LA MORTE DI STALIN SECONDO KRUSCEV

di Vincenzo Grienti -

A dieci anni dalla scomparsa del dittatore sovietico, Nikita Kruscev rilascia un’intervista al settimanale Epoca. E’ quasi alla fine del suo percorso politico, ma vuole tramandare ai posteri la narrazione di quella notte del marzo 1953 in cui morì il grande tiranno.

20140215_140316Il dittatore era riverso sul pavimento, in una “dacia” fortificata a 84 chilometri da Mosca. Sette uomini lo videro e tacquero per tre giorni prima di dare la notizia al popolo sovietico. Così l’incipit del sommario a pagina 28 di Epoca del 7 aprile 1963. Il settimanale pubblicava l’intervista di Georges Kessel a Nikita Kruscev che raccontava la morte di Joseph Stalin. La grande fotografia in bianco e nero della salma esposta nella “sala delle colonne” del Palazzo Sindacale di Mosca immortalava per sempre colui che aveva fatto entrare l’Urss nella Seconda guerra mondiale, fermando l’avanzata delle truppe nazi-fasciste. La foto fece il giro del mondo. Si era in piena Guerra fredda e sulla morte di Joseph Vissarionovich Dzugasvili detto Stalin non mancarono dubbi e perplessità. Secondo i comunicati ufficiali Stalin era morto al Cremlino il 5 marzo 1953. Ma il “giallo” iniziava proprio lì. Infatti, vi erano stati tre comunicati ufficiali: il primo in data 2 marzo del 1953 annunciava: “Nella notte dall’1 al 2 Stalin è stato colpito da emorragia cerebrale”. Il secondo, diramato l’indomani, precisava: “Stalin soffre di disturbi respiratori che, a tratti, assumono un carattere preoccupante”. Infine il terzo, datato 5 marzo, concludeva: “Il suo stato si è aggravato nel pomeriggio di oggi e alle 21.30 Stalin è deceduto”. Dunque uno scarto tra versione ufficiale e verità storica? Forse sì. Forse questo scarto potrebbe essere quantificato, secondo quanto emerge dall’inchiesta di Georges Kessel, proprio in tre giorni e 84 chilometri.

La verità su come andarono i fatti la lasciò trapelare proprio Nikita Kruscev nel decimo anniversario dalla morte di Stalin nel 1963. Come mai questa decisione? Come mai, si chiede lo stesso reporter che firma l’articolo per il settimanale diretto da Nando Sampietro, Kruscev vuole togliersi “il bue dalla lingua”? Lo si deve al suo carattere loquace oppure al suo bisogno di liberarsi da un peso troppo pesante? Andiamo per gradi. Ciò che avvenne nel marzo del 1953 Kruscev lo rivelò a spizzichi e bocconi ad alcuni suoi stretti collaboratori. Al riguardo una premessa: le condizioni atmosferiche. L’inverno del 1953 a Mosca era particolarmente freddo. Negli ultimi giorni di febbraio c’erano state abbondanti nevicate e venti siberiani avevano flagellato la steppa. Gli spalatori erano apparsi da poco per le vie della capitale moscovita, ma un’ondata di gelo provocò non pochi ritardi all’opera degli spazzaneve. Dunque non era inusuale assistere al blocco delle strade per via di enormi mucchi di neve ammassata. La notte del primo marzo fu il momento peggiore. Alla chiusura degli uffici i cittadini moscoviti si rinchiusero in casa. Kruscev era andato a letto, ma era sveglio quando il telefono squillò. Era mezzanotte.

