LA CULTURA STRATEGICA COME SFIDA ALLE GUERRE ATTUALI

di Massimo Iacopi -

Da circa mezzo secolo gli Stati Uniti faticano a raccogliere i frutti dei loro enormi investimenti politici e militari. Dal Vietnam all’Afghanistan, passando per l’Iraq, gli interventi messi a segno dalle diverse amministrazioni si sono dimostrati tutti di scarsa efficacia strategica. Il modello militare americano si trova forse in un vicolo cieco?

Al centro delle difficoltà militari statunitensi si trova sempre il paradigma neo-clausewitziano, nato dalla convergenza delle teorie di un Antoine de Jomini osannato e di un Karl Clausewitz reinterpretato, nonché coniugato a una esperienza storica determinante. La cultura strategica americana si è strutturata intorno a questa eredità di un mondo che è scomparso, la cui idea madre è che tutti i conflitti possano essere pensati rispetto e in relazione a un modello centrale: la guerra fra Stati con una concentrazione senza limiti della potenza (non si tratta del pensiero del Clausewitz che è, come noto, molto più complesso ed elaborato e concepisce la distruzione dell’avversario come un mezzo per un fine politico e non come un fine a sé stante: si tratta in effetti del pensiero dei suoi interpreti, specialmente tedeschi della seconda metà del XIX secolo). Oggi, mentre la diversità delle crisi rende più spesso inefficace questo paradigma sia per la comprensione del problema sia per l’azione, le forze armate americane si trovano in difficoltà e si ritirano dal mondo.

Colpire rapidamente, vincere velocemente, disimpegnarsi

L’americano G. F. Hoffman è di grande attualità quando descrive la tradizione americana di superpotenza strategica (Decisive Force: The New American Way of War, Praeger, Westport CT, 1996), concentrata in modo diretto verso la distruzione dell’avversario: “Le Forze Armate americane mostrano una predisposizione particolare per offensive di portata strategica, sostenute da una completa mobilitazione nazionale, utilizzando le capacità economiche e tecnologiche della nazione al fine di esprimere la superpotenza nella maniera più diretta e più decisiva possibile”.
L’America vuole vincere rapidamente con forze che, applicando massicciamente o brutalmente un livello di violenza elevato, consentano un’azione viva, in condizioni di sferrare un folgorante colpo decisivo e di ritornare velocemente alle preoccupazioni abituali. L’azione tradizionale è, pertanto, “l’azione di potenza”, che mira a sommergere il nemico nella quantità: ovvero capacità organizzativa per schierarsi e quindi applicare il massimo della forza. Se la tendenza generalizzata è ormai quella dell’alleggerimento delle forze, in tale contesto è la tecnologia quella che consente di conservare il principio generale, accentuando, ancora di più, l’effetto attraverso la rapidità del colpo sferrato: in effetti, l’applicazione della potenza si accresce in efficacia proprio perché “l’energia cinetica”, il rapporto “energia distribuita/tempi dell’azione” risulta migliorato. La tecnologia può fare evolvere mezzi d’azione e modalità di applicazione, ma l’idea di base rimane la stessa: colpire rapidamente, vincere presto e senza perdite, quindi disimpegnarsi. Questa idea di fondo pervade gli spiriti e i modelli delle forze americane.
Dopo tanti anni di attenzione alle guerre convenzionali, la tendenza del pensiero strategico è stata quella di considerare le insurrezioni come guerre su scala ridotta, con il rischio di trovarsi nell’incapacità di applicare modelli e principi teorici in situazioni opposte alla cultura tradizionale. Secondo il tenente colonnello John A. Nagl (Learning to Eat Soup with a knife. A Memoir of Modern War in Theory and Practice, The University of Chicago Press, EU, 2005) “(l’idea che) qualsiasi nemico, su qualsiasi campo di battaglia, possa essere vinto, a condizione di poter disporre di sufficiente potenza di fuoco e che non ci siano vincoli per applicarla, ha impedito qualsiasi evoluzione istituzionale di fronte alla guerra di contro-insurrezione nel Vietnam”. E la stessa idea continua purtroppo a imperare. Da questa situazione derivano le attuali difficoltà di adattamento nei confronti degli impegni del presente. Questi ultimi richiedono che prevalga l’iniziativa ai bassi livelli, mentre, per contro, gli stessi rimangono gestiti in centri d’operazioni giganteschi, che comportano “innumerevoli file di uffici pieni di computer” e inseriti “in basi immense che spersonalizzano e non sollecitano un’immersione culturale”, secondo la descrizione del giornalista Thomas E. Rickert (Fiasco: l’aventure américaine en Irak, Michalon, Parigi, 2008).
Peraltro, la tradizione americana “digerisce” molto male le perdite in vite umane, dal momento che esse appaiono sproporzionate rispetto agli interessi immediati. Si tratta, pertanto, di concepire modelli di forze, armamenti e strategie che consentano di economizzare il numero di vittime. La tendenza generale è quindi quella di evitare il contatto, proprio perché il contatto produce perdite. Da ciò deriva anche la priorità attribuita al fuoco rispetto all’urto e l’impiego di bombardamenti (a volte indiscriminati) che hanno comportato, in Iraq come in Afghanistan, un’estensione e una radicalizzazione dei gruppi armati. Ecco dunque l’importanza data ai bombardamenti terrestri e aerei, così come la fiducia riposta nelle armi stand off (a distanza), che permettono di rimanere fuori della portata degli avversari. Ecco, ancora, la ricerca di dottrine di impiego che permettano di evitare, per quanto possibile, gli schieramenti sul terreno che – seppur giudiziosi a livello tattico, ma penalizzanti a livello strategico – si sono rivelati controproducenti nelle guerre attuali.

