoranti, segno di elevata specializzazione e organizzazione del lavoro. Sappiamo che i suoi abitanti svolgevano diversi mestieri: oltre al contadino, al pastore e al pescatore troviamo muratori, vasai, fabbri, birrai, tagliapietre, e anche barbieri, fabbricanti di feltro, argentieri, medici, aruspici e oracoli. L’amministrazione occupa funzionari e scribi con diversi gradi di responsabilità e le attività religiose sono gestite da sacerdoti di rango e con compiti ben differenziati. Alla loro testa c’erano i sanga, capi delle amministrazioni templari, gli shabra, cioè “prefetti” e a capo della città l’En, massima autorità religiosa.
I mercanti, anche loro funzionari al servizio della città, svolgono un ruolo fondamentale perché con loro viaggiano non solo i prodotti di Uruk ma anche le tecniche e le conoscenze sviluppate nella città e il suo stesso modello organizzativo. In questo modo, prima lungo il corso dell’Eufrate e poi in tutta la piana mesopotamica si creano, spesso all’interno di insediamenti semiti preesistenti, vere e proprie colonie urukite.
L’epoca durante la quale si verifica questo fenomeno di enorme importanza per la storia umana (dal 3800 al 3100 a.C.) viene giustamente definito periodo di Uruk e a esso viene fatta risalire anche quella che un antico scriba ha poeticamente definito “l’arte di mettere la parola nell’argilla”.
Le origini della scrittura
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la parola scritta non è stata partorita dalla mente geniale di un sapiente alle prese col problema di conservare e diffondere le sue conoscenze, ma dalle necessità ben più prosaiche del funzionario e del mercante che devono rendere conto delle merci di cui sono responsabili.
Fin dal IV millennio (periodo halaf) in Mesopotamia la merce viaggia accompagnata da sigilli in argilla che ne garantiscono l’integrità (cretulae). Si tratta di grumi di argilla applicati sul carico in modo da presentare da un lato l’impronta dell’oggetto (ad esempio le corde che chiudevano sacchi e cesti, il tessuto o la pelle con cui venivano coperti i vasi in ceramica e per i magazzini i pioli di chiusura delle porte dei depositi), dall’altra l’impronta di un sigillo del proprietario.
Il sigillo è costituito da un cilindro in osso o pietra sul quale sono riportati, in bassorilievo, disegni identificativi del proprietario.
L’uso di questo tipo di oggetti garantiva il controllo su eventuali effrazioni, perché la rottura della cretula equivale a una manomissione e quindi a un prelievo indebito.
Intorno al 3400 a.C., accanto alla cretula compare la bulla, costituita da un involucro di argilla contenente piccoli simboli rappresentanti la merce detti token (sfere, coni o dadi integri o forati realizzati in pietra osso o argilla) il cui numero rappresenta le unità, decine o centinaia, mentre il tipo individua la natura della merce e, in una transazione commerciale, il tipo di contratto. Sulla bulla viene impresso il sigillo che ne garantisce l’autenticità; in caso di contestazioni, la si rompe per verificare la concordanza tra i simboli contenuti e la merce effettivamente ricevuta.
L’idea è ingegnosa, ma a ogni controllo la bulla va rotta e quindi rifatta. Nasce quindi l’idea di sostituire i token con dei simboli incisi sulla superficie esterna, che si appiattisce fino a diventare una tavoletta di argilla grande come il palmo della mano.
Ogni segno, nasce come un disegno (pittogramma) della realtà che vuole descrivere: ad esempio, il segno ka è il disegno di una testa in cui si sottolinea la parte in cui si trova la bocca e significa, appunto, “bocca”. Ma invece di seguire la via di inventare un nuovo disegno per ogni aspetto del reale, sia materiale che immateriale, i Sumeri utilizzano un gruppo relativamente ristretto di pittogrammi, che non supera in nessun periodo storico il numero di qualche centinaio, attribuendo allo stesso segno significati che ritengono simili. Quindi, il segno ka, oltre a indicare come disegno una “bocca”, può esprimere i termini “parola” e “urlo”, ma anche “dente” e “naso”, in quanto realtà che si trovano nella parte anteriore della faccia, e al contempo il verbo “parlare”. Il significato corretto lo si può desumere solo dal contesto della frase.
Compare ben presto lo strumento indispensabile dello scriba: lo stilo. È una canna sottile, smussata in punta che lascia sull’argilla fresca un segno a forma di cuneo. La necessità di ridurre lo spazio occupato sulla tavoletta, di standardizzare i segni e (probabilmente) di accelerare l’atto dello scrivere portano a stilizzare sempre più la loro forma. Ecco come è stato disegnato il pittogramma “testa” nel corso di varie fasi storiche (Borger).
Le tavolette sono grandi quanto il palmo di una mano, per cui spesso lo scriba doveva utilizzarne più di una per completare il testo, Per consentire una più facile archiviazione e reperimento delle informazioni, alla fine di una tavoletta si può trovare quello che viene chiamato generalmente «colofone». Si tratta di una sezione in cui sono riassunte le informazioni principali del documento. Nei testi amministrativi il colofone riporta i totali dettagliati e ricapitolativi dei computi delle uscite ed entrate, il genere di operazione (uscita, entrata, rendiconto, etc.), la struttura amministrativa o l’area geografica interessata, i funzionari coinvolti nell’operazione (chi dà, chi riceve, chi è il responsabile, etc.), la data e, in casi specifici, delle informazioni supplementari. Nei testi letterari il colofone ha la stessa funzione informativa e la stessa disposizione, ovvero alla fine della tavoletta, e riporta la prima frase della tavoletta successiva.