Stalin

Stalin pochi mesi prima della morte

“Compagno Kruscev, parla il comandante della guardia del compagno Stalin – disse l’interlocutore dall’altra parte della cornetta -. Siete pregato di recarvi subito nella sua dacia”. Kruscev telefonò subito all’autorimessa del Cremlino perché gli mandassero una macchina. Anche la moglie di Kruscev, Nina, si alzò preoccupandosi di dire al marito di mettersi due maglie per proteggersi da freddo. Prima di uscire Kruscev bevve due bicchieroni di vodka. Poi si recò verso l’automobile che era pronta davanti al portone. Alla prima svolta, giungendo sulla piazza di Arbat, nonostante l’autista andasse adagio la macchina sbandò e una ruota urtò contro il marciapiede. Fu l’occasione per accorgersi che in quella notte buia e fredda non era solo Kruscev a recarsi nella “dacia” di Stalin. Le automobili, compresa la sua, erano sette. Tutte dirette nel medesimo posto. Si trattava di tutti i membri del Presidium: Molotov, Beria, Malenkov, Bulganin, Kaganovich, Voroscilov e naturalmente lui, Kruscev. Il principale timore di Kruscev fu quello della guerra. “Forse Stalin aveva preso la terribile decisione di fare la guerra all’America?” pensò Kruscev. L’Armata Rossa non era pronta per un eventuale conflitto. Per un attimo egli ritornò al 1944. Era febbraio e Kruscev si trovava sul fronte ucraino quando ricevette l’ordine di andare subito al Cremlino. Per fare prima, il generale Kruscev chiese un aereo, ma le condizioni climatiche a Mosca non permettevano l’atterraggio del velivolo. Così dovette fare il viaggio dal fronte ucraino fino a Mosca con l’automobile. Kruscev rievoca a Georges Kessel quella notte di guerra del 1944: “Il mio aiutante ed io fummo condotti in un’altra dacia, più vicina a Mosca. Io solo fui ammesso nella stanza di Stalin. Stava seduto dietro un grande tavolo di legno bianco coperto da carte topografiche e di bottiglie di vodka, molte delle quali erano gia’ vuote”.

Kruscev e Stalin nel 1936

Kruscev e Stalin nel 1936

Kruscev si sedette davanti a Stalin ed iniziarono a dialogare sulla situazione militare e nel frattempo non smisero di bere vodka, tanto da far dichiarare a Kruscev stesso, sempre nell’intervista concessa a Epoca, di aver pensato tra se e se: “Nikita, mantieniti lucido. Ora ti darà degli ordini e tu dovrai ricordartene ed eseguirli, quali che siano. Eseguirli, se no per te sarà finita”. Il racconto del generale prosegue nel suo ricordo a dieci anni dalla morte del dittatore: “Dovettero accompagnarmi sino alla macchina. Stavo male ma non tanto per la vodka, quanto per la vergogna di farmi vedere in quello stato, io, il generale responsabile del fronte ucraino, dai soldati della guardia e dal mio aiutante di campo, un valoroso coperto di ferite e di medaglie”. Non erano i singhiozzi dell’ubriaco quelli in cui proruppe standosene seduto accanto all’autista. “Io singhiozzavo di vero pianto. Piangevo per quelle decine, centinaia di migliaia di giovani che avrei dovuto mandare al massacro per obbedire agli ordini di Stalin. Aveva deciso di scatenare una serie di offensive non coordinate, assolutamente inutili”.
Per Kruscev rifiutarsi di obbedire avrebbe significato la condanna a morte. Nessuno tra i più vicini collaboratori di Stalin aveva mai osato rifiutarsi. Neppure Beria che teneva tutti sotto scacco con i suoi poliziotti e le sue spie.
“Noi non potevamo far altro che obbedire. E aspettare – sosteneva Kruscev nell’intervista di Kessel -. Ma questa attesa di anno in anno diventava sempre più insopportabile”.