Il disprezzo per la “Piccola Guerra”

La tradizione sempre rilevante, secondo la quale la sola vera guerra è la “Grande Guerra” e che le altre forme di guerra non sono degne delle forze armate americane, ha portato le autorità politiche e i comandi – ancora vittime della sindrome del Vietnam e della Somalia (We don’t do insurgencies) – a evitare conflitti che non siano “all out wars” (letteralmente, altro che guerre a fondo): esse vengono viste come problemi minori, che distolgono dal vero mestiere delle armi.
Da questa attitudine deriva un’altra tendenza, quella: “di aderire fortemente al dogma che l’America deve condurre solo grandi guerre convenzionali, di preferire accumulare armi ad alta tecnologia, in attesa del giorno in cui i nemici si lanceranno nel genere di guerra nel quale l’America eccelle, e di non riconoscere le insurrezioni come delle vere guerre” (Corum James C., Fighting the War on Terror, Zenith Press, St. Paul, MN, 2007) e, conseguentemente, a non comprendere che la “guerra reale”, la guerra che si combatte oggi e domani, è, effettivamente, proprio la “vera guerra (real war versus true war).
Ecco dunque che, agli inizi del XXI secolo, pochi ufficiali posseggono una seria conoscenza di questo tipo di scontri e, al contrario, persiste una forte attrazione “per una manovra cinetica a grande scala” (Quadrennial Defense Review, 2006) e il culto dell’offensiva e della distruzione dell’avversario attraverso l’applicazione massiccia della forza letale. Purtroppo, oggi, questi metodi, che mirano all’annientamento di “terroristi e ribelli”, provocano la resistenza e la radicalizzazione della popolazione locale, a causa dei “danni collaterali” che tale logica d’azione comporta.
Le strutture delle forze armate e la mentalità vigente non spingono i militari a impegnarsi in conflitti non convenzionali, dove l’azione non ha per obiettivo il distruggere. Le forze americane si impegnano solamente per vincere. A tal fine, esse vogliono sfruttare a pieno i loro vantaggi comparativi, la massa e la tecnologia. Ma, la tecnologia, che richiede obiettivi da individuare e da distruggere, si applica male su campi di guerra ambigui come quelli dei conflitti asimmetrici. D’altronde, proprio da questo motivo nascono le reticenze delle forze armate americane a impegnarsi in Iraq, proprio per la paura di non riuscire a trarre profitto dai loro vantaggi e quindi di rimanere implicati, al termine dello scontro, in una lunga missione di stabilizzazione, alla quale essi non si erano preparati. Queste reticenze erano state chiaramente espresse dall’ambiente del presidente Bush attraverso il generale Tommy Francks, responsabile delle operazioni, e dal Capo di Stato Maggiore Generale delle quattro armi, nonché dall’ex Segretario di Stato Colin Powell, e dai vecchi comandanti militari, fra i quali il generale Schwarzkopf, comandante americano nella prima Guerra del Golfo.

