KISSINGER O IL RITORNO DELLA REALPOLITIK

di Massimo Iacopi -

Henry Kissinger ha diretto la diplomazia americana sotto le presidenze Nixon e Ford. Con il primo ha formato un duo indissolubile, passato alla storia come “Nixinger”.

Non si può regnare innocentemente, tuonava con piglio accusatorio Louis Antoine de Saint Just in occasione del processo contro re Luigi XVI. L’esponente della Convenzione era in una posizione tale da potersi esprimersi a ragione in questo senso e non ci daremo la pena di contraddirlo e di discolpare conseguentemente il “potere” e i suoi gestori. La politica di Henry Kissinger è stata invece un qualcosa al di là del bene e del male: la popolarità del personaggio ne ha sofferto ma il suo soggiorno al Dipartimento di Stato ha consentito agli Stati Uniti di segnare punti preziosi nel confronto con l’URSS.
Nel tribunale della storia non sono mancati “procuratori” disposti a inviarlo all’inferno. La sinistra pacifista lo ha considerato un criminale di guerra, la destra anticomunista un agente sovietico, gli Ebrei un antisemita e gli antisemiti l’istigatore di un complotto ebraico mondiale. Persino la giustizia si è interessata a Kissinger: magistrati argentini, spagnoli e francesi hanno cercato, invano, di far comparire davanti ai loro tribunali il potentissimo consigliere (1969), quindi Segretario di Stato (1973-1976, equivalente del nostro Ministro degli Esteri) di Richard Nixon e di Gerald Ford. Nel 2001 il giudice cileno Juan Guzman Tapia lo ha sottoposto a una serie di domande sui rapporti con il generale Augusto Pinochet e la responsabilità avuta nella caduta di Salvador Allende nel 1973, ma, anche in questo caso, invano.
Kissinger rimane per molti la personificazione del diavolo, affascinante come la figura di un Charles Maurice de Talleyrand. Mefistofelica è l’impressione che lascia il nostro allo scrittore Gore Vidal, amico dei Kennedy. Un giorno, nel corso di un ricevimento alla cappella Sistina, Vidal spinge un Kissinger assorto nella contemplazione del Giudizio Finale di Michelangelo Buonarroti e della parte che presenta i dannati precipitati nell’Inferno. Guardate – sembra abbia detto Vidal a un amico – cerca un appartamento. Lo scrittore alludeva probabilmente a una sistemazione fra l’ottavo e il nono cerchio dantesco, dove stanno gli astuti e i furbi.
A dire il vero, Kissinger non merita tanto risentimento, né del resto tanti onori, lui che nel 1973 si é visto assegnare il Premio Nobel per la Pace per essere stato l’artefice degli Accordi di Parigi, che tuttavia non impediranno alla Guerra del Vietnam di continuare ancora per due anni. Tutto questo traspare dalla recente biografia fiume che gli ha dedicato il professore Charles Zorgbibe della Sorbona, un vero e proprio romanzo di una vita e al tempo stesso una cronaca attenta del XX secolo.

Henry Kissinger

Henry Kissinger

Partito dal nulla, Kissinger ha conquistato l’America. Nato Heinz Alfred Kissinger in Germania nel 1923, durante la Repubblica di Weimar, emigra negli Stati Uniti insediandosi con la famiglia a New York nel 1938, in un quartiere popolato da rifugiati che i nuovo arrivati denominavano “Quarto Reich”. Nel 1943 il giovane Heinz diventa Henry e segue un corso di formazione per ingegnere militare, prima di essere incorporato nell’Esercito. Sotto la bandiera statunitense si legherà d’amicizia con Fritz G. A. Kraemer, un incorreggibile prussiano passato al nemico, fervente anticomunista e antinazista. «Dopo venti minuti di colloquio – confiderà Kraemer – avevo capito che questo piccolo rifugiato ebreo di 20 ani, che non aveva mai parlato di politica internazionale con la sua famiglia, aveva un orecchio storico, come altri hanno un orecchio musicale. Egli risultava accordato musicalmente alla storia». Nel frattempo, Kissinger partecipa ai combattimenti davanti ad Aquisgrana, dove otterrà una medaglia. Ha appena 22 anni quando viene nominato amministratore militare di una città industriale di 200 mila abitanti, non lontano da Dusseldorf.
Nell’autunno del 1947 Kissinger si iscrive ad Harvard, dove diviene uno dei pilastri del Dipartimento di studi governativi. Ma, allo stesso tempo, vuole evitare di lasciarsi richiudere in una torre d’avorio. Personaggio dalla mentalità teoretica, egli mette tuttavia in evidenza anche elevato senso pratico. Inizialmente sceglie come padrino Nelson Rockfeller, ma sarà un errore. Troppo aristocratico, il ricco e brillante ereditiere fallirà nel suo tentativo di ottenere la suprema magistratura, licenziando per l’occasione Kissinger e sarà proprio Nixon che lo batterà alle primarie repubblicane del 1968.