Quella notte del 1° marzo del 1953 mentre si recava al suo appuntamento con Stalin, Kruscev non poteva fare a meno di ripensare a tutto a questo. Poi le sette automobile raggiunsero il luogo della residenza invernale dove dimorava Stalin. Una struttura fatta costruire nel XVIII secolo da uno dei favoriti della Grande Caterina di Russia, il conte Orlov. Tra le voci che circolavano sul conto di quella residenza, la più insistente era quella che sosteneva che la ricostruzione dell’edificio da parte di Stalin fosse stata fatta adeguandola ai suoi gusti e soprattutto puntando molto sulla sicurezza.
I sette fedelissimi di Stalin percossero il viottolo che dalle mura di cinta ricoperte di filo spinato e corrente elettrica portavano dall’ingresso fino alla “dacia” dove dimorava il dittatore sovietico. Il percorso era pieno di curve, alcune delle quali nascondevano delle mine antiuomo. Ad un tratto i sette furono bloccati dalla guardia personale di Stalin. Si trattava dei caucasiani, militari che prendevano ordini solo da Stalin. Lo stesso Beria, che era il capo supremo della polizie e delle milizie, fu perquisito come tutti gli altri, Kruscev compreso. La paura di Stalin, così come rivelava il generale, era quella che “uno di noi potesse nascondere un’arma”. Questo il ricordo di Kruscev: “Il nostro Stalin, il compagno che avevamo conosciuto coraggioso sino alla temerità, di cui avevamo ammirato le eccezionali qualità e apprezzato la profondità e la giustezza di vedute, colui che aveva preservato il Partito dagli scismi e lo aveva difeso contro gli avventurieri, colui che aveva salvato l’Urss e che, se non altro per la fede suscitata nel popolo russo, aveva vinto la guerra, si era a poco a poco ripiegato su se stesso e diffidava di tutti. L’incubo di morire assassinato – proseguiva Kruscev nel suo racconto -, si era impadronito di lui dopo la fine tragica di Kirov, suo figlio spirituale, e lo aveva portato alla follia”. Parole forti che il generale Kruscev avvalorava ancor di più citando la lettera della figlia Svetlana.

tumblr_inline_mgwe1nwy6Q1r2ai2cLa residenza dove dimorava Stalin era molto articolata: i visitatori solitamente veniva ricevuti sotto stretta sorveglianza del comandante delle guardie, in uno studio a pianterreno. Ma quella notte del 1° marzo 1953 i sette personaggi convocati da Mosca non trovarono Stalin nello studio. A riceverli c’era solo l’ufficiale caucasiano. Fu l’ufficiale a raccontare gli eventi che avrebbero cambiato la storia dell’Urss. Come al solito, scrive il giornalista Kessel, alle sette di sera Stalin aveva ordinato la cena, ma alle dieci non aveva più telefonato per il te. Per due ore i caucasiani avevano atteso che squillasse la suoneria, ma niente. Un fatto simile non era mai accaduto. Perciò intorno a mezzanotte l’ufficiale caucasiano aveva corso il rischio di telefonare a Stalin. Senza risposta. Allora aveva deciso di telefonare a Mosca, alle sette persone più fedeli di Stalin. Non voleva prendersi da solo la responsabilità di forzare la porta blindata.
Fu Molotov a ordinare che la porta venisse aperta. Per aprirla occorrevano però delle sbarre di ferro e nella dacia non ce n’erano. Kaganovich, allora, mandò a prendere dei picconi rompighiaccio che solitamente si portavano nel bagagliaio delle automobili. Così i caucasiani iniziarono a scardinare la porta. Finalmente, quando si spalancò, il gruppo si addentrò nel corridoio, con il fiato sospeso, aspettandosi di udire la voce di Stalin. Ma li accolse un silenzio tombale. Bisognava andare avanti e sfondare le altre tre porte delle altre tre stanze dove solitamente il dittatore si ritirava. Appena la porta della prima stanza si aprì, l’ufficiale che era avanti a tutti si arrestò di colpo, quasi impietrito. Allora Beria lo spinse ed entrò.
“Io – raccontò Kruscev al giornalista Kessel – stavo proprio dietro a lui. Ed ecco quello che vidi: Stalin, vestito con l’uniforme di maresciallo, giaceva sul pavimento a faccia in su. Alle mie spalle gli altri avevano fretta di vedere e spingevano per entrare nella stanza. All’improvviso, trionfale, stridula e penetrante, si udì la voce di Beria: il tiranno è morto, morto, morto!”.

Per saperne di più
G. Kesse, “Kruscev racconta la morte di Stalin”, in Epoca, n. 654, 7 aprile 1963.
Boris Souvarine, Stalin – Milano, Adelphi, 1983.
R. A. Medvedev e Z. A. Medvedev, Stalin sconosciuto – Roma, Editori Riuniti, 1983.
B. Basanov, Sono stato il segretario di Stalin – Roma, Edizioni paoline, 1979.