Data l’importanza assunta da Uruk nel periodo in cui è nata la scrittura non è certo un caso che sia nel Tempio Rosso di quella città che sono stati trovati gli esempi più antichi della scrittura cuneiforme. Il periodo a cui questi rinvenimenti risalgono è il 3100 a.C. circa.
Fin qui la storia, per come le nostre attuali conoscenze ci hanno permesso di ricostruirla. Ma la ricerca, fortunatamente, è in continua evoluzione e già ci sono studi che ipotizzano l’utilizzo di una scrittura proto cuneiforme su supporti di legno o argilla nella Mesopotamia settentrionale già dal IV millennio a.C. Se ulteriori scavi in queste aree confermassero questa ipotesi, le tavolette di argilla trovate a Uruk costituirebbero solo una fase, per quanto importante, dello sviluppo della scrittura: quello della sua prima diffusione e standardizzazione, resa necessaria dalla rapida diffusione delle città.
Da allora e per oltre tremila anni questo tipo di grafia a forma di «chiodo» è utilizzato non solo in Mesopotamia, ma anche in Iran, l’Anatolia e la Siria-Palestina, venendo assunto come mezzo per esprimere le lingue più svariate.
La scrittura vista da chi l’ha creata
«L’arte della scrittura è la madre degli oratori, il padre dei maestri; l’arte della scrittura è appassionante, non ti sazia mai; l’arte della scrittura è difficile da imparare, ma colui che l’ha appresa avrà il mondo in mano. Cura l’arte della scrittura, ed essa ti arricchirà; sii diligente nell’arte della scrittura, ed essa ti riempirà di ricchezza e abbondanza.»
Così inizia il documento di un antico scriba sumero. Non sorprende che in una società in cui l’economia è fortemente centralizzata ed è vitale il controllo dei flussi e delle giacenze delle merci, l’arte dello scrivere sia tenuta in così gran rilievo. E lo scriba doveva essere ben remunerato, se la considera un mezzo per diventare ricco e vivere nell’abbondanza.
Un poema sumerico offre una spiegazione dei motivi e delle circostanze che portarono l’uomo a utilizzare questo dono, talmente poetica e interessante che vale la pena citarla. Si tratta del brano “Enmerkar e il Signore di Aratta”, che descrive il lungo contenzioso tra Enmerkar, un sovrano mitico della prima dinastia di Uruk, nonno, forse, del più celebre Gilgamesh, e la lontana città di Aratta, probabilmente una colonia “riottosa” della città sumera. Di quest’ultima il poema non fornisce il nome del sovrano.
Essendo Aratta molto distante da Uruk (probabilmente era situata oltre l’altopiano iranico, ma non è stata ancora individuata) Enmerkar affida le sue parole a un messaggero. Questi va e torna più volte con le risposte di Aratta, ma un accordo non si trova: Aratta continua a rifiutarsi di obbedire agli ordini di Enmerkar, anzi pretende che questi si sottometta al suo volere!
Il signore sumero – all’epoca Uruk era di gran lunga il centro più importante di tutta la Mesopotamia – si convince che forse la scarsa abilità o la scarsa memoria del suo inviato sono d’intralcio alla difficile trattativa. E allora… «Poiché il messaggero, avendo la bocca pesante, non era capace di ripetere il messaggio, il Signore di Kulaba [principale quartiere dell'antica Uruk] diede forma all’argilla e mise delle parole in essa [...]. Prima di ciò, le parole non erano mai state messe nell’argilla.[…] il Signore di Kulaba incise le parole sulla tavoletta e esse furono visibili.»
“Mettere le parole nell’argilla” consente serve quindi a mantenere i rapporti diplomatici tra il potere centrale e le sedi più distanti. È una motivazione che sembrerebbe in contrasto con quelle commerciali ipotizzate dagli studiosi moderni, ma lo è solo in parte. Nel poema, infatti, la richiesta iniziale di Enmerkar riguarda il pagamento di un tributo in pietre preziose, a cui Aratta risponde sulle prime chiedendo in cambio una partita di cereali; il dissidio divampa quando, inviato il carico, Enmerkar non riceve quanto pattuito. Per cui, alla fin fine, il contrasto diventa commerciale.
Il poema contiene una bella descrizione del momento in cui il messaggio viene recapitato al re avversario: «il signore di Aratta scrutò la tavoletta: – la parola detta ha forma di chiodo, la sua struttura trafigge!»
È indubbiamente molto poetico l’accostamento tra la forma che assume la parola scritta in caratteri cuneiformi e l’effetto quasi traumatico che essa ha su chi legge, come se fosse una nuova arma di inaudita potenza. Per la cronaca, lette le tavolette il re di Aratta è propenso ad accettare la supremazia (culturale?) di Uruk. Ma un intervento di Inanna lo fa ricredere e lo induce a continuare l’estenuante contesa.
Purtroppo, il poema non ci è giunto nella sua interezza e non ne conosciamo l’esito; possiamo però arguirlo, poiché Uruk è passata alla storia mentre Aratta, incapace di conservare le proprie memorie, è stata destinata all’oblio.
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Per saperne di più
Giovanni Pettinato, I Sumeri – Bompiani 2007
Marc Van De Mieroop, A History of the Ancient Near East ca. 3000-323 b.C. – Wiley, 2016
Lorenzo Verderame, Introduzione alle culture dell’antica Mesopotamia – Mondadori 2017
Davide Nadali e Andrea Polcaro, Archeologia della Mesopotamia antica – Carrocci editore 2018
Franco D’agostino, I Sumeri – Hoepli 2020
Mario Liverani, Oriente e Occidente – Laterza Editore
Lucio Milano (a cura di), Il vicino oriente antico – EncycloMedia Publishers