Richard Nixon

Richard Nixon

Nixon e Kissinger formeranno una coppia esplosiva: “Nixinger”, la somma del figlio di uno pizzicagnolo quacquero e di un rifugiato ebreo tedesco. L’uomo che malediva i club accademici della East coast e l’universitario di alto livello. Il primo che sghignazzava in privato de suo “ragazzo ebreo”, il secondo che giudicava il suo datore di lavoro come “un pazzo circondato da pazzi”. Tutto sembrava opporli e alla fine la stampa adotterà Kissinger e “brucerà” Nixon, che si accigliava solo alla vista di un giornalista, mentre Kissinger, armato del suo sorriso, distillando brevi frasi, ipnotizzava i suoi interlocutori con il fascino del professore cinico e distaccato.
Se i due uomini non si sono amati, essi si riconoscevano una medesima ambizione basata sulla stessa concezione dell’agire politico, sulla scarsa considerazione per le “teste” del Pentagono e per le procedure di controllo delle democrazie parlamentari. Li animava una convinzione profonda, secondo il suo biografo, e cioè quella “di essere rivoluzionari bianchi” – come Otto von Bismarck, per Kissinger o Benjamin Disraeli per Nixon -, vale a dire dei conservatori che hanno sottratto ai rivoluzionari la “folgore” del cambiamento al fine di contribuire a un mondo più stabile. Se non sono riusciti a uscire a buon mercato dal pantano vietnamita, questi due dichiarati anticomunisti sono riusciti tuttavia ad associare la Cina di Mao Zedong al gioco diplomatico, spezzando il sistema bipolare ereditato da Yalta e iniziando un percorso di distensione con l’URSS. Un vero e proprio colpo da maestri.

Nel corso della sua carriera, Kissinger darà l’idea di essere diventato americano per caso, come un personaggio uscito da un romanzo di Henry James. In lui non si trova nulla del sogno wilsoniano di un mondo retto da una concezione moralizzatrice del diritto internazionale. D’altronde Kissinger non perderà occasione per stigmatizzare la “sindrome di Wilson”: la pace non nasce dal pacifismo ma un principio di legittimità riconosciuto da tutti. Il modello di riferimento è il Congresso di Vienna – al quale aveva consacrato la sua tesi nel 1954 -, che lungi dall’escludere la Francia l’aveva costretta al tavolo dei negoziati.
L’uomo rimane nostalgico di un ordine internazionale passato, vicino all’Europa classica e al conservatorismo illuminato delle cancellerie dell’Ancien Regime. I suoi uomini si chiamano Klemens von Metternich e Robert Stewart, secondo marchese di Londonderry, visconte Castlereagh. Nel presente, nutrì qualche simpatia per Charles De Gaulle.
Nel Paese del messianismo puritano bagnato di idealismo, egli sembra un corpo estraneo. La sua finezza, il suo brio intellettuale, la sua classe mondana potevano, al limite, sedurre i saloni di Park Avenue, ma non l’animo dell’America profonda. Questa è la ragione per cui il tandem con Nixon è stato così temibile. La coppia “Nixinger” è riuscita a far uscire la politica estera americana dai suoi dilemmi morali e dalle sue prediche umanitarie.
Un problema richiamò la sua attenzione: come evitare che il confronto fra Stati sovrani potesse degenerare nel caos. Da buon realista, egli era convinto che la pace non poteva essere assicurata che attraverso un equilibrio di forze fra i principali attori. Mai uno Stato deve risultare così potente al punto che i suoi vicini non possano essere in condizioni di difendersi. A titolo d’esempio, Kissinger ricordava la politica britannica sul continente alla fine del XIX secolo, orientata, a seconda delle circostanze, contro gli Asburgo e i Borboni, in modo da non degenerare mai in una “monarchia universale”. Una lezione di Realpolitik.