La “tatticizzazione” della strategia

L’americano James S. Corum (Fighting the War on Terror, Zenith Press, St. Paul, MN, 2007) evidenzia che “la fede nel determinismo tecnologico sta al centro della cultura militare americana moderna; questa preferenza per gli approcci scientifici ed high-tech è diventata estrema dopo le false illusioni fornite dalla vittoria del 1991 nella guerra del Golfo”. Una deriva concettuale che conferma la tendenza positivista sopra descritta, nell’illusione che la tecnologia possa surrogare la strategia.
Si è arrivati, in tal modo, alla “tatticizzazione della strategia”, denunciata da Michael Handel (Masters of War, Classical Strategic Thought, Frank Cass, London, 2001), vale a dire “alla definizione della strategia attraverso considerazioni operative di più basso livello”. Questa ossessione dei successi tecnici e tattici a danno del pensiero e della finalità strategica si rivela particolarmente dannoso nelle guerre di oggi, dove la dimensione politica ha il sopravvento su qualsiasi altra dimensione: la qualità del ragionamento strategico, vale a dire della definizione delle modalità in funzione della finalità politica e della migliore comprensione dell’altra, si conferma una condizione fondamentale per il successo.
Non si può oggi che deplorare il fatto che, sebbene l’avversario iracheno non costituisse evidentemente una minaccia significativa, lo stato Maggiore di CENTCOM (U.S. Central Command), incaricato di preparare l’invasione dell’Iraq si sia concentrato quasi esclusivamente sulle dimensioni tattiche e operative, lasciando da parte problemi molto più complessi del “dopo guerra”, evitando colpevolmente di predisporre e riunire i mezzi – in particolare quelli umani – necessari per la sicurezza immediata del Paese. Agendo in tal modo, detto comando ha posto in un solo colpo Iraq e Stati Uniti in una situazione catastrofica da cui non si è ancora usciti a ben sette anni dalla facile vittoria tattica iniziale. Analogamente per l’Afghanistan: “Dopo la caduta di Kabul e di Kandahar, non esisteva nessuna pianificazione seria che mirasse a stabilire una stabilità politica, sociale ed economica in Afghanistan”, recita la prima storia ufficiale della guerra.
In definitiva, non basta vincere i primi combattimenti: occorre vincere la guerra ovvero vincere alla fine.

Per saperne di più
Corum James C., Fighting the War on Terror, Zenith Press, St. Paul, MN, 2007
Handel Michael J., Masters of War, Classical Strategic Thought, Frank Cass, London, 2001
Hoffman F. G., Decisive Force: The New American Way of War, Praeger, Westport CT, 1996
Nagl John A., Learning to Eat Soup with a knife. A Memoir of Modern War in Theory and Practice, The University of Chicago Press, EU, 2005
Quinlivan James T., Force Requirement in Stability Operations, in “Parameters: U.S. Army War College Quarterly”, v. XXV, no. 4, Winter 1995/96, pp. 59-69
Quinlivan James T., Burden of Victory: The Painful Arithmetic of Stability, ”Rand Review”, Summer 2003
Ricks Thomas E., Fiasco: l’aventure américaine en Irak, Michalon, Parigi, 2008