LA BRUGHIERA, STORIA DI UN PAESAGGIO

di Alberto Conti -

All’inizio del XIX secolo Luigi Bossi, studioso e politico milanese, definiva la brughiera lombarda come un terreno incolto buono per il pascolo e la caccia. Nei decenni successivi l’amministrazione avviò quindi la bonifica di vaste aree, destinandole a bosco e colture. Ma oggi la prospettiva è cambiata e da elemento infecondo della natura, le brughiere sono divenute “luoghi” da proteggere del paesaggio contemporaneo.

Calluna vulgaris

Calluna vulgaris

Si premette che il titolo non intende certo alludere all’assenza di cognizioni comuni sul significato geografico ed ambientale della nozione di brughiera, ma semmai al bisogno, almeno per chi scrive, di interrogarsi sul modo in cui siffatti paesaggi abbiano interagito con la storia dell’ambiente e dell’economia, ma anche della cultura.
Sotto il profilo geografico la brughiera è un terreno pianeggiante, spesso sabbioso o ghiaioso, povero di humus, arido, e coperto da una vegetazione formata da brughi, ginestrone e piante di specie simili. Il brugo (Calluna vulgaris), più noto come erica, è l’elemento più caratteristico, da cui deriva il nome di questo paesaggio.
Un prezioso strumento per conoscere la storia delle brughiere è ancora il saggio, comparso nel 1824, di Luigi Bossi [1], la cui vasta erudizione non consente di “limitarne” le competenze all’ambito agronomico. In effetti, l’autore era prima di tutto un politico ed intellettuale a tutto tondo, a lungo protagonista della vita pubblica durante l’età napoleonica [2].
Una licenza sentimentale, in apertura del saggio, ci mostra l’autore intento a rappresentare una sorta di “imprinting” che avrebbe forgiato, per così dire, la sua spiccata attitudine per lo studio delle brughiere: «Avendo io avuto l’opportunità fin dall’infanzia di passare ogni anno sotto il paterno tetto qualche periodo di tempo […], sul margine di una delle più vaste brughiere della Lombardia, mi sono sovente occupato, […] del più minuto esame delle particolari circostanze di quella vasta pianura». Licenza che facciamo in qualche modo nostra, sebbene gli intenti siano assai minuti rispetto al rigoroso ed appassionato lavoro realizzato dal dotto milanese.
Data la densità del saggio in questione, si cercherà di fissarne alcuni aspetti, o temi, anche nella prospettiva di ulteriori riflessioni sul nostro presente.

Il primo elemento da sottolineare è il carattere assolutamente specifico attribuito alle brughiere, sin dai tempi antichi, che tendenzialmente non venivano mai ad essere confuse con le lande, ovvero, genericamente, con le pianure incolte. Ora, soprattutto nella prospettiva medievale, ma anche dell’età moderna, tale connotazione assumeva una rilevanza squisitamente economica. Tanto che, in alcuni documenti del tardo Medioevo, l’assegnazione di fondi non coltivati prevedeva una gerarchia di valori che vedeva le brughiere posposte ai boschi, alle selve ed alle lande.
Neglette, quindi, le brughiere, ma fino ad un certo punto. Sicuramente, sotto il profilo economico, quest’ultime erano fortemente penalizzate dall’aridità del suolo, che faceva disperare della possibilità di impiantare coltivazioni. Ma, scriveva Bossi: «Erano certamente terreni incolti le brughiere […] ma tuttavia non riguardavansi come affatto inutili e perduti [..]». Il riferimento va, fondamentalmente, alle attività di pascolo. Quest’ultimo beneficiava, per così dire, di quello strato di erbetta sottostante la vegetazione (sempre che gli “avidi” contadini non la strappassero insieme all’erica,e qui troviamo, ancora una volta, il diffuso pregiudizio nei confronti dei rurali, rispetto al quale occorrerebbe sviluppare un discorso a parte) di sicuro nutrimento per capre e pecore. Non andrebbe neppure trascurato che, proprio in virtù della povertà di queste pianure, il tanto temuto pascolo delle capre (di cui si stigmatizzava, nella stampa dell’epoca, il carattere nefasto all’interno di boschi e foreste, anche per silenziare la cattiva coscienza dei danni provocati, in maniera ben più pesante, dai comportamenti umani) non avrebbe potuto provocare guai particolari.
L’erica, poi, mescolata con il concime animale e altro materiale organico e vegetale, costituiva, specie laddove gli animali erano scarsi, una buona alternativa per aumentare la fertilità delle campagne.

Brughiera nel North Yorkshire

Brughiera nel North Yorkshire

Altro elemento significativo era la caccia, nei limiti in cui, regolamenti magari a nostri occhi sorprendenti, consentivano. E le fonti raccolte da Bossi attestano come essi si riferissero più alle brughiere che non alle lande, in virtù della relativamente più diffusa vegetazione presente nelle prime, in grado quindi di «dar ricetto a molte specie di selvaggiume».
Non poteva infine sfuggire ad uno studioso sensibile anche a sollecitazioni culturali e politiche, una dimensione per così dire sociale delle brughiere, almeno nella prospettiva medievale e della prima età moderna: ovvero la concentrazione di uomini per lo svolgimento di giostre e tornei, o in un contesto affatto ameno, per l’accampamento di militari. È evidente che, proprio l’assenza di impedimenti naturali, “promuovesse” queste pianure ad ospitare siffatte attività.
Prima di proseguire nella nostra storia, una riflessione. In quella che era ormai l’epoca del “pittoresco”, ovvero di quell’attitudine estetica e culturale volta al superamento delle tradizionali categorie del bello e del sublime (come ci ricorda Jakob: «Sono pittoreschi: una vecchia torre in rovina nel mezzo di un sito bucolico, un cottage abbandonato, villaggi e sentieri solitari» [3]), lo spazio fisico occupato dalla brughiera poteva esercitare una nuova attrattiva? Poteva, per contrasto, competere con la ridente immagine di un paesaggio coltivato o riccamente fiorito? Non sappiamo se tali suggestioni esercitarono una presa sul nostro autore, che certo (ce lo ricorda nell’incipit del suo saggio) era anche un attento osservatore del paesaggio. Non sarebbe comunque ozioso interrogarsi su come la nuova estetica potesse conciliarsi con l’attitudine utilitaristica volta allo sfruttamento economico dell’ambiente naturale, soprattutto nella prospettiva storica che vedeva, proprio in quell’epoca, maturare profondi cambiamenti all’interno delle aree geografiche economicamente più sviluppate. [4]

Tralasciando, in questa sede, le “escursioni” compiute dal nostro autore nei paesi del nord Europa, e delle loro vaste brughiere, prenderemo spunto in particolare dall’analisi riguardante le brughiere lombarde, storicamente le più importanti ed estese della penisola. Che esse avessero accompagnato la storia secolare delle popolazioni locali è attestato anche dal nome di molti villaggi, come Brugherio, Brugo, Brugorella ecc. L’aspetto più rilevante, sotto il profilo ambientale e paesaggistico, è dato certamente dal vasto processo di dissodamento intervenuto a partire, probabilmente, già dal pieno e tardo Medioevo, che ha progressivamente conquistato alla coltura vaste aree prima incolte («e l’incremento della coltivazione avea fatto in molti tratti sparire la trista erica, fatale indizio di sterilità»). La progressiva riduzione degli incolti, attraverso la loro riduzione a selva o a bosco prima, e con l’impianto di colture poi, ha segnato profondamente la storia del paesaggio lombardo; e lietamente commentava Bossi: «Non passa anno che non si vegga qualche felice attentato all’integrità dello spazio delle brughiere».
D’altra parte, si trattava di un processo tutt’altro che semplice, e non sempre si raggiunsero i risultati auspicati. Nel vivace dibattito che, a partire dal Settecento, si sviluppò in ordine al precario stato delle risorse boschive del Paese, si operò, tra l’altro, per promuovere l’impianto di boschi proprio nelle brughiere lombarde. Per ragioni anzitutto ambientali, e forse anche economiche, solo un terzo delle brughiere esistenti furono convertite a coltura o a bosco, nel trentennio 1750-1780 [5]. Un risultato, comunque, non certo disprezzabile. Lo stesso Bossi spiegava molto bene le difficoltà che si frapponevano – per esempio nella vasta brughiera di Gallarate – all’opera di dissodamento, riconducibili agli elementi costitutivi di un terreno che riteneva per pochissimo tempo l’umidità; quindi, in carenza di piogge, le colture impiantante fatalmente si inaridivano.
Quanto fosse avvertita l’esigenza di incrementare gli spazi da destinare a coltura è del resto testimoniato dagli sforzi volti al recupero della vasta brughiera detta “Groana”, nei pressi di Milano. In piena età austriaca un progetto di riqualificazione ambientale fu studiato dall’ingegner Albino Parea, che illustrava nel dettaglio costi e benefici connessi all’esecuzione degli interventi che egli prospettava [6].
Ironicamente, ma ci torneremo più avanti, l’attuale ente “Parco delle Groane” e quanto resta della vasta brughiera di Gallarate, sono assunti oggi a modello di conservazione ambientale e di difesa della biodiversità.

Anton Mauve, Spigolatori nella brughiera, 1882-1888

Anton Mauve, Spigolatori nella brughiera, 1882-1888

L’alta pianura lombarda fu in generale investita da un faticoso processo volto a bonificare le sue vaste e diffuse brughiere, ma, intorno al 1850, Stefano Jacini registrava che esse occupavano ancora circa 18.000 ettari delle province di Como e di Milano [7]. Significative le analisi di Luigi Faccini [8] che, a proposito delle immani difficoltà che si frapponevano alla bonifica di queste terre, evidenziava come le trasformazioni intervenute fossero prevalentemente affidate all’azione individuale dei singoli agricoltori, «che riuscivano a costo di grandi fatiche a dissodarne pertica dopo pertica». Lo iato rispetto al velenoso giudizio di Luigi Bossi sui rustici non potrebbe essere più marcato. D’altra parte, il politico ed intellettuale milanese era decisamente in buona compagnia, quanto a diffuso pregiudizio nei confronti dei contadini delle campagne italiane.
Proprio l’esito di questa ricerca di Faccini, nel territorio storico di Lonate Pozzolo (l’attuale provincia varesina [9]), offre lo spunto per osservare le diverse dinamiche insediative che hanno caratterizzato le realtà ove insistessero ampie, o comunque significative, vegetazioni a brughiera.
Se un’istantanea sui villaggi della pianura irrigua mostrava le tracce dell’impetuoso appoderamento e la diffusione di cascine, laddove il contesto ambientale non consentisse lo strutturarsi di aziende compatte, in luogo delle abitazioni in campagna l’insediamento dei contadini tendeva a concentrarsi nel centro abitato.

Tornando sui nostri passi, resta un ultimo aspetto da sottolineare del saggio di Bossi, che non a caso vantava una notevole competenza di amministrazione pubblica, ovvero la necessità – o forse anche l’inevitabilità – che gli interventi di dissodamento e bonifica delle brughiere venissero assunti dallo Stato, e ben spiegava che «invano si aspetterebbe ch’egli [il privato proprietario, n.d.a.] facesse da quel lato alcun tentativo il quale, coronato anche da parziale successo, ridonderebbe per la maggior parte a privato vantaggio». Questione, evidentemente, non peregrina, destinata a confliggere con le carenze dei bilanci pubblici (tanto in età austriaca che nell’età post-unitaria).
Se è stato magistralmente osservato che una cultura ecologica esisteva anche nell’età moderna [10], non vi è dubbio che lo sviluppo delle conoscenze scientifiche e le condizioni di profondo dissesto ambientale che caratterizzano lo stato del pianeta, abbiano contribuito ad attivare un processo di palingenesi culturale dell’uomo rispetto al bene Natura. In questa prospettiva, le brughiere, come accennato sopra, lungi da rappresentare una “sconnessione” della natura feconda e produttiva, assumono ora uno spiccato interesse di studio ambientale e spesso sono fonti di sorprese scientifiche per l’originale equilibrio del proprio ecosistema. Ma, soprattutto, rappresentano una delle tante “frontiere” da proteggere del paesaggio contemporaneo.
Già in questa prospettiva, all’inizio degli anni Ottanta del XX secolo, il Consiglio Nazionale delle Ricerche aveva avviato una serie di ricerche sulle brughiere italiane [11], destinate ad affrescare scientificamente siffatti paesaggi. Studi che si sono concentrati in particolare sulle brughiere lombarde e piemontesi, dove i caratteri di questa vegetazione assumono le massime estensioni ed omogeneità.
Il carattere fortemente specialistico di questi studi non consente, in questa sede, di illustrarne le significative acquisizioni, spesso pioneristiche sotto il profilo scientifico. Un solo inciso, rispetto agli elementi evolutivi di questi ecosistemi, per l’osservazione (ripresa da Moser) riguardante la diffusa presenza – nelle brughiere presenti nelle province di Milano e di Como – del pino silvestre che, lungi dal costituire un effetto delle forestazioni artificiali decise ai tempi di Maria Teresa d’Austria, rappresenterebbe invece la continuazione di un tipo di flora già presente nei rispettivi territori sin da tempi antichissimi [12].

Brughiera di Malpensa-Parco del Ticino (Joseph ticino)

Brughiera di Malpensa-Parco del Ticino (Joseph ticino)

È emerso – e in qualche modo è programmaticamente costitutivo di questo breve saggio – il carattere interrelato dei fattori paesistici, economici e culturali, solo apparentemente meno rilevante laddove il contesto sia quello di brughiera, piuttosto che di territorio ad alto livello di utilizzazione agraria e a forte insediamento umano. Vale la pena di riprendere un illuminante osservazione di Andrea Zanzotto[13], il cui “naturalismo” era tutt’altro che portato a trascurare l’importanza dell’insediamento antropico: «Il paesaggio viene dunque ad animarsi e a meglio splendere nel lavorio umano che vi opera, perché al di sotto della sua apparente insignificanza esistevano elementi che un “giusto” antropocentrismo ha fatto risaltare». Dove, quel “giusto” pareva prefigurare già i tanti scempi che, al contrario, di quanto egli auspicava, si sarebbero compiuti nei decenni a venire. Sotto questo, decisivo aspetto, il paesaggio viene assunto in tutta la sua straordinaria multiformità. Ed è stata forse una necessità, per il poeta veneto, in una recente premessa alla propria lirica, Rivolgersi agli ossari, chiarire che egli si prefiggeva lo scopo di «delineare un’allegoria dell’attuale topografia del Montello, del suo terreno tragicamente ipersedimentato, dove i segni impressi dalla catastrofe della guerra (i resti dei caduti) si mescolano ai sedimenti dei processi naturali, agli scarti dei weekendisti, ai ruderi della Certosa e dell’Abbazia, alle tracce lasciate nei secoli»[14]. Così, il poeta: «[…] Sempre più con essi, dolcissimamente, nella brughiera/ io mi avvicendo a me, tra pezzi di guerra sporgenti da terra,/ si avvicenda un fiore a un cielo/ dentro le primavere delle ossa in sfacelo,/ si avvicenda un sì a un no, ma di poco/ differenziati, nel fioco/ negli steli esili di questa pioggia, da circo, da gioco»[15]. Un microcosmo poetico, questo, in qualche modo rappresentativo della storia secolare del paesaggio, e della sua identità, messa in crisi dai cambiamenti e dalle violenze. Ma noi crediamo che la brughiera sarà sempre «eletta dalla lepre» e che il pioppo tremebondo continuerà ad esigerla come proprio «ombroso letto»[16].

 Note

 [1] Memorie dell’Imperiale Regio Istituto del Regno Lombardo- Veneto, III volume, Milano, 1824 pp.149-181.

[2]  Per un profilo di Luigi Bossi si veda il Dizionario biografico degli italiani, Treccani.

[3] M.Jakob, Il paesaggio, Bologna, 2009, p.92.

[4] Il riferimento va, naturalmente, alla rivoluzione industriale o ai suoi prodromi. Si veda, per la Lombardia, quanto scriveva un importante storico: «Allora [i primi decenni dell’Ottocento, n.d.a.] i boschi della merlata non erano lontani dalle mura e accompagnavano le strade della Brianza verso Erba e Como, prima di scomparire, nell’inoltrarsi del secolo, quando, soprattutto a iniziare da quegli anni Sessanta, andava dileguando, nella preoccupazione di un esasperato e remunerativo sfruttamento agrario delle ultime aree incolte, quell’Ottocento ancora largamente segnato da pascoli e pittoresche campagne che le tele dell’epoca ci rivelano morente». V. Fumagalli, L’uomo e l’ambiente nel Medioevo, Roma-Bari, 2003, p. 58.

[5] B.Vecchio, Il bosco negli scrittori italiani del settecento e dell’età napoleonica, Torino, 1974, pp.74-76.

[6] “Giornale Agrario del Lombardo- Veneto”, settembre-ottobre 1837, pp.129-136

[7] S. Jacini, La proprietà fondiaria e le popolazioni agricole in Lombardia, Milano,1856, p.53.

[8] Storia d’Italia – Atlante – Immagini e numeri dell’Italia, Torino, Milano, 2005, p.534-536.

[9] Ivi, p.536.

[10] D. Worster, Storia delle idee ecologiche, Bologna, 1994, pp.16 e succ.

[11] Consiglio Nazionale delle Ricerche, “Quaderni sulla struttura delle zoocenosi terrestri” 1. La Brughiera Pedemontana, Roma,1980.

[12] Ivi, p.17.

[13] A. Zanzotto, “Ragioni di una fedeltà”, in Luoghi e paesaggi, a cura di M. Giancotti, Milano,2013, p.70.

[14] http://www.griseldaonline.it – A. Zanzotto, Per il 150° dell’Unità d’Italia.

[15] A. Zanzotto, “Rivolgersi agli ossari”, in Tutte le poesie, Milano, 2011.

[16] Ivi, Ecloga IX, p.223.