Kissinger e Mao nel 1972

Kissinger e Mao nel 1972

Il realismo nasce da una svalutazione della politica, una svalutazione che nasce in Sant’Agostino nella sua descrizione della Città di Dio. Secondo il vescovo di Ippona, ci sarebbe solamente una differenza di gradi fra lo Stato e un’impresa criminale, due organismi fondati sulla costrizione e sull’uso della forza per fini ingiusti. Laddove la giustizia è assente, a cosa assomigliano i regni se non a grandi bande di briganti? Cosa sono effettivamente queste bande se non dei regni rudimentali?
Distaccata dal suo contesto teologico, questa visione pessimista si ritroverà presso Niccolò Machiavelli. Kissinger la farà sua, richiamandosi alla tradizione della ragion di Stato e dell’autonomia dell’esecutivo, contro la quale i padri fondatori della costituzione americana avevano voluto premunire la loro nazione. «La politica porta ad equilibrare i rischi, l’amministrazione ad evitare di allontanarsi dalle regole», afferma Kissinger. Nulla deve fare da ostacolo al Principe, ma Nixon e Kissinger commettono inevitabilmente delle imprudenze intrallazzando nell’ombra. Quando scoppierà lo scandalo Watergate, la mania del segreto si rivolgerà contro di loro, con Nixon costretto a trincerarsi nella menzogna fino alle dimissioni finali.
Nixon, scegliendo di presidenzializzare il regime, ha prestato il fianco alla critica, sovraesponendo la Casa Bianca, ma sarà sotto il suo mandato e sotto quello di Gerald Ford, suo vice presidente diventato suo successore, che la “repubblica imperiale” si rafforza. Gli Stati Uniti interverranno, direttamente o indirettamente, in numerosi Paesi, invece di ricoprire il ruolo di “giocatore di riserva” sulla scacchiera internazionale al quale Kissinger teneva tanto. Arthur Meier Schlesinger junior, collega di Kissinger ad Harvard e storico di orientamento democratico, ha tratteggiato l’ascensione della “presidenza imperiale” datando la sua nascita al 1941, al momento dell’entrata in guerra, in sintonia con le preferenze di un Roosevelt disallineato rispetto a una opinione pubblica tendenzialmente isolazionista. La guerra fredda concentrerà ancora di più il potere nelle mani dell’esecutivo, che da quel momento verrà a trovarsi in prima linea.
In ogni caso Nixon merita molto di più del nomignolo che gli è stato affibbiato dagli avversari, Dick the cheat (Dick, diminutivo di Richard, l’imbroglione). Nelle recenti biografie, in particolare quella di Antoine Coppolani, docente di storia contemporanea presso l’Università Parigi 3, la sua politica tanto esecrata è stata riabilitata. A lui va il merito del riavvicinamento sino-americano.
Alla fine, secondo gli auspici di Kissinger, il mondo si è per certi aspetti “disamericannizzato” ed è ritornato ad essere un sistema multipolare, anche se assomiglia sempre a quel “circolo chiuso” planetario descritto da René Jean Dupuy (maestro di Zorgbibe). Se l’Europa sembra avere rinunciato alla Realpolitik, i Paesi emergenti o “riemergenti” come Cina e Russia ne hanno fatto la base della loro politica estera. In tal modo la concezione dell’ordine mondiale, cara a Kissinger è tornata a trionfare a Pechino e Mosca, ma non a Washington ed ancor meno nelle grandi capitali europee. Come sempre: Nemo propheta in patria sua.

Per saperne di più

Charles Zorgbibe, Kissinger – Éditions de Fallois, 2015.
Mario del Pero, Henry Kissinger e l’ascesa dei neoconservatori – Laterza, Roma, 2006.
Robert Dallek, Nixon and Kissinger. Partners in Power – HarperCollins, 2007.
Antoine Coppolani, Richarda Nizon - Fayard, 